Taiwan Files – Il nuovo status quo

In Asia Orientale, Relazioni Internazionali, Taiwan Files by Lorenzo Lamperti

Edizione speciale della rassegna di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei (e dintorni) con recap delle ultime due settimane sullo Stretto tra la visita di Nancy Pelosi a Taipei, il suo contesto e i suoi effetti sul triangolo Cina-Usa-Taiwan e sulla politica interna taiwanese, la reazione di Pechino tra esercitazioni militari e libro bianco. Arrivando alla nuova delegazione congressuale americana. Con interviste, analisi e riflessioni

Per sintetizzare al massimo quanto sta accadendo in queste settimane e provare a immaginare i futuri scenari sullo Stretto di Taiwan, le domande da farsi sono sostanzialmente tre: Pechino pensa che sia ormai inevitabile utilizzare in un più o meno prossimo futuro la forza per ottenere la “riunificazione”? Taipei crede che sia ormai inevitabile che prima o poi sarà chiamata a combattere se non vorrà accettare una “unificazione”? E Washington ritiene che sia inevitabile lo scontro con quello che ormai ritiene il suo rivale numero uno, la Cina appunto, magari proprio su Taiwan?

Intanto, da qualunque prospettiva la si guardi, questa storia sta erodendo lo status quo (in questa scheda per Wired ho provato a riassumere perché Taiwan è così importante). Quantomeno i suoi contorni. Una storia, quella del viaggio di Nancy Pelosi a Taipei, di cui ho iniziato a parlare su Taiwan Files lo scorso 20 luglio. E che in realtà ha un preambolo, all’inizio dello scorso aprile, quando l’indiscrezione sulla sua possibile visita a Taipei fu poi cancellata causa Covid-19. Ne avevo scritto qui.

Con la nuova delegazione americana e le nuove esercitazioni cinesi che si inseriscono in un contesto da “botta e risposta” frutto di una fase di ridiscussione dello status quo. Parto da qui, per poi ripercorrere le tappe della vicenda Pelosi con analisi e interviste, cercando di raccontare la situazione attuale sullo Stretto con uno sguardo anche a quanto potrà accadere nel prossimo futuro.

La nuova delegazione americana

A soli dodici giorni dalla visita di Pelosi, un’altra delegazione del Congresso statunitense è giunta a Taiwan domenica 14 agosto. Ad atterrare all’aeroporto Songshan di Taipei, è stata una delegazione bipartisan di cinque persone, tra senatori e membri del Congresso, guidata dal senatore democratica del Massachusetts Ed Markey. In una nota, l’American Institute in Taiwan ha specificato che la delegazione avrebbe incontrato i leader taiwanesi “per discutere le relazioni tra Taiwan e gli Stati Uniti, la sicurezza regionale, il commercio e gli investimenti, le catene di fornitura globali, il cambiamento climatico e altre questioni significative di interesse reciproco”.

Taiwan ha mostrato “un incredibile autocontrollo” rispetto alle sfide provenienti dalla Cina, ha detto Markey durante l’incontro con Tsai, e in questo momento corre “l’obbligo morale” di proteggersi da “qualsiasi conflitto non necessario”. La visita è “un riflesso della duratura amicizia e degli scambi in corso tra Taiwan e gli Stati Uniti”, ha commentato Tsai su Twitter, allegando immagini dell’incontro con i membri del Congresso Usa, e “facilita legami più forti e più sostanziosi”. Stiamo facendo “tutto quello che possiamo”, ha detto Tsai durante l’incontro, “per fare in modo che il mondo sappia che Taiwan è determinata a salvaguardare la stabilità e lo status quo nello Stretto di Taiwan”.

In risposta alla visita, il Comando Orientale dell’Esercito Popolare di Liberazione ha lanciato nuove manovre, organizzando una pattuglia di prontezza al combattimento ed esercitazioni di combattimento reali nel mare e nello spazio aereo attorno a Taiwan, come “solenne deterrente” per i “brutti scherzi politici” di Taiwan e degli Stati Uniti. Le nuove esercitazioni si sono svolte nei pressi delle isole Penghu, situate nello Stretto di Taiwan. Un video rilasciato dall’esercito cinese mostra un’inquadratura aerea dell’arcipelago, sede di una importante base aerea. Il ministero della Difesa di Taipei ha comunicato di aver osservato lunedì 15 agosto 5 navi e 30 jet sullo Stretto, di cui 15 oltre la linea mediana.

Con la visita della nuova delegazione Usa a Taiwan si torna a un più consueto low profile con comunicazioni e non annunci e incontri a porte chiuse. Il viaggio si inserisce in una lunga serie di altri viaggi di questo tipo che hanno solitamente attirato meno tensioni rispetto al caso Pelosi. La differenza è la vicinanza alla visita di Pelosi e alle esercitazioni cinesi. Questo può rischiare di offuscare il messaggio “business as usual” (se questo è ciò che si vuole dare) con la possibilità che stimoli la prosecuzione del “botta e risposta” diplomatico/militare.

Come previsto, l’Esercito popolare di liberazione ha reso noto di aver condotto nuove esercitazioni militari intorno a Taiwan dopo l’arrivo della nuova delegazione. Dopo aver elevato il livello della reazione militare, le incursioni nell’ADIZ che si innalzavano in concomitanza delle visite non bastano più. Ora si va oltre la linea mediana (anch’essa non riconosciuta da Pechino ma solitamente rispettata pre Pelosi) e appunto con esercitazioni sullo Stretto e attorno a Taiwan.

Il precedente di Gingrich nel 1997

«La Repubblica di Cina è uno stato sovrano che non ha bisogno di dichiarare indipendenza». E ancora: «La Repubblica di Cina a Taiwan vuole svilupparsi in un paese più libero, democratico e prospero entro i prossimi tre decenni; così facendo, saremo in grado di discutere da pari con l’altra parte dello Stretto la questione dell’unificazione nazionale quando i tempi saranno maturi». Era l’aprile del 1997 quando Lee Teng-hui pronunciava queste parole di fronte a Newt Gingrich. Lee era il primo presidente taiwanese democraticamente eletto. Gingrich era lo speaker della Camera degli Stati Uniti. Pechino osservava con fastidio e ancora i postumi dell’onta subita dall’invio della flotta americana da parte di Bill Clinton per proteggere Taiwan dopo il lancio di missili che avevano dato vita alla terza crisi sullo stretto.

Gingrich incontrò Lee nel suo ufficio presidenziale in un imprevisto allungamento del suo viaggio nella Repubblica popolare, nel quale sostenne di aver detto a Jiang Zemin che l’America avrebbe difeso militarmente Taiwan in caso di invasione. Altri tempi. La Cina era meno forte, gli Usa meno deboli. Quel viaggio sigillò la fine della terza crisi sullo stretto, quello di Pelosi potrebbe secondo alcuni aprirne una quarta.

Per Pechino la visita di Pelosi è stata di una mossa più grave rispetto a quella del 1997. L’allora speaker della Camera era un repubblicano all’opposizione di Bill Clinton. Pelosi è democratica come Biden e ciò non consente a Pechino di giustificare il viaggio come prodotto di uno scontro politico americano. Qui invece le parole di Pelosi e la sua sola presenza sarebbero interpretate come un’emanazione della Casa bianca, nonostante la presa di distanza tentata da Biden nei giorni precedenti alla telefonata con Xi Jinping. L’opposto di quanto accaduto a marzo, quando Biden aveva mandato una delegazione per tamponare la visita di Mike Pompeo (ne avevo scritto qui) prendendone simbolicamente le distanze. La Repubblica Popolare è peraltro molto più ambiziosa, più forte, apparentemente più pronta a “vedere le carte” degli Usa rispetto a 25 anni fa, fresca d’umiliazione per l’invio della flotta americana che pose fine alla terza crisi sullo Stretto.

3 agosto. La visita di Pelosi

La visita di Nancy Pelosi è finita, un periodo delicato e rischioso per Taiwan è appena cominciato. Sono passati pochi istanti dalle 18 di mercoledì 3 agosto quando l’aereo della speaker della Camera degli Stati Uniti decolla dall’aeroporto Songshan di Taipei. Diciannove ore e diciannove minuti. Tanto è durata la permanenza di Pelosi a Taipei, un lasso di tempo maggiore di oltre sei volte rispetto a quello del predecessore Gingrich. La differenza non è solo quantitativa, ma anche qualitativa. L’allora speaker della Camera si limitò a incontrare il presidente Lee Teng-hui. Pelosi è invece andata fino in fondo a un’agenda da visita ufficiale. Non tanto per l’incontro con Tsai Ing-wen, definita «presidente» ed «eccezionale statista», quanto per il passaggio allo yuan legislativo, il parlamento locale. Era dal 1960 che uno speaker americano non vi metteva piede. Poi la visita a Tsai, che l’ha insignita con l’Ordine delle nuvole propizie con la decorazione di Gran Cordone per aver contribuito al miglioramento delle relazioni bilaterali: atto quasi scontato per visite di tale livello.

Nei discorsi di Tsai e Pelosi nessuna menzione diretta della Repubblica Popolare Cinese, ma grande enfasi al tema dello scontro tra democrazie e autocrazie. Tsai ha garantito di non voler cambiare lo status quo: «I taiwanesi sono pragmatici». Ma ha garantito che Taipei difenderà la «sovranità nazionale» di fronte alle pressioni militari. Il viaggio di Pelosi è ruotato intorno a due parole chiave: diritti umani e commercio. Pur senza portare elementi concreti, il simbolismo della sua agenda e delle sue parole è significativo. Il primo tema è stato toccato sin dall’incontro coi rappresentanti dei quattro partiti presenti in parlamento, con la citazione Tian’anmen. Nel pomeriggio la visita al museo dei diritti umani di Jing-Mei, dedicato alle vittime del “terrore bianco” imposto da Chiang Kai-shek durante la legge marziale in vigore a Taiwan fino al 1987, quando il Guomindang era partito unico. Qui l’incontro con Wu’er Kaixi, uno dei leader delle proteste del 1989 oggi residente a Taipei. Presenti anche altri due dissidenti: il libraio Lam Wing-kee, fuggito da Hong Kong nel 2019, e il taiwanese Lee Ming-che, arrestato in Cina nel 2017.

Ad Asiatica su Radio Radicale ho raccontato la giornata di Pelosi a Taipei e le possibili conseguenze insieme a Francesco Radicioni e Valeria Manieri (si ascolta qui).

La reazione cinese: le esercitazioni militari. Quello che è successo e quello che non è successo

Quello che ha colpito della reazione militare cinese è stata la sua prontezza. E la sua vastità, visto che si sono svolti su sette aree al largo dell’isola principale di Taiwan con un effetto di accerchiamento. Evidente che si trattasse di un qualcosa che sarebbe potuto scattare più tardi senza la visita di Pelosi ma che prima o poi era pronto a scattare. Il primo round è durato sette giorni, ma il messaggio arrivato alla fine di queste esercitazioni è che le manovre cinesi sullo Stretto diventeranno regolari. Poiché la presenza militare cinese intorno a Taiwan è aumentata dalla fine del 2020 (quando Taiwan ha iniziato a pubblicare le cifre del numero di aerei militari cinesi che entrano nella sua ADIZ, spazio di identificazione di difesa aerea), era prevedibile che Pechino avrebbe scelto una risposta che si elevasse visibilmente al di sopra della attività di base.

Pechino ha presentato i test come “una prova generale” di invasione e sostiene di aver dimostrato “l’inesistenza” della linea mediana: si teme dunque che gli spazi marittimi “conquistati” potrebbero essere occupati su base regolare anche nei prossimi settimane e mesi.

Il menù dei test ha visto lancio di missili balistici, blocco navale, simulazioni di attacchi marittimi e terrestri. Dopo aver mostrato le capacità offensive di attacco a distanza e di paralizzazione di porti e aeroporti, l’esercito popolare di liberazione ha testato quelle di offensiva diretta in vista di un ipotetico sbarco anfibio. Impresa considerata per ora prematura da diversi analisti, ma che Pechino potrebbe essere in grado di compiere nel giro di qualche anno. Più in generale, al momento le forze militari cinesi hanno voluto dimostrare di essere in grado di circondare completamente l’isola principale di Taiwan, tagliandole i rifornimenti aerei e navali. E, come viene sottolineato con enfasi dai media cinesi, di occupare anche le acque al largo delle coste orientali. Proprio da dove potrebbero ipoteticamente arrivare in aiuto le flotte di Usa e Giappone in caso di conflitto. Non è un caso che alcuni dei missili Dongfeng lanciati giovedì siano caduti nella zona economica speciale di Tokyo, peraltro non riconosciuta da Pechino, come dimostra il fatto che una delle aree indicate per i test vi si sovrappone per una porzione di mare.

I media cinesi hanno invece sottolineato la «prima volta» dei missili balistici sopra Taiwan. Un modo anche per rimarcare l’effettiva forza della reazione del governo in attesa del tradizionale ritiro di Beidaihe e verso il XX Congresso del Partito comunista dei prossimi mesi. Da Taipei sottolineano che le azioni non sono state condotte in modo simultaneo ma separato, tanto che non ci sono stati effetti concreti sulle spedizioni e sul ricevimeto di merci.

Ma va anche sottolineato quello che non è successo. Per esempio la ricerca di incidenti, coi mezzi cinesi che hanno evitato di stimolare la risposta taiwanese e dunque una potenziale escalation. E i jet di Pechino non hanno sorvolato direttamente il territorio dell’isola, come invece avevano invitato con forza a fare i nazionalisti cinesi alla vigilia della visita di Pelosi. Ancora: non sono state mobilitate le portaerei, così come non sono stati coinvolti i mezzi della guardia costiera. Infine, non sono state violate le acque territoriali taiwanesi nonostante tre delle aree preposte ai test sembravano sovrapporsi.

Segnale che si trattava solo di uno show? Non è detto, tutti questi passi potrebbero essere stati conservati per ulteriori e più drammatiche dimostrazioni di forza da mettere in campo in occasioni future e per dare un’ulteriore segnale di escalation.

La morte di Ou Yang e l’ipotesi del “decapitation strike”

Durante le esercitazioni militari si è parlato anche della morte di un esperto taiwanesi di missili. Il 57enne Ou Yang Li-hsing, vice capo dell’Istituto nazionale di scienza e tecnologia Chungshan, è stato infatti trovato morto sabato 5 agosto mattina nella sua stanza d’hotel. Era il responsabile della supervisione della produzione di diversi tipi di missili e l’istituto di cui faceva parte è il principale centro di ricerca e sviluppo per le armi di produzione nazionale. I medici lo hanno catalogato come un arresto cardiaco, dopo aver saputo che l’uomo soffriva di malattie cardiovascolari e aveva uno stent coronarico. Secondo la polizia sul corpo non c’erano segni di violenza.

La mort di Ou Yang è stata naturale, ma lo sviluppo missilistico è considerato la prima urgenza per il futuro di Taiwan. Tra i possibili scenari di crisi immaginati da Taipei c’è un decapitation strike, strategia che punta a rimuovere i leader politici e militari del rivale atttraverso omicidi mirati e l’utilizzo di team speciali. Un’azione volta a destabilizzare e potenzialmente neutralizzare le capacità di difesa. Durante le recenti esercitazioni annuali Han Kuang, le forze taiwanesi hanno condotto delle simulazioni di risposta a tale scenario. Lo scorso anno è stato simulato un piano di crisi in caso di raid sull’ufficio presidenziale. Bombardare Taiwan e i taiwanesi per il Partito comunista significherebbe bombardare un pezzo di Cina e cittadini cinesi. Eliminando invece figure chiave della sua vita politica o strategica, quelle considerate “secessioniste”, Pechino potrebbe sperare di vincere la guerra senza combatterla.

Che cosa può succedere?

Che cosa può succedere nel prossimo futuro? Per due mesi ci potrebbe essere una fase di calma apparente, con Xi Jinping impegnato a sistemare le «faccende di casa» prima del XX Congresso che dovrebbe tenersi nella seconda metà di ottobre e non a novembre come ipotizzato da qualcuno. «Poi si entrerà in una nuova fase di gioco». Quale gioco?

Il ministro degli Esteri di Taipei, Joseph Wu, ha dichiarato in conferenza stampa che Pechino vuole «collegare il mar Cinese orientale e il mar Cinese meridionale». Ma l’invasione, secondo le fonti de il manifesto, «sarebbe l’extrema ratio. Al momento Pechino ha evitato possibili incidenti, segnale che i test sono una dimostrazione di forza ma non si vuole un’escalation. La Cina sa che Taiwan non andrebbe solo presa ma anche occupata. Senza contare le possibili reazioni degli Usa e dei suoi vicini». Del Giappone, avvisato dai missili balistici nella sua ZES (non riconosciuta da Pechino). O dell’India, che a ottobre svolgerà esercitazioni con gli Usa a meno di 100 km dal confine conteso.

Il Pentagono ha dichiarato che non ha cambiato la sua valutazione sulla tempistica con cui la Cina potrebbe conquistare militarmente Taiwan, rimanendo fedele alle precedenti dichiarazioni secondo cui Pechino non cercherà di conquistarla nei prossimi due anni. Alla domanda se la valutazione del Pentagono, secondo cui la Cina non cercherà di riprendere militarmente Taiwan nei prossimi due anni, fosse cambiata dopo il viaggio di Pelosi, il sottosegretario alla Difesa per la politica Colin Kahl ha risposto: “No”.

Nel 2019 fu lo spazio di identificazione di difesa aerea, nel 2022 è la linea mediana. Nel new normal sullo Stretto di Taiwan la Cina oltrepassa progressivamente degli sbarramenti che non riconosce per avvicinarsi alle coste di Taipei. Sarà questo, sostengono a Taipei, il principale cambiamento operativo scaturito dalla reazione di Pechino alla visita di Pelosi. Il confine sempre più offuscato sulla fine delle esercitazioni militari lo conferma: l’esercito popolare di liberazione regolarizzerà le sue manovre sullo Stretto.

È qui che risiede il vero problema, secondo Oriana Skyler Mastro. “Se le attività in prossimità di Taiwan diventano più routinarie, non solo aumentano l’ansia di Taipei (e probabilmente anche di altre capitali regionali), ma contribuiscono a mascherare i preparativi per una vera e propria campagna militare. La Cina ha bisogno di un elemento di sorpresa per poter conquistare Taiwan prima che l’America abbia il tempo di mobilitare forze adeguate nella regione per difendere l’isola. Se le forze cinesi simulano formazioni, blocchi, attacchi e sbarchi anfibi, sarà più difficile capire quando si stanno preparando per la realtà. La visita di Pelosi ha permesso a Pechino di passare a un nuovo livello di attività militare incontrastato, il che renderà più difficile per l’America difendere Taiwan. Nessun segnale dell’impegno americano nei confronti dell’isola può rimediare”.

Alcuni osservatori ritengono che la strategia possa essere simile al “modello Pechino“. Nel gennaio 1949, l’Esercito popolare di liberazione circondò Pechino, allora occupata dalle forze del Guomindang, e alla fine costrinse i comandanti nazionalisti ad arrendersi, così la liberazione della città fu pacifica. Li Fei, professore presso l’Istituto di ricerca su Taiwan dell’Università di Xiamen, ha affermato che il modello Pechino è un’idea di “riunificazione intelligente”. Tale approccio deve essere portato avanti passo dopo passo e “la normalizzazione delle attuali esercitazioni militari intorno all’isola è un passo avanti”. Se la “riunificazione intelligente” non sarà ancora in grado di realizzare il nostro obiettivo finale, sarà necessario un approccio più diretto basato sulla forza”, ha dichiarato citato dai media cinesi.

Dall’attacco a un’isola minore al decapitation strike: strateghi ed esperti da tempo immaginano le mosse di Pechino per prendersi Taipei. Per Wired ho provato a descrivere quali sono gli scenari e le opzioni militari di Pechino qualora il Partito comunista optasse per una “riunificazione” con la forza.

La guerra cognitiva

“Mai così vicini”. Durante le esercitazioni l’agenzia di stampa cinese Xinhua ha pubblicato la foto di un soldato che segue con un binocolo una fregata di Taipei, lontana solo poche centinaia di metri. Potrebbe essere l’immagine più ravvicinata delle coste taiwanesi mai scattate da un militare cinese. Secondo i media taiwanesi, invece, si tratterebbe di una foto ritoccata per creare panico tra gli abitanti dell’isola. Guerra cognitiva e information warfare sono meno visibili dei missili balistici, ma sono altre armi a disposizione di Pechino per provare a fiaccare le resistenze di Taipei. “La disinformazione spinta dal governo cinese o semplicemente da gruppi locali pro Cina è da sempre presente a Taiwan”, spiega Brian Hioe, scrittore e attivista che si occupa da tempo dell’argomento. “Circolano sui social svariati video e foto fake o decontestualizzati che hanno l’obiettivo di far credere che si prepara un’invasione”, dice Hioe.

Nei giorni scorsi, svariate istituzioni pubbliche tra cui l’ufficio di presidenza e il ministero degli Esteri hanno subito attacchi informatici. Martedì 2 agosto, giorno dell’arrivo di Nancy Pelosi, gli attacchi hanno superato i 15 mila gigabit: 23 volte più del precedente record. Presi di mira anche esercizi commerciali e luoghi pubblici. Sui monitor di 7Eleven, minimarket diffusissimi a Taiwan, e nella stazione ferroviaria di Kaohsiung è apparsa la scritta: “Pelosi guerrafondaia”. Ma “il rischio maggiore potrebbero essere attacchi alle infrastrutture”, avvisa Hioe. Sul fronte psicologico, “la strategia di Pechino è sempre più sofisticata”. Di recente, il capo dell’intelligence taiwanese ha dichiarato che decine di influencer e vlogger taiwanesi sarebbero stati pagati dal Partito comunista per condurre campagne di guerra cognitiva. “L’obiettivo è promuovere la visione del governo cinese sul pubblico taiwanese, una cui porzione resta altamente sensibile a questo tipo di messaggi”, dice Hioe. Amplificare il sentimento di ineluttabilità già in qualche modo presente presso i cittadini taiwanesi, convincendoli che difendersi sarebbe (o sarà) inutile e che nessuno arriverà in loro aiuto quando sarà il momento, nemmeno gli Usa.

In questo contesto giocano un ruolo importante influencer e celebrità, schierate loro malgrado in un campo di gioco sempre più minato (ne ho scritto qui). In occasione della visita di Pelosi a Taipei, oltre alle dichiarazioni ufficiali di condanna da parte del governo, l’emittente statale cinese CCTV ha postato sul proprio profilo Weibo un’immagine con una dichiarazione chiara: c’è “una sola Cina in questo mondo“, riferendosi dunque alla posizione di Pechino secondo cui Taiwan è appunto parte integrante del territorio della Repubblica Popolare Cinese. Centinaia di celebrità cinesi hanno subito commentato il post, utilizzando l’hashtag #ThereIsOnlyOneChina, e lo hanno condiviso sui loro account Weibo. Una pratica comune per le celebrità cinesi, che ripostano sui loro Weibo questo tipo di iniziative come forma di dimostrazione del loro amore e rispetto per il paese. Diverse celebrità di Hong Kong e Taiwan che hanno incentrato la loro carriera proprio sul mercato della Cina continentale hanno espresso il loro sostegno. Ho raccontato questa vicenda qui.

Missili e manette: le altre armi a disposizione di Xi Jinping

Mentre dall’isola di Pingtan partivano undici Dongfeng in direzione dello Stretto, nel primo giorno di esercitazioni militari cinesi, a Wenzhou veniva arrestato Yang Chih-yuan. Può sembrare un dettaglio insignificante se paragonato al fatto che quattro dei missili balistici lanciati dall’Esercito popolare di liberazione hanno sorvolato Taiwan, uno direttamente la capitale Taipei. Non lo è. Yang, 32 anni, è originario di Taichung ma vive da tempo in Cina continentale. La polizia locale lo ha arrestato per la sua presunta partecipazione ad «attività separatiste» e per aver dunque messo «in pericolo la sicurezza nazionale», il mantra della Cina dell’era Xi. Secondo l’agenzia Xinhua, Yang «difende l’indipendenza di Taiwan da tempo» e «ha collaborato con altri per creare un’organizzazione illegale» con l’obiettivo di «spingere affinché Taiwan diventi uno stato sovrano e si unisca alle Nazioni unite».

Non sono stati forniti ulteriori dettagli sulle azioni che avrebbe messo in pratica l’uomo, che diventa suo malgrado la risposta diretta a uno degli incontri svolti da  Pelosi nelle sue 19 ore a Taipei, quello con Lee Ming-che. Si tratta dell’attivista che nel 2017 era stato arrestato e condannato a cinque anni per sovversione, prima di essere liberato lo scorso aprile. L’arresto di Yang è un episodio che può preoccupare molto i taiwanesi, per certi versi anche più delle esercitazioni. Perché ha un aspetto individuale e perché i taiwanesi che vivono e lavorano nella Repubblica popolare sono quasi due milioni per una popolazione totale inferiore ai 25 milioni.

Una vicenda che ricorda quella di Wu Rwei-ren, raccontata qui, storico e politologo dell’Accademia Sinica di Taipei e primo taiwanese accusato con la legge di sicurezza nazionale di Hong Kong. «Sì, nei prossimi mesi ci aspettiamo qualche annuncio da parte di Pechino», ammette un funzionario del governo taiwanese. Il riferimento è al XX Congresso del Partito comunista cinese del prossimo ottobre. Già negli scorsi mesi si era parlato di un affilamento dell’arsenale normativo a disposizione del governo cinese verso Taiwan. Per intimorire e perseguire la «riunificazione», o garantire una base legale per un attacco militare. Circola l’ipotesi di una nuova legge per la riunificazione. Sarebbe un netto cambio di paradigma perché nel mirino non ci sarebbero più solo i cosiddetti «secessionisti» ma tutti coloro che non si prodigano alla «riunificazione». Il caso di Yang sembra anticipare questa possibile svolta.

Nei giorni scorsi è apparso questo passaggio in un articolo del Global Times: “Non si può escludere che in futuro vengano adottate altre norme contro i secessionisti di Taiwan. Considerando che la legge anti-secessione è più che altro una legge quadro e di principio, il governo centrale potrebbe formulare una legge specifica contro i secessionisti di Taiwan, simile alla legge sulla sicurezza nazionale per la Regione amministrativa speciale di Hong Kong”.

Martedì 16 agosto sono stati tra l’altro annunciati nuovi nomi inseriti dal governo cinese nella “blacklist dei secessionisti”. Tra i sette sanzionati ci sono Hsiao Bi-khim, l’ambasciatrice de facto di Taiwan a Washington, e Wellington Koo, segretario generale del Consiglio di sicurezza nazionale di Taiwan. Inclusi anche i politici del Dpp Tsai Chi-chang, Ker Chien-ming, Lin Fei-fan, Chen Jiau-hua e Wang Ting-yu. Significativo soprattutto l’inserimento di Hsiao, che renderà dunque più esposto l’anello di congiunzi0ne tra Usa e Taiwan su suolo americano.

Il libro bianco

Poche decine di minuti prima dell’annuncio dello stop ai test sullo Stretto, l’Ufficio per gli Affari di Taiwan del Consiglio di Stato di Pechino ha rilasciato il terzo “libro bianco” sulla questione taiwanese e la “riunificazione nella nuova era”, quella in cui il timoniere è Xi Jinping. La parte che spaventa di più Taipei è quella che non c’è. Nel documento manca un passaggio chiave contenuto nei precedenti del 1993 e del 2000: quello in cui Pechino garantiva che non avrebbe inviato truppe o personale amministrativo sull’isola una volta raggiunta la “riunificazione”. Nel 2000 si diceva anche che “tutto può essere negoziato”, quando Taipei accetterà il principio dell’unica Cina rinunciando alla sua indipendenza de facto come Repubblica di Cina e a quella ipotetica come Repubblica di Taiwan. Resta solo “un paese, due sistemi”, il modello in vigore a Hong Kong dall’handover del 1997. Con meno dettagli e garanzie sul grado di autonomia che verrebbe concesso a Taiwan.

Lu Shaye, ambasciatore cinese in Francia, ha d’altronde dichiarato in un’intervista di qualche giorno fa: “Le autorità di Taiwan hanno fatto un’educazione di desinicizzazione sulla popolazione, che è indottrinata e intossicata. Deve essere rieducata per eliminare il pensiero separatista e la teoria secessionista”. Ad “avvelenare” l’opinione pubblica sarebbe stato il DPP di Tsai Ing-wen. Anche nel “libro bianco” si dedicano diversi passaggi alle “colpe” del partito al potere dal 2016 per aver adottato una “posizione separatista” negando il Consenso del 1992 che riconosceva l’esistenza di una unica Cina per proporre la “teoria dei due stati”.

“Lavoreremo con la massima sincerità e ci impegneremo al massimo per raggiungere una riunificazione pacifica“, si legge nel libro bianco. “Ma non rinunceremo all’uso della forza e ci riserviamo la possibilità di prendere tutte le misure necessarie” contro le “interferenze esterne e le attività separatiste”. Il documento, la cui pubblicazione potrebbe essere stata anticipata in risposta alla visita di Pelosi a Taipei, manda un triplice messaggio. Sul fronte interno è teso a rafforzare la posizione di Xi celebrando anche la sua strategia per l’ottenimento dello storico obiettivo della “ringiovanimento nazionale”. Sul fronte taiwanese cerca di creare divisioni tra opinione pubblica e DPP, promettendo vantaggi economici ai “compatrioti” che contribuiranno alla “riunificazione”. Si garantisce la tutela di sistema sociale, proprietà privata, credenze religiose, diritti, interessi e un generico “alto grado di autonomia” ma vengono citati meno settori rispetto alle precedenti edizioni. Sul fronte internazionale si ribadisce la versione di Pechino sull’appartenenza di Taiwan alla storia e al territorio cinesi, mentre si accusano gli Stati Uniti di utilizzarla come una “pedina” per fermare l’ascesa della Cina. Per questo la riunificazione “è l’unico modo per evitare il rischio che Taiwan possa venire invasa e occupata di nuovo da paesi stranieri”.

Il libro bianco, che viene ritenuto un’anticipazione dell’agenda che dovrebbe essere annunciata al XX Congresso, è stato respinto dal governo di Taipei che ha parlato di “wishful thinking” e “disprezzo per i fatti”. L’erosione delle garanzie da parte di Pechino deriva da una situazione più tesa rispetto a quella del 2000 ma rende ancora più difficile l’accettazione di un modello che i taiwanesi rifiutano in massa dopo quanto accaduto a Hong Kong nel 2019.

I piani di Xi

Marzo 1996. I militari cinesi del Fujian vedono navigare sullo Stretto di Taiwan un nutrito contingente della flotta del Pacifico degli Stati Uniti. Si chiude la terza crisi sullo stretto, durante la quale la Cina ha compiuto ripetuti test missilistici per protestare contro il viaggio negli Usa del presidente taiwanese Lee Teng-hui. A osservare l’umiliazione, proprio dal Fujian, c’è Xi Jinping. Allora semplice funzionario, oggi presidente in direzione di un terzo storico mandato da ricevere al XX Congresso del Partito comunista in autunno. Ma l’aspirante “leader del popolo” non può sopportare un’altra umiliazione, soprattutto dopo aver reso la sicurezza nazionale il suo pilastro e “make China great again” il suo implicito motto.

“Nascondi la tua forza, aspetta il tuo tempo”, diceva Deng Xiaoping. Xi è invece il nuovo timoniere di una Cina fatta di ambizione. Fino a qualche tempo fa, con l’economia cinese che già intravedeva l’obiettivo di diventare la prima al mondo entro il 2027, la “riunificazione” era la ciliegina. Ora, tra turbolenze economiche e geopolitiche, sarebbe la torta. Per Xi è una questione anche personale. Suo padre, Xi Zhongxun, era incaricato a creare una connessione col governo del Kuomintang a Taipei. Con lo storico incontro del 2015 a Singapore con l’allora presidente taiwanese Ma Ying-jeou, Xi pensava di poter riuscire dove il padre aveva fallito: la riunificazione pacifica. L’avvento di Tsai e una lunga catena di eventi culminata con la visita di Pelosi potrebbero convincerlo che resta, ora o in futuro, solo l’azione militare.

“Bisogna chiedersi se la visita di Pelosi ha mostrato al Partito comunista che Xi ha ragione a non fidarsi degli Usa e serve ancora di più la sua linea dura”, dice un funzionario taiwanese, “oppure se ha fatto vedere che mostrando solo i muscoli ha creato più spazio diplomatico per Taipei”. Esponendolo dunque a qualche spiffero in vista del Congresso. Negli ultimi giorni, i top manager del Politburo Xi compreso sono in silenzio. Probabilmente per il ritiro estivo di Beidaihe, evento annuale a porte sigillate dietro le quali il Politburo prende le decisioni che contano. È il momento in cui si tirano le fila e persino Xi, che ha accentrato un potere senza precedenti negli ultimi decenni, non conta più del Partito. Ecco perché il nuovo timoniere, a nascondere la sua forza, non sembra proprio pensarci.

Secondo Diana Choyleva, la visita di Pelosi era proprio quello che ci voleva per cementare la posizione di Xi.

Nei giorni scorsi intanto, l’Ufficio per gli Affari di Taiwan del Comitato centrale ha aggiornato il suo sito web per rivelare che Pan Xianzhang è stato nominato vice direttore (uno dei tre). Come il suo predecessore, Pan conosce bene He Lifeng, uno dei più stretti collaboratori di Xi. He e Xi si sono conosciuti lavorando insieme a Xiamen nel 1985, esattamente di fronte a Kinmen e allo Stretto di Taiwan.

Il ruolo dei semiconduttori

La prima risposta ufficiale di Pechino alla visita di Nancy Pelosi era stata sul lato commerciale. Proprio nella giornata dell’arrivo della speaker della Camera Usa a Taipei, il governo cinese ha bloccato le importazioni di agrumi, pesce, biscotti e altri alimenti da Taiwan per un totale di oltre cento prodotti agroalimentari. La Cina continentale è la principale destinazione di esportazione dei prodotti agricoli taiwanesi. Nel 2021 il loro valore è aumentato del 10,1% raggiungendo i 1,1 miliardi di dollari.

Diversi produttori sentiranno un impatto ma le esportazioni agricole costituiscono solo una frazione dei 765 miliardi di dollari dell’economia taiwanese e, soprattutto, le importazioni di prodotti agricoli taiwanesi da parte della Cina continentale contano solo lo 0,23% circa delle importazioni totali da Taiwan nella prima metà del 2022. Ciò significa che Pechino per ora ha tenuto pigiato il freno sulla reazione in materia commerciale. Ma blocchi navali a intermittenza potrebbero avere un impatto più rilevante delle esercitazioni militari. Veder diminuire le scorte di materie prime e di energia può creare ansia e, spera Pechino, malcontento verso il governo.

Eppure, Xi tentenna sulla possibilità di lanciare una vera trade war. Nel 2021, nonostante le tensioni si è raggiunto il record storico dell’interscambio Pechino-Taipei, con una bilancia commerciale nettamente a favore di quest’ultima. Non succede di frequente con Pechino. Se per Taiwan il mercato cinese conta a livello quantitativo, per la Repubblica Popolare quello taiwanese conta soprattutto a livello qualitativo. Per questo, almeno per ora, il Partito comunista non sta colpendo duro sul fronte economico. In particolare sul settore tecnologico. Lo stop all’esportazione di sabbia naturale (che contiene quarzo utile a estrarre il silicio per l’industria dei semiconduttori) una mossa simbolica in risposta alla menzione del Chips Act fatta da Pelosi a Taipei. “La sabbia è abbondante e comune, con alternative, serve poco tempo per aggiustare la filiera”, dice un manager di settore. “Il blocco ad altre terre rare potrebbe avere conseguenze più serie, per ora mi sembra un atto simbolico in risposta al Chips Act”, aggiunge.

Ma i microchip prodotti sull’isola sono ancora troppo importanti per il settore tecnologico di Pechino. Per questo investe in maniera così ingente sui microchip: una volta che sarà raggiunta l’autosufficienza, lontana ancora qualche anno, avrebbe un deterrente in meno per una guerra che ora sembra ancora forse troppo rischiosa.

Le imprese taiwanesi controllano oltre il 60% dello share globale del comparto di fabbricazione e assemblaggio dei semiconduttori. E dei 300 miliardi di dollari di importazioni cinesi nel settore, la maggior parte hanno come mittente Taipei, che a sua volta utilizza questo cordone tecnologico come una delle poche leve diplomatiche a disposizione nel suo rapporto con Pechino (sull’importanza dei semiconduttori per Taiwan avevo scritto nel dettaglio qui). All’interno di questo panorama, il grande dominatore è la Tsmc (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company). Più volte i nazionalisti cinesi hanno chiesto l’invasione per «prendersi la Tsmc», qualora smetta di rifornire di chip la Repubblica Popolare.

Al pranzo con Pelosi a Taipei erano presenti sia Morris Chang, il fondatore della Tsmc, sia il presidente Mark Liu che qualche giorno fa ha dichiarato alla Cnn che “nessuno può controllare Tsmc con la forza” e che “un’eventuale invasione renderebbe le nostre strutture non operative”. Secondo Liu, un conflitto non vedrebbe vincitori ma provocherebbe «una grande crisi economica» anche nella Repubblica Popolare. Per poi passare a un tentativo di dialogo: «Spero che non saremo discriminati perché siamo vicini alla Cina. A prescindere dal rapporto con la Cina, Taiwan è Taiwan».

Tsmc ribadisce il suo ruolo nel contesto delle relazioni tra le due sponde dello Stretto, che non è solo commerciale o tecnologico ma anche diplomatico. In assenza di dialogo tra i due governi, sono proprio i colossi tech taiwanesi a fare da “ambasciatori”. Lo dimostra l’acquisto di dieci milioni di dosi di vaccino Pfizer dalla cinese Fosun Pharma nel 2021, così come la continua cooperazione con le aziende tecnologiche cinesi. Negli scorsi mesi, Tsmc ha fornito alla cinese Oppo le tecnologie per lo sviluppo di chip a 3 nanometri, più avanzati rispetto a quelli a 5 nanometri che verranno sviluppati in Arizona. Anche la SiEngine Technology, azienda di Wuhan specializzata nel design di chip dedicati all’automotive, utilizzerà prodotti targati Tsmc.

Nei giorni scorsi, le spedizioni alla fabbrica di assemblaggio di iPhone di Pegatron a Wuzhou hanno subito rallentamenti doganali. Il vicepresidente di Pegatron, Jason Chen, è stato segnalato tra i presenti al pranzo con Pelosi al Grand Hotel. Diversi fornitori di componenti taiwanesi hanno ricevuto richieste urgenti dai loro clienti (tra cui Apple) che chiedevano di assicurarsi che le spedizioni fossero conformi ai requisiti di etichettatura imposti dalle autorità cinesi. Non possono apparire i nomi Taiwan o Repubblica di Cina. Via libera invece per “Taiwan, China” o “Chinese Taipei”. Mossa a effetto invece per Robert Tsao, fondatore del produttore di chip UMC, che da Singapore dove risiede si è impegnato a donare 100 milioni di dollari per aiutare Taiwan a rafforzare le sue difese militari.

Le isole di confine

Taiwan non è solo un’isola. Taiwan non è solo Taiwan. Il governo di Taipei amministra oltre 150 isole. Alcune di esse si trovano di fronte alle coste della Repubblica Popolare Cinese. Nel punto più vicino, l’ex avamposto militare di Kinmen dista appena due km dalla metropoli cinese di Xiamen, sede dei tanti video circolati sui social nei giorni scorsi che immortalavano lo spostamento di carri e mezzi armati di Pechino. Le Matsu, a una decina di km dal Fujian, sono considerate strategiche perché conservano un sito missilistico.

Entrambi i luoghi non hanno vissuto la colonizzazione giapponese e hanno sempre fatto parte della Repubblica di Cina, di cui rappresentano la manifestazione più visibile. Le statue di Chiang Kai-shek, figura tabù a Taipei, fanno ancora bella mostra sull’arcipelago delle Matsu. Gli abitanti non si sentono taiwanesi, ma cinesi, e parlano lo stesso dialetto del Fujian. Pur divisi politicamente dalla Repubblica Popolare, la loro appartenenza identitaria non è in discussione. Secondo diversi analisti, queste isole potrebbero essere l’obiettivo di una prima azione militare volta a erodere il territorio controllato da Taipei. Altri ritengono che Pechino vi agirebbe militarmente solo durante un’invasione su larga scala. Al momento Kinmen e Matsu sono gli unici luoghi di interconnessione tra le due sponde dello Stretto, quelli che nella visione di Pechino possono (o potevano) fungere da ponte per una «riunificazione» (o unificazione secondo i taiwanesi) pacifica.

Ci sono poi Dongsha, a 300 km di distanza da Hong Kong, e la lontana Taiping, la più grande isola delle Spratly nel mar Cinese meridionale. Popolate solo da militari, potrebbero essere una “preda” simbolica.

Qui un mio reportage da Kinmen, qui invece un mio reportage dalle Matsu per Internazionale.

La prospettiva degli Usa

Sin dall’inizio, Washington ha mostrato qualche divisione interna sul viaggio di Pelosi. «Non avrebbe mai dovuto dire che il Pentagono è contrario al viaggio. È stata una scelta terribile. Se avesse voluto cercare di cancellare la visita avrebbe dovuto farlo in silenzio. Così è come se avesse mostrato le carte all’avversario di una partita a poker». Nei giorni precedenti all’arrivo di Pelosi, a Taiwan si respirava qualche malumore nei confronti di Joe Biden. È lui, secondo un funzionario taiwanese che parla con richiesta di anonimato, ad aver aumentato la tensione sulla possibile visita di Nancy Pelosi a Taipei.

Biden aveva forse immaginato di poter ripetere quanto fatto in occasione della visita di Pompeo di marzo, prendendo le distanze dal viaggio per smussarne il significato politico. Ma se con Pompeo la strategia era riuscita, grazie all’invio di una delegazione anticipatoria e al fatto che l’ex capo della Cia non ha più ruoli istituzionali, stavolta l’impresa è più complicata. E ha anzi esposto una debolezza sulla quale Pechino potrebbe modulare la sua reazione.

Come spesso accade, sono i dettagli a fare la differenza. «Rafforzare il dialogo»: Biden e Xi erano usciti con questa intenzione dal colloquio del 28 luglio. È successo l’opposto. Non solo Pechino ha annunciato sanzioni contro Pelosi per la visita a Taiwan ma, soprattutto, ha sospeso la cooperazione con gli Stati uniti su otto dossier, tre dei quali relativi ai rapporti con gli Stati uniti nella Difesa. Gli altri cinque settori della cooperazione colpiti dalla sospensione sono quelli del rimpatrio degli immigrati «illegali», dell’assistenza giudiziaria, della lotta ai crimini transnazionali, alla droga, e, soprattutto, dei colloqui sul contrasto al cambiamento climatico.

Eppure nei giorni della telefonata si parlava già della visita di Pelosi, è improbabile che la Casa bianca abbia dato garanzie sulla possibilità di farla saltare. Biden avrebbe invece cercato di personalizzare il tour della speaker. A far particolarmente arrabbiare Pechino, secondo una fonte informata sulla vicenda, sarebbe stata l’agenda di Pelosi. Non uno scalo tecnico ma oltre 19 ore di incontri di primo livello dalla forte retorica sui diritti umani. Un affronto personale per Xi, alla vigilia di Beidaihe e verso il XX Congresso. E per Pechino la prova che degli Usa non ci si può fidare dopo il riavvio del dialogo dall’inizio di giugno, in seguito al viaggio in Europa del presidente americano nel quale diversi paesi europei, Germania in testa, gli avrebbero chiesto di cercare di porre fine alla guerra in Ucraina prima dell’autunno. Per riuscirci, Biden riallaccia con Pechino, linea che non dispiace a una parte dei democratici, Barack Obama compreso.

È un momento delicato, la Russia chiede maggiore supporto a Pechino. Xi rilascia dichiarazioni di sostegno retorico, ma a Mosca vorrebbero di più. Il 15 giugno la seconda telefonata dall’inizio dell’invasione tra Vladimir Putin e Xi. Più che il coronamento di un matrimonio, un modo per cercare garanzie che la relazione sta proseguendo. Nelle settimane seguenti la Russia intensifica i passaggi al largo del Giappone. Il 1° e 2 luglio tre navi della marina russa navigano al largo della contea di Hualien, costa orientale di Taiwan. L’intenzione sembra quella di mostrare a Washington coordinamento totale con Pechino, mandando anche un segnale all’amico «senza limiti» avvicinandogli il fronte di crisi. «I russi hanno esagerato stavolta», dichiara in quei giorni Zhou Chenming, ricercatore all’Istituto di Scienza e Tecnologia Militare Yuan Wang, con sede a Pechino. Ma quelle per il Partito comunista sono acque cinesi. E «la Cina non vuole che gli americani si avvicinino, né vuole che lo facciano i russi», dice Zhou.

Ma non tutti negli Usa sono d’accordo con la mossa di Biden. I repubblicani e tanti democratici non approvano l’appeasement. Ritengono che il disgelo con Pechino sia un errore. E il viaggio di Pelosi potrebbe essere un’emanazione di queste diverse visioni sui rapporti con la Cina.

Una divisione che sta andando in scena anche su una legge. Come ha raccontato Politico, l’amministrazione americana sta cercando di apportare modifiche a un disegno di legge bipartisan che introdurrebbe novità sostanziali alla politica di lunga data degli Stati uniti su Taipei. La legge, denominata Taiwan Policy Act, mira a rafforzare le capacità difensive di Taipei e ad approfondire i legami bilaterali. E riflette il desiderio dei repubblicani e una forte componente dei democratici di rivedere l’approccio nei confronti di Pechino, anche alla luce della sua muscolare reazione militare in risposta alla visita di Pelosi sull’isola. Il Taiwan Policy Act è considerato l’atto normativo più rilevante dal Taiwan Relations Act del 1979.

Autorizzerebbe cifre importanti in assistenza alla sicurezza di Taiwan, la includerebbe tra i grandi «alleati non Nato» e darebbe cornice strategica all’eliminazione delle restrizioni autoimposte operata da Pompeo nel gennaio 2021 poco prima di lasciare il Dipartimento di Stato. Pur sottolineando che non significherebbe un riconoscimento ufficiale della Repubblica di Cina, prevede anche la cancellazione dell’inibizione nell’uso dei suoi simboli (bandiera inclusa) da parte dei rappresentanti taiwanesi negli Usa. L’Ufficio di Rappresentanza di Taipei potrebbe essere rinominato Ufficio di Rappresentanza di Taiwan, seguendo l’esempio della Lituania che ha scatenato la ritorsione economica e diplomatica cinese. Il direttore dell’American Institute in Taiwan dovrebbe poi ricevere la conferma del Senato.

Il Taiwan Policy Act è sponsorizzato dal presidente della commissione Esteri Bob Menendez, democratico, e dal repubblicano Lindsey Graham. Lo scorso aprile sono stati entrambi a Taiwan nella stessa delegazione bipartisan. Secondo la Casa bianca la legge rischia di erodere in maniera forse decisiva l’ambiguità strategica che ha finora regolato i rapporti con Taipei. Rendendo ancora più difficile quel dialogo che Biden aveva mostrato di voler recuperare con Xi. Ma l’amministrazione non può nemmeno passare per troppo morbida verso Pechino dopo le manovre militari sullo Stretto e alla vigilia delle elezioni di midterm.

Evidente comunque la differenza anche retorica tra le diverse anime dem sulla Cina, rappresentate da Biden e Pelosi. Mentre il presidente ha provato a smorzare le tensioni sulle esercitazioni rimarcando ancora una volta che la visita è stata una scelta personale, la speaker ha definito Xi un «bullo spaventato» in un’intervista alla Msnbc: «Non può decidere lui i nostri programmi». Poi ha spiegato di essere stata invitata a Taiwan da Tsai. A Taipei, dove di solito si dice che gli ospiti americani vengono «ricevuti», si sosteneva il contrario.

Ferma, comunque, la posizione espressa da Kurt Campbell della reazione cinese alla visita di Pelosi. Qui un importante ripasso sulle One China Policy degli Usa, spesso citata in modo parziale.

In questi giorni, tra l’altro, sui media cinesi si parla molto del possibile stop di Biden alla riduzione delle tariffe imposte dall’amministrazione Trump. “Collegare la questione di Taiwan ai dazi è ridicolo”, scrive il Global Times: “Ritardare la rimozione delle tariffe continuerà a danneggiare l’economia Usa”. La Cina si dice pronta a proseguire lo scontro anche sul terreno commerciale per non cedere su Taiwan, questione considerata cruciale. I dazi rendono le importazioni più costose per le aziende americane che, a loro volta, aumentano il costo dei prodotti per i consumatori. La Casa Bianca sta cercando da mesi il modo per alleggerire i dazi nel tentativo di contenere l’inflazione, ma le attuali tensioni complicano tutto.

Interessante il fatto che resista l’ipotesi di un incontro di persona a novembre, probabilmente a margine del G20 di Bali o del summit Apec in Thailandia, tra Xi e Biden. Anche l’intervista che ho realizzato a Da Wei e che riporto qui sotto sembra dare alcuni segnali in direzione dell’amministrazione Biden.

La prospettiva taiwanese

Gli effetti delle tensioni si faranno sentire anche sulla politica taiwanese. Probabile che nel breve termine i vantaggi saranno tutti per il Dpp, che può spostare sul tema identitario anche le elezioni locali del prossimo novembre. Anche perché, nel frattempo, il Guomindang ha organizzato una visita in Cina continentale che sta suscitando diverse polemiche.

La delegazione del Gmd è guidata dal vicepresidente Andrew Hsia. Previsto incontro anche con Liu Jieyi, capo ufficio affari di Taiwan del Partito comunista e probabile prossimo ministro degli Esteri. Il Gmd si accredita presso pubblico taiwanese, cinese e americano (con sguardo verso le colombe Biden/Obama) come l’unico in grado di garantire stabilità e dialogo sullo Stretto. Un tema del quale avevo scritto recentemente per ISPI (qui). Ma sul fronte interno la mossa sta ricevendo diverse polemiche, con il partito che ufficialmente tiene una linea di ferma condanna delle esercitazioni militari di Pechino, ex presidente Ma ed ex leader del partito Johnny Chiang inclusi. Alcuni funzionari locali hanno anche fatto una petizione per cancellare la visita.

Ma sul lungo termine appare chiara la strategia del Gmd, in particolare in vista delle presidenziali 2024 lontane solo 18 mesi. Quello sarà presumibilmente il momento decisivo in cui Pechino rivaluterà le sue opzioni: il potenziale presidente erede di Tsai è William Lai (peraltro incontrato da Pelosi a Taipei), una figura molto più radicale della centrista Tsai. A inizio 2019 il Dpp era sull’orlo della scissione dopo il pesante ko alle elezioni locali del 2018. La vicepresidenza fu il ramoscello d’ulivo dato a Lai per cementare il partito. Il numero due di Tsai ha smussato gli angoli, ma è conosciuto per avere un passato, lui sì, filo indipendentista. Ergo, a favore della dichiarazione di indipendenza dalla Repubblica di Cina come Repubblica di Taiwan. Mentre Tsai propugna la teoria dei due stati e la non subordinazione della ROC alla RPC (e viceversa). Non accettabile da Pechino, ma certo meno pericoloso di una ipotetica dichiarazione di indipendenza.

Pechino potrebbe provare a giocare tra il centrismo di Tsai e il radicalismo di Lai, ma non può farlo del tutto se no rischia di delegittimare in parte la retorica delle due Cine, che seppure ripudia in forma ufficiale è una versione più comprensibile e strategica da utilizzare a livello internazionale, visto che quasi tutti i paesi al mondo riconoscono Pechino come il governo cinese legittimo. Più difficile sarebbe spiegare una linea “one China, one Taiwan”.

Effetti regionali

«Una tempesta è in arrivo nella regione dell’Indo-Pacifico». Il premier di Singapore Lee Hsien-loong esprime meglio di tutti i sentimenti dell’Asia di fronte alle turbolenze sullo Stretto di Taiwan. Taipei è in prima linea, certo, ma ora sono in tanti a essere in fibrillazione. La visita di Nancy Pelosi prima e le vigorose esercitazioni cinesi poi stanno avendo un impatto rilevante sui paesi della regione. La sfida narrativa è già chiara. Washington punta il dito contro la reazione «eccessiva» e «irresponsabile» di Pechino per una visita che lo stesso Biden ha sottolineato che «ha scelto di fare lei», personalizzando il tour taiwanese della speaker della Camera americana. Pechino definisce le sue contromisure «ragionevoli» e utilizza l’episodio come prova che ha da sempre avuto ragione a indicare negli Usa i portatori di conflitto, coloro che «gettano benzina sul fuoco».

I maligni suggeriscono che la missione di Pelosi può essere servita non solo a riportare la Casa bianca su una dinamica di confronto con Pechino ma anche come esca per provare a compattare il fronte dei partner asiatici degli Usa dopo la prevedibile reazione cinese. La crisi sta tra l’altro coinvolgendo sempre più da vicino anche il Giappone. Dopo che 4 degli 11 missili balistici lanciati giovedì dall’esercito cinese sono caduti nella sua zona economica speciale, anche le forze di autodifesa di Tokyo sono in allerta. La sicurezza di Taiwan è considerata dal Giappone una questione di sicurezza nazionale, non fosse altro per la vicinanza geografica con le prime isole nipponiche, comprese quelle contese Senkaku/Diaoyu (nelle cui acque sono entrate di nuovo due navi di Pechino il 14 agosto).

Il paragone con le Senkaku/Diaoyu è particolarmente calzante. Nel 2012, la forza della risposta cinese all’acquisto da parte del Giappone delle isole contese Diaoyu/Senkaku – che ha sorpreso Tokyo e ha inasprito in modo significativo le tensioni bilaterali – può essere in parte attribuita alla tempistica dell’acquisto dalla famiglia Kurihara proprio prima del 18° Congresso del Partito, quello che portò all’ascesa di Xi Jinping. All’epoca, molti a Pechino temevano che una risposta troppo debole a Tokyo avrebbe mostrato agli altri governi che potevano trarre vantaggio dalla Cina in vista dei futuri congressi di partito, quando Pechino è più distratta. La risposta di allora ha avuto effetti duraturi sullo status quo delle isole che permangono ancora oggi.

Il presidente della Corea del Sud, Yoon Suk-yeol, non è tornato dalle vacanze per incontrare Pelosi mostrando di non volersi inimicare la Cina. Invece Fumio Kishida ha visto la speaker della Camera Usa e alla sua presenza ha chiesto di “cancellare immediatamente” i test. Mossa definita “ostile” dal governo cinese.

Il ministro dell’Economia, del Commercio e dell’Industria del Giappone, Yasutoshi Nishimura, ha visitato il celebre santuario Yasukuni di Tokyo, dedicato ai militari caduti al servizio dell’Imperatore. Eroi nazionali per Tokyo e criminali di guerra per Pechino. Prima volta che accade con un membro el governo Kishida, che ha operato un rimpasto con un cambio del ministro della Difesa che potrebbe sembrare a prima vista un vantaggio per Pechino. Fuori Nobuo Kishi, fratello minore di Abe e iper falco anti cinese con profonde connessione a Taiwan, e dentro Yasukazu Hamada che è della fazione di Hayashi, il ministro degli Esteri storicamente colomba su Pechino. Tanto che in passato guidava il gruppo interparlamentare di amicizia Giappone-Cina. Eppure, un paio di settimane fa Hamada era nella delegazione che ha incontrato Tsai Ing-wen a Taipei per scambi su sicurezza e commercio.

Segnali dall’India, che conferma le manovre congiunte di ottobre a meno di 100 chilometri dal confine conteso con Pechino, teatro di violenti scontri nella primavera del 2020. Il presidente delle Filippine Marcos Jr. ha definito «cruciali» i rapporti con Washington non più tardi di sabato incontrando Blinken. «Singapore deve prepararsi per un futuro meno pacifico e stabile» ha detto Lee. Sembra che a prepararsi sia tutta l’Asia. Qui una scheda del The Diplomat sulla prospettiva Asean.

La Russia, intanto, esprime sostegno alla Cina. “Gli Usa sono uno stato provocatore”, ha detto la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova. Come Pechino ha sostenuto la retorica anti Nato sull’Ucraina, Mosca sostiene la retorica anti americana su Taiwan. Se conflitto sarà, la colpa è di Washington e Alleanza Atlantica.

LE INTERVISTE
Su Tzu-yun, analista dell’Institute for National Defense and Security Research di Taipei (intervista realizzata nel primo giorno di esercitazioni militari cinesi)

Cosa può succedere con le esercitazioni che iniziano oggi?

Con questi test Pechino vuole dimostrare di avere la capacità di operare un blocco navale su Taiwan. I due porti di Kaohsiung e Keelung potrebbero essere resi inoperativi, visto che l’area di esercitazione più estesa è dislocata proprio in concomitanza del nostro principale hub portuale. In sostanza dimostreranno di essere capaci di fare quello che ha fatto la Russia con Odessa e Mariupol, bloccando la comunicazione marittima taiwanese. Anche i voli civili avranno dei forti condizionamenti per almeno 72 ore: il ministero della Difesa ha annunciato delle nuove rotte.

Il governo taiwanese come pensa di gestire la situazione, tra il rischio di reagire provocando un’escalation o di non fare nulla concedendo spazio?

La Cina non è più quella del 1996, ma neanche Taiwan è più quella del 1996. Ora sappiamo meglio come rispondere alle pressioni militari di Pechino. Taipei ha dalla sua due vantaggi. Il primo: essendo un sistema democratico è più facilmente adattabile alle nuove situazioni rispetto a quello di Pechino. Secondo: bloccando commercio e linee aeree che passano per Taiwan si crea un impatto importante a livello internazionale, visto che da qui passano circa 1,7 milioni di voli ogni anno. Il mondo si accorgerà ancora di più dell’importanza di Taiwan. Al di là delle mappe vedremo cosa accadrà nella realtà: spero ancora si evitino sconfinamenti nelle acque territoriali interne taiwanesi per evitare rischi che possono diventare incontrollabili.

È plausibile che tra le reazioni ci sia anche un’invasione, se non su larga scala di un’isola minore?

Al momento l’esercito cinese può dimostrare in modo molto visibile la sua forza, ma non ha la capacità di invadere Taiwan su larga scala. Agire su Kinmen o Matsu non credo rientri negli interessi del Partito comunista, perché quei luoghi servono per mantenere una connessione politica tra le due sponde dello Stretto. Se le invadesse taglierebbe completamente la connessione con Taiwan e non credo sia quello che vuole.

Voci da Taipei (interviste a cittadini comuni e analisti realizzate a Taipei dopo il lancio di missili balistici)

Naomi

“So che è tanto che non ci sentiamo. Ma come state tu e i tuoi bambini? Restate lì? Siete preoccupati?” Sono stati appena lanciati 11 Dongfeng, i missili balistici cinesi, nello Stretto di Taiwan. Naomi, casalinga 42enne, mostra il messaggio ricevuto da un’amica cinese di Xiamen: è la città da dove si è mobilitato l’esercito di Pechino per condurre i test militari che stanno circondando l’isola. “Ero tranquilla, ma questo messaggio un po’ mi ha allertata perché significa che i cinesi si aspettano che il loro esercito faccia qualcosa di serio”, confessa Naomi.

Chih-wei

Qualche ora più tardi il ministero della Difesa del Giappone comunica che 4 missili hanno sorvolato l’isola, uno direttamente Taipei: una escalation. “Non posso dire che non faccia un po’ paura, ma per me è soprattutto uno show di forza. Non penso che nell’immediato Xi Jinping abbia voglia di rischiare tutto su Taiwan. Ha già tanti altri problemi”, dice Chih-wei, impiegato statale.

I più anziani meno inclini a credere a un’invasione

A Taipei ieri regnava una calma apparente, i ristoranti a cena erano pieni di coppiette per il Qixi, il San Valentino locale. Sono soprattutto i più anziani a non credere all’ipotesi di un’invasione. “Ne abbiamo viste tante, a partire dalla terza crisi sullo stretto nel 1995-1996. Siamo abituati alle minacce. La Cina spera ancora di prendere Taiwan senza combattere”, sostiene il gestore di un negozio di noodle.

Nicole

Ho avuto diverse discussioni con la mia famiglia e i miei amici sulla tensione tra Cina, Stati Uniti e Taiwan. Le persone della generazione dei miei genitori, che hanno vissuto la crisi dello stretto di Taiwan nel 1996, non sembrano preoccuparsi troppo delle minacce militari della Cina, mentre le persone della mia generazione sono abbastanza fiduciose che la Cina non attaccherà Taiwan in questo momento, tuttavia, dopo aver visto la Russia invadere l’Ucraina, direi che nulla è certo nel mondo e dovremmo sempre essere preparati.

Yi-chun, manager di un’azienda di logistica

Gli attacchi cyber sono sopra il milione e mezzo. Questa è un problema severo. Per il resto, le maggiori preoccupazioni sono le rotte disponibili ma ci sono canali verso nord e sud. I depositi di energia sembrano essere un problema. Taiwan ha 15 giorni di storage. Se i movimenti non sono permessi, i depositi si svuoteranno rapidamente.

Dipendente azienda di semiconduttori con richiesta di anonimato

Non abbiamo riscontri di preoccupazione immediata nel nostro mondo, ma la questione US-China incomincia a prendere una forma molto strutturata, almeno nel decoupling, con conseguente rivisitazione dei piani di investimento. Paradossalmente molte aziende potrebbero investire negli USA e in Cina separatamente. Noi taiwanesi credo che riusciremo a mantenere i rapporti con entrambi, almeno a livello commerciale.

Li-hua

Se le azioni cinesi si facessero ancora più audaci nelle prossime 72 ore, Taipei si troverebbe di fronte a un rebus: rispondere fornirebbe il pretesto per una vera escalation, non fare nulla significa lasciare uno spazio di manovra che Pechino si riprenderà. Tanto che una professionista over 30 commenta con cinismo: “Per Nancy Pelosi e Xi Jinping è una situazione win-win. Lei ha ottenuto una vetrina, lui si prende nuovi spazi. E a perdere siamo noi”.

Lii Wen, rappresentante DPP alle isole Matsu

Le esercitazioni sono una dimostrazione di forza limitata, per mostrare il loro dissenso, ma non un atto destinato a degenerare in una guerra totale. Quando la Cina lancia minacce violente, i taiwanesi aumentano il livello di allerta e osservano le azioni reali che seguono i commenti, come le limitate dimostrazioni di forza. Non ignoriamo i commenti, ma dovremmo concentrarci sull’evitare incidenti civili durante il processo. Ci concentriamo sulla sicurezza delle persone durante queste dimostrazioni, invece di farci prendere dal panico per i proclami di guerra totale, che richiederebbero mesi di preparazione. Manteniamo persino le interazioni con le agenzie governative cinesi che NON rilasciano commenti esagerati, ad esempio a livello locale. Quindi no, la Cina non lancerà la terza guerra mondiale. La Cina esprime insoddisfazione, ma questo ci riporta al punto in cui tracciamo il limite per cedere alle richieste della Cina. Non credo che Taiwan debba provocare attivamente la Cina, ma un viaggio non legato alla sovranità nazionale non dovrebbe essere visto come tale.

Su Tzu-yun, analista dell’Institute for National Defense and Security Research di Taipei

Con questi test Pechino vuole dimostrare di avere la capacità di operare un blocco navale su Taiwan ma al momento l’esercito cinese non ha la capacità di invadere Taiwan su larga scala. Possono dimostrare in maniera molto visibile la loro forza, questo sì. Agire su isole minori come Kinmen o Matsu non credo rientri negli interessi del Partito comunista, perché quei luoghi servono per mantenere una connessione politica tra le due sponde dello Stretto. Se le invadesse taglierebbe completamente la connessione con Taiwan e non credo sia quello che vuole.

Lev Nachman, politologo della National Chengchi University di Taipei

Pechino ha dato in anticipo le date di inizio e fine delle esercitazioni. Non voglio sminuire l’accaduto, resta una escalation ma si tratta di una crisi misurata. Le persone di Taiwan non pensano che sia una crisi. I media occidentali stanno forse un po’ ingigantendo la cosa e parlare di “quarta crisi sullo stretto” mi sembra un po’ overloaded, per ora. La visita di Nancy Pelosi è una vittoria simbolica ma non sta aiutando in questi giorni. Le relazioni tra Usa e Taiwan vanno già molto bene, Pelosi non ha portato una novità. Dai taiwanesi sono richieste vittorie concrete più che simboliche. Sulla politica interna il risultato è che ora nelle elezioni locali di novembre si parlerà molto di più delle relazioni con Pechino rispetto a quanto sarebbe accaduto senza queste tensioni. L’arresto di Wenzhou? Sì, qui sicuramente c’è preoccupazione su un possibile annuncio e cambio di agenda durante il XX Congresso del Partito comunista.

Rita Jhang, National Taiwan University

Apprezzo la visita della presidente della Camera degli Stati Uniti Pelosi e il suo sostegno, che significa molto per Taiwan. Tuttavia, la minaccia della Cina mi preoccupa molto. Questo tipo di minaccia non avrebbe avuto un tale impatto in passato, vista la frequenza con cui veniva fatta, ma l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia rende tali minacce più reali. La Cina cerca di dare la colpa dell’intensificarsi della situazione agli Stati Uniti e a Taiwan, ma se la regione diventa instabile, è colpa della Cina. Detto questo, non si può ragionare con un prepotente, quindi Taiwan ha bisogno di strategie migliori per aumentare la nostra presenza globale e la partnership per garantire la nostra sicurezza e stabilità.

Stefano Centini, regista italiano residente a Taipei

A Taipei la vita sembra andare avanti come tutti i giorni, si fanno piani, contratti e investimenti per i mesi e gli anni a venire. Eppure ogni tanto appare sempre la domanda “nell’eventualità di un attacco, che farai?” E per quanto molti hanno festeggiato l’arrivo dell’aereo di Pelosi all’aeroporto di Songshan con cena a base di spaghetti- per la sua origine italiana- nelle conversazioni poi si evita sempre di discutere l’eventualità che succeda qualcosa e ci si chiude nella più rassicurante celebrazione del successo del governo nel contenere (neanche troppo) la pandemia. Nessuno vuole combattere, tutti vorrebbero solo andare avanti con uno stile di vita che, secondo tanti, fa quasi più invidia ai cittadini della PRC che fastidio al Partito Comunista.

Wu Rwei-ren, politologo dell’Academia Sinica, (intervista realizzata nel secondo giorno di test militari cinesi)

Le esercitazioni militari cinesi rischiano di portare a un’invasione?

Lo scopo principale delle esercitazioni militari cinesi per stavolta non è invadere ma è placare e soddisfare il febbrile nazionalismo dell’opinione pubblica interna, sobillato dalle reazioni eccessive del Partito comunista e dei media contro la visita di Nancy Pelosi a Taiwan. I falchi hanno esagerato con le minacce rivolte a Pelosi prima del suo arrivo. Non potendo mantenerle, il governo deve ora rispondere con estrema forza per evitare il rischio che il malcontento gli si rivolti contro. In passato il Partito era in grado di controllare il nazionalismo popolare da lui stesso incitato, ma non stavolta.

Xi Jinping sembra voler dire ai taiwanesi che non possono sentirsi sicuri se non si siedono al tavolo per parlare di “riunificazione”. È un obiettivo che può raggiungere con questi test militari?

Non credo. Il popolo taiwanese non è in preda al panico ma è arrabbiato per la reazione eccessiva della Cina. Siamo psicologicamente preparati: viviamo sotto l’ombra dell’invasione fin dagli anni ’50. La dura repressione delle proteste di Hong Kong è stato uno spartiacque decisivo, perché ai taiwanesi veniva “offerto” lo stesso modello di “un paese, due sistemi”. Visto come Pechino non ha tutelato quel modello a Hong Kong, i taiwanesi ora lo rifiutano in massa, anche chi in precedenza non lo vedeva in maniera completamente negativa. Xi sta ripetendo lo stesso errore: più mostra i muscoli e più i taiwanesi si allontanano. Continuare a perpetrare questa strategia sbagliata sta contribuendo a cementare e consolidare l’identità taiwanese.

A novembre a Taiwan ci sono le elezioni locali e tra 18 mesi le elezioni presidenziali. Che cosa può cambiare questa crisi sullo scenario politico interno?

Dal punto di vista politico, credo che l’aggressività della Cina unita alla visita di Pelosi aiuterà enormemente il DPP (il partito di maggioranza della presidente Tsai Ing-wen) nelle elezioni locali di fine anno. Assediare Taiwan è una cattiva idea se il Partito comunista vuole conquistare il cuore dei taiwanesi. Ma credo che ormai a loro non importi più nulla dei nostri sentimenti.

La visita di Pelosi ha però portato sinora molti rischi per Taiwan. Porterà anche dei benefici?

A livello internazionale, la reazione eccessiva cinese a questa visita diventerà una profezia che si autoavvera: Usa e Giappone saranno portati a intensificare la cooperazione militare tra loro e con Taiwan, nell’ottica di provare a reagire a un’invasione futura che diventa ormai sempre più probabile. Per questo dico che le esercitazioni militari possano essere un errore di calcolo.

L’obiettivo di Taiwan è quello di cambiare lo status quo?

Credo che le presidenziali del 2020 siano state un punto di svolta: è difficile immaginare che i taiwanesi accettino di essere controllati da Pechino. Ma il governo non ha nemmeno intenzione di dichiarare l’indipendenza come Repubblica di Taiwan. Fare ora passi avventati e recidere il legame con la sfera storico-culturale cinese, come per esempio cambiare il nome Repubblica di Cina, non solo provocherebbe una quasi certa invasione ma anche dei problemi interni. Una parte della popolazione taiwanese non vuole perdere quel legame: seppure non si opponga all’indipendenza de facto percepisce ancora l’appartenenza al mondo cinese, a livello non politico ma culturale ed emotivo. Certo, più Pechino è aggressiva e più il processo di costruzione identitaria taiwanese accelera.

Kuo Yu-jen, politologo taiwanese della National Sun Yat-sen University (intervista realizzata al terzo giorno di test militari cinesi)

La visita di Pelosi a Taiwan è stata appropriata?
È il risultato di una complicata situazione all’interno della politica americana. È il segnale che non solo i repubblicani ma anche tanti democratici non approvano la politica della Casa bianca sulla Cina. Penso che il punto di svolta sia stato il viaggio in Europa di Joe Biden per i summit di G7 e Nato, dove ha raccolto i timori dei partner su guerra in Ucraina e approvvigionamento energetico. Da metà giugno Biden ha cercato di avviare una serie di consultazioni con la Cina utilizzando diversi canali. Il viaggio di Pelosi ritengo sia nato proprio intorno a Taiwan e ha voluto intenzionalmente portare al centro un aspetto mancante nelle relazioni Usa-Cina: diritti umani. Da Clinton in poi tutto è ruotato intorno all’economia. Anche la tempistica del viaggio è stata pensata apposta per creare problemi a Xi Jinping prima di Beidaihe. Per questo ora Xi deve rispondere in maniera così vigorosa.

Si poteva prevedere una reazione cinese così forte? E che cosa possiamo aspettarci nei prossimi giorni e settimane?
Il governo taiwanese prevedeva una reazione forte ma non così immediata e vasta. Si pensava a esercitazioni in 4 aree, non in 6 o 7. Non credo che le esercitazioni si fermeranno: ci saranno delle pause e poi riprenderanno in diversi round per alcune settimane. Almeno fino alla fine del raduno di Beidaihe, intorno al 20 agosto. La Cina sta provando a creare un blocco navale allo scopo di causare caos e divisioni a Taiwan. Sarà complicato ricevere cargo, le riserve di materie prime ed energia inizieranno a diminuire e questo creerà ansia. Pechino crede che questo possa portare i taiwanesi a incolpare il governo per aver ricevuto Pelosi. Questo è lo scopo principale delle esercitazioni, non effettuare un’invasione.

Questa strategia può funzionare?
Il governo taiwanese è pronto a contenere i rischi per un periodo di qualche settimana. Non credo che la Cina possa raggiungere pienamente il suo obiettivo.
Tra gli analisti è in corso un dibattito sul fatto che quella attuale sia in effetti una “quarta crisi sullo Stretto” oppure no. Lei che ne pensa?
Lo è, senza dubbio. Basti guardare alla mobilitazione militare che non coinvolge solo i mezzi cinesi ma anche quelli americani e giapponesi. Penso che rispetto alla terza crisi del 1995-1996 il periodo delle esercitazioni sarà più breve ma la loro intensità, e dunque il pericolo, sarà maggiore. La Cina non è più il paese del 1996, militarmente è molto più potente e sicura di sé.

Come gestire questo momento così delicato da parte del governo taiwanese?
La chiave di questa crisi è capire come e quanto Taiwan e Usa collaboreranno a livello militare. Più la Cina osserverà un livello alto di coordinamento e più sarà cauta nel prossimo futuro. Se ciò non accadrà, Pechino potrebbe aumentare l’intensità delle azioni militari.

Pensa che la Casa bianca sia intenzionata a farlo?
Biden stava cercando il dialogo con Xi, ma dopo la visita di Pelosi sarà costretto a cambiare approccio. Le forze americane presenti in Giappone e del comando dell’Indo-Pacifico credo siano pronte a essere mobilitate in caso di un’escalation.

Pechino è già in grado di condurre un’invasione su larga scala di Taiwan?
Al momento non ha abbastanza capacità, soprattutto anfibie. Ma al massimo entro 10 anni le avrà.

Ci si può aspettare qualche annuncio su Taiwan da parte del Partito comunista?
Dopo le due sessioni di marzo è chiaro che dal prossimo Congresso emergerà una «nuova strategia per risolvere la questione di Taiwan nella nuova era». La visita di Pelosi può cambiare il contenuto di quel documento con una estensione delle misure messe in campo, comprese quelle militari, diplomatiche e di infiltrazione.

Quali effetti ci saranno sulla politica interna?
Probabilmente ci sarà una spinta in direzione del Dpp per le elezioni di novembre, ma per quanto riguarda le presidenziali del gennaio 2024 è ancora tutto da vedere quali effetti anche economici ci saranno sul medio e lungo periodo. Aspetterei a dare il Dpp già vincitore.

Da Wei, Tsinghua University (intervista realizzata dopo la conclusione delle esercitazioni militari cinesi)

Da Wei è il direttore del Centro per la sicurezza e la strategia internazionale (CISS) della Tsinghua University di Pechino. Noto esperto di relazioni Cina-Stati Uniti, l’ho intervistato per la Stampa per capire di più la prospettiva di Pechino sullo scontro diplomatico con Washington in seguito alla visita di Pelosi a Taiwan.

Joe Biden e Antony Blinken hanno ribadito più volte che l’amministrazione USA si oppone a qualsiasi sforzo unilaterale per cambiare lo status quo sullo Stretto di Taiwan. Può bastare il viaggio di Nancy Pelosi per convincere la Cina che non sia vero?

Ovviamente non è vero. Nancy Pelosi è la leader del braccio legislativo del governo degli Stati Uniti e ha svolto una visita a Taiwan in veste ufficiale. Questo viola la promessa di mantenere con Taiwan solo rapporti non istituzionali. Una promessa che gli USA hanno già più volte rotto.

La Casa Bianca ha ricordato che non può impedire alla speaker della Camera di compiere un viaggio. Gli USA sostengono che sia la Cina a voler cambiare lo status quo. Tagliare ora le comunicazioni non aumenta il rischio di incidenti?

Ritengo che la Casa Bianca non possa, davvero, decidere le azioni della Speaker della Camera, ma questa situazione ha messo in luce una contraddizione sulle posizioni di politica estera tra il braccio legislativo e quello amministrativo degli USA. La Casa Bianca dichiara di sostenere la One China Policy e ha espresso la sua non approvazione per la visita di Pelosi. Tuttavia quest’ultima ha potuto, per i suoi interessi politici personali, sfidare gli interessi cinesi e danneggiare anche quelli americani. Chi potrà ancora voler negoziare con l’amministrazione USA? Dopo aver raggiunto una comunanza di vedute, si rischia che il Congresso getti nella spazzatura il consenso raggiunto. Interrompere la comunicazione sui dossier, compreso quello sulla difesa, è inevitabile. Il governo cinese e l’amministrazione Biden si sono impegnati molto per la riapertura dei canali di comunicazione, spezzati ora da Pelosi. Senza comunicazione aumenta il rischio di incidenti, ma questa è la risposta col prezzo più basso tra quelle che la Cina avrebbe potuto mettere in atto. Le altre azioni probabilmente sarebbero state più pericolose. Speriamo che la controparte USA possa quanto prima correggere gli errori, per facilitare la ripresa più rapida possibile dei canali di comunicazione.

Come vanno interpretate le esercitazioni militari intorno a Taiwan? Ci si può aspettare un’azione militare nel prossimo futuro?

Non ritengo che la Cina debba davvero ricorrere ad azioni militari. La Cina attua una politica di riunificazione pacifica e si impegnerà al massimo per ottenerla. La situazione attuale non è ancora degenerata al punto da richiedere l’uso della forza da parte per realizzare la riunificazione. Con le esercitazioni militari attuali si sta esprimendo l’ira della Cina e scongiurando che vi siano altre azioni simili.

Blinken ha dichiarato che i mezzi navali USA continueranno a transitare per lo Stretto di Taiwan. Questo a quali conseguenze può portare?

Le navi militari USA hanno attraversato lo Stretto di Taiwan più volte in passato, 9 volte lo scorso anno e finora 4 quest’anno. Credo che gli USA abbiano diritto di farlo e non c’è ragione che Blinken sottolinei che le navi continueranno ad attraversare lo Stretto come se in precedenza la Cina non lo avesse permesso. Ovviamente, se nell’attraversarlo entrassero nelle acque territoriali cinesi, dovrebbero rispettare la “legge sulle acque territoriali e la zona contigua” cinese.

Da giugno la Casa Bianca stava cercando maggiore dialogo con la Cina. Non pensa che la reazione cinese costringa Biden a tornare sui suoi passi e che con una reazione più morbida quel percorso si sarebbe potuto preservare?

Si, il ritmo dei contatti bilaterali temo che dovrà rallentare, non ci si può fare niente. La Cina spera che riprendano e anche l’amministrazione Biden. Non è la Cina che doveva scegliere una risposta più morbida per tutelarli, è Pelosi che non avrebbe dovuto fare visita a Taiwan per proteggerli. Sono stati gli USA a provocare e la Cina è stata spinta a reagire. La questione di Taiwan è il maggior interesse nazionale cinese ed è il problema che il popolo cinese ha più a cuore. Non c’è spazio per compromessi, la Cina non può sacrificare i suoi interessi sulla questione di Taiwan per mantenere i suoi contatti con gli USA.

A Taiwan oltre l’80% dice di volere lo status quo e gli ultimi anni sembrano mostrare che più la Cina è dura e assertiva e più se ne allontanano. Non crede che le esercitazioni e le altre reazioni del governo cinese possano creare ulteriori fratture?

Devo ribadire che la risposta della Cina è un’azione che non poteva non essere intrapresa. Se ci fosse stato un altro modo, lo avremmo sicuramente utilizzato. Inoltre, a uno sguardo superficiale, le esercitazioni potrebbero aver aumentato le perplessità degli abitanti di Taiwan nei confronti del Continente ma in realtà, guardando alle reazioni degli abitanti dell’isola dopo le esercitazioni, questi non sono apparsi particolarmente preoccupati. Queste misure sono dirette alle politiche su Taiwan degli USA e alle forze separatiste presenti sull’isola, assolutamente non ai cittadini comuni di Taiwan.

Perché sono stati tagliati i colloqui con gli USA anche sul clima?

La Cina ha interrotto temporaneamente il dialogo con gli USA sul clima, ciò non vuol dire che abbia fermato il suo impegno per la lotta ai cambiamenti climatici. La stragrande maggioranza delle azioni della Cina sul tema è un lavoro che porta avanti da sola, non ha nulla a che fare con gli USA. Dopo l’insediamento di Biden, le due parti hanno avuto contatti sul clima e c’è stato un dialogo, ma non risultati concreti. Blinken ha affermato che la politica USA nei confronti della Cina prevede tre aspetti: contrapposizione, concorrenza e cooperazione. La Cina non può lasciare che siano gli USA, unilateralmente, a decidere in quali settori ci possa essere cooperazione e in quali concorrenza o contrapposizione. Se gli USA scelgono contrapposizione alla Cina su una delle questioni più focali per quest’ultima, quella di Taiwan, che senso ha continuare a cooperare in altri settori?

Di Lorenzo Lamperti

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