Taiwan Files – Speciale 2021

In Asia Orientale, Taiwan Files by Lorenzo Lamperti

Politica interna e geopolitica, ambiguità strategica e incursioni aeree, status quo e identità, economia e business, tech e semiconduttori, cultura e altro. Edizione speciale della rassegna a cura di Lorenzo Lamperti con una raccolta delle notizie e approfondimenti da Taipei e dintorni dell’anno appena trascorso.

Tutto pronto al Taipei 101, a lungo grattacielo più alto del mondo e tra i simboli di Taiwan. Come ogni anno, il passaggio tra il 31 dicembre e il 1° gennaio verrà celebrato con uno spettacolo di fuochi artificiali che verrà trasmesso in diretta sulle pagine Facebook delle rappresentanze taiwanesi nel mondo. Il passaggio dal 2021 al 2022 (in attesa dell’ingresso nell’anno della tigre col capodanno cinese) verrà sancito dal lancio di 16 mila fuochi nell’arco di 360 secondi e il tema dell’anno è “verso un futuro migliore”.

In attesa di vedere che cosa può riservare il 2022 non solo a Taiwan ma in generale all’Asia (a proposito, China Files ha pubblicato un corposo dossier sul 2022 di Cina e Asia con il mini e-book numero 9 che si può recuperare qui) ripercorriamo quanto accaduto nel 2021 con una rassegna delle puntate di Taiwan Files, con l’aggiunta finale di qualche novità dell’ultima settimana.

Agosto – Vaccini per Taiwan: una questione privata

I vaccini sono diventati l’ennesimo terreno di scontro e accuse incrociate tra Pechino e Taipei, in modo ben più sensibile rispetto alle precedenti polemiche sulle mosse del governo cinese che avrebbe provato a portare dalla sua parte alcuni degli alleati diplomatici rimasti a Taiwan, come Paraguay e Honduras, dietro l’offerta di vaccini.

La realtà è, come sempre, più sfaccettata di quanti sembri. Pechino accusa il governo taiwanese di non tutelare la salute dei suoi cittadini per la decisione di non trattare con Fosun e di non importare i sieri cinesi. Tsai ha invece sempre reiterato l’intenzione di non negoziare con entità cinesi fino a quando la Cina avesse continuato a interferire con l’approvvigionamento di sieri. Una posizione di chiusura che le ha causato critiche dal suo predecessore Ma Ying-jeou e in generale del Guomindang, di cui più di un esponente ha annunciato l’intenzione di farsi vaccinare in Cina. D’altronde, il governo cinese ha più volte invitato i cittadini taiwanesi a farsi vaccinare coi sieri delle aziende continentali. Inviti rifiutati, con il governo di Taipei che ha piuttosto puntato sui due vaccini locali, sviluppati da United Biomedical e Medigen, il cui siero è stato approvato per utilizzo di emergenza nonostante non abbia ancora completato la fase tre di sperimentazione. Il fatto che a giugno uno dei membri del comitato di revisione del vaccino, Chen Pei-jer dell’Academia Sinica, si sia dimesso per timore di una “politicizzazione” del processo di approvazione, non ha giovato alla popolarità del siero: in un sondaggio di luglio solo il 20 per cento degli intervistati aveva manifestato la volontà di farsi inoculare il siero taiwanese.

Le difficoltà della campagna hanno colpito anche la stessa Tsai, la cui popolarità a giugno è scesa al 43 per cento, contestualmente a un calo del 15 per cento in tre mesi del suo Partito Democratico Progressista (DPP). Un grande aiuto è arrivato dai principali alleatiGiappone e Stati Uniti, che hanno sbloccato l’invio di diverse milioni di dosi di vaccini in linea con la crescente assertività dei rispettivi governi sulle manovre di Pechino nello Stretto. Ma un ulteriore aiuto è arrivato anche da due delle principali aziende private taiwanesi. Il 12 luglio, Foxconn e Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC) hanno infatti chiuso un accordo con Fosun per l’acquisto di dieci milioni di dosi di Pfizer che arriveranno, pare a settembre, dalla Germania. Un accordo che ha consentito al governo cinese di negare la versione delle ingerenze nell’approvvigionamento e allo stesso tempo di giocarsi una carta diplomatica presso i taiwanesi dimostrando benevolenza e dando la responsabilità dei ritardi alla volontà di non trattare di Tsai. Il tutto attraverso la figura di Terry Gou, il patron di Foxconn con svariati interessi nella Repubblica Popolare, che ha già corso senza successo per le primarie del Guomindang in vista delle elezioni 2020. Secondo alcuni analisti, questo episodio potrebbe consentire a Gou di riprovarci nel 2024, o comunque potrebbe in qualche modo riavvicinare Taiwan alla Cina. In realtà, non è certo la prima volta che le aziende private svolgono funzioni diplomatiche tra le due sponde dello Stretto. L’impossibilità del dialogo politico richiede l’ingresso in gioco di entità intermedie per portare avanti un dialogo non ufficiale o, come in questo caso, degli affari sensibili. Non sorprende, dunque, che Tsai abbia dato il suo via libera per l’acquisto delle dosi da Fosun da parte di Foxconn e TSMC. Sarebbe semmai da sottolineare la  tempistica, solo dopo l’arrivo degli aiuti da Giappone e Stati Uniti, in grado di diluire l’incidenza (materiale e simbolica) di quelli in arrivo tramite il via libera di un’azienda cinese.

Per approfondire: Commentary per ISPI – Vaccini per Taiwan: una questione privata

 

Settembre – Le statue di Chiang Kai-shek

Il governo di Tsai Ing-wen sta favorendo una ricostruzione identitaria che prenda le distanze dal passato della Repubblica di Cina, il nome ufficiale di Taiwan. Tra questi l’emblema nazionale, simile a quello del Guomindang e le statue erette in onore di Chiang Kai-shek, lo sconfitto della guerra civile cinese che ripiegò su Formosa dando il via a quasi quattro decenni di autoritarismo e legge marziale. La Transitional Justice Commission ha proposto di convertire in un parco pubblico il monumento commemorativo a Chiang, celebre attrazione turistica nel centro di Taipei. Il sito non verrà abbattuto ma saranno rimossi tutti i simboli associati all’ex leader, compresa un’enorme statua in bronzo, e verranno ospitate mostre che raccontino (e celebrino) la transizione di Taiwan da regime autoritario a democrazia. Del tema del riposizionamento delle statue aveva già parlato in passato anche Stefano Pelaggi.

Per approfondire: Taiwan Files 11 settembre 2021 – super tifoni, brezze militari e aliti di storia

 

Settembre – I giochi di guerra Han Kang

Il weekend del Moon Festival chiude una settimana movimentata per gli abitanti di Taiwan. Mercoledì i residenti hanno ricevuto un sms di allerta che li avvertiva della simulazione di un attacco aereo, che tra le altre cose ha previsto l’atterraggio di velivoli militari in autostrada. Venerdì è stata la volta di un altro messaggio su delle esercitazioni di reazione a catastrofi naturali come terremoti. Qualche utente di Twitter ha sottolineato ironicamente la consuetudine dei veri terremoti che colpiscono l’isola (l’ultimo dei quali peraltro lunedì scorso), zona altamente sismica.

Da lunedì 13 a venerdì 17 settembre si sono infatti svolti gli Han Kuang (ne ho scritto qui per il Manifesto), i tradizionali test militari che coinvolgono tutte le componenti dell’esercito taiwanese. Nella prima giornata è stato simulato un attacco biochimico ed è stata testata la forza di combattimento in risposta a un primo tentativo di assalto. Sono entrati in azione i Mirage 2000s e gli F-16V, mentre i P-3C andavano a caccia di sottomarini. Si sono poi raggruppati nella base sotterranea antiatomica nei pressi della città di Hualien, sulla costa orientale dell’isola, che può accogliere fino a 200 aerei. Martedì si sono testate le capacità di reazione a uno sbarco anfibio e le strategie di difesa delle infrastrutture critiche, con la messa in scena di un attacco agli impianti i telecomunicazione chiave nel nord di Formosa. Un tema sensibile, visto che il recente report annuale del ministero della Difesa sostiene che la Cina sarebbe in grado di «paralizzare» le difese militari taiwanesi e di bloccare le comunicazioni del comando marittimo e di quello aereo, nonché quelle con le diverse isole minori sotto il controllo di Taipei. Sono state realizzate anche manovre notturne di veicoli blindati a est. Si è proseguito poi con altri test aerei, navali e terrestri. Tra gli scenari presi in considerazione dalle esercitazioni anche un «decapitation strike» presso l’ufficio presidenziale di Taipei. Gli Han Kuang arrivano in un momento delicato per i rapporti sullo Stretto.

La prima volta che si sono svolti, nel 1984, nella Repubblica di Cina, Taiwan, vigevano ancora un sistema a partito unico e la legge marziale. Il Guomindang non aveva accantonato il desiderio di riappropriarsi della Cina continentale. Oggi, come certificato dall’ultimo report della Difesa di cui abbiamo parlato nella prima puntata di Taiwan Files, i rapporti di forza sono sempre più sbilanciati a favore di Pechino.

Tsai Ing-wen ha dichiarato che le forze armate taiwanesi sono “pronte a rispondere a qualsiasi minaccia” e ha descritto gli Han Kuang come una prova che i taiwanesi sono determinati a difendersi (del centrale tema della volontà difensiva avevo scritto in un recente commentary per ISPI, qui). Ma dagli Stati Uniti si sostiene che gli Han Kuang mettano in risalto non tanto i punti di forza quanto quelli di debolezza della capacità militare taiwanese. Come scritto sul Manifesto, gli Usa continuano a invitare Taipei ad aumentare la spesa militare e a fare come Israele. Nei giorni scorsi, è stato annunciato un aumento di 9 miliardi di dollari di investimenti per la difesa, con il fondamentale capitolo della produzione di missili.

I “wargames” si sono svolti in seguito a una visita nel Maryland del ministro degli Esteri taiwanese Joseph Wu e del segretario generale del Consiglio di sicurezza nazionale Willington Koo sono stati negli Usa. Un viaggio non pubblicizzato, durante il quale secondo il Financial Times avrebbero incontrato ufficiali di alto livello del governo americano. Al centro dei colloqui difesa e sicurezza. Il tutto mentre l’amministrazione Biden considera la possibilità di concedere il cambio di nome dell’ufficio di rappresentanza di Taipei a Washington, includendo la parola «Taiwan».

Per approfondire: Taiwan Files 18 settembre 2021 – Moon Festival, wargames, Pacifico, chip e spazio

 

Settembre – Aukus e CPTPP

Nella strategia americana per il Pacifico c’è “un grande buco”. Aukus e Quad possono ribilanciare l’equilibrio di forza militare, ma manca un piano per scalfire la leadership commerciale cinese nella regione. Troppo poco (e troppo vago) il suo Build Back Better World annunciato al G7 di Cornovaglia per sedurre i paesi del Sud-Est asiatico che considerano la Cina un irrinunciabile partner economico. Pechino lo sa. Non a caso ha risposto ad Aukus richiedendo l’adesione alla Comprehensive and Progressive Trans-Pacific Partnership. La Cptpp, un accordo di libero scambio che unisce undici paesi del Pacifico tra Asia, Oceania e Sudamerica, era stata pensata da Barack Obama come il pilastro commerciale del suo Pivot to Asia ma era stata poi cestinata da Donald Trump. Il tempismo della richiesta cinese manda un chiaro messaggio retorico al resto dell’Asia: mentre Washington rischia di alimentare la proliferazione nucleare con l’Aukus, la Cina riempie il vuoto sul fronte commerciale. Taiwan ha subito risposto chiedendo a sua volta l’ammissione con l’appoggio del Giappone. L’Australia ha fatto sapere che porrà il veto all’adesione della Cina e che chiederà l’ingresso degli Usa. Difficile possa accadere, vista l’ostilità del Congresso. Washington ha comunque fatto sapere che i “valori democratici” di Taipei dovrebbero essere tenuti in conto per la richiesta di adesione. La sfida geopolitica, insomma, non è solo militare-difensiva ma anche economica-commerciale.

Per approfondire: Taiwan Files 25 settembre 2021 – Elezioni Guomindang, CPTPP, francesi a Taipei

 

Settembre – Eric Chu torna leader del Guomindang

No taiwanizzazione, no riunificazione. Sì al dialogo con Pechino. Alla fine il Guomindang ha scelto l’usato sicuro, seppure non vincente, e ha affidato la presidenza del partito a Eric Chu. Si tratta della notizia politica più rilevante in arrivo da Taiwan negli ultimi sette giorni, che ho coperto in presa diretta dal quartier generale del Gmd a Taipei e di cui avevamo parlato già nella scorsa puntata di Taiwan Files.

Come interpretare la scelta di Chu? Meno filocinese e più presentabile di Chang e più al centro di Chiang, con Chu il Gmd dimostra di non voler rinunciare alla vocazione maggioritaria ma anche di non essere pronto a un vero rinnovamento. “Riapriremo un canale di comunicazione con Pechino”, ha affermato nel suo discorso di vittoria Chu, che nel 2015 incontrò Xi Jinping. Chu dice di mirare a un riequilibrio delle relazioni internazionali taiwanesi tra Stati Uniti e Cina, ora decisamente più sbilanciate verso Washington. Ancora presto per dire se sarà davvero Chu a candidarsi nel 2024. Si fa per esempio il nome dell’apprezzato sindaco di New Taipei, Hou Yu-ih. “Non riusciamo più a comunicare con una parte dei cittadini”, confidava alla vigilia un membro del partito. Intanto il Gmd ha scelto di tornare a un porto sicuro, seppur non vincente visto il ko di Chu del 2016. In attesa di capire verso che direzione salpare.

Durante lo spoglio, nella sede del partito si respirava un’atmosfera da pericolo scampato. “Menomale, siamo sollevati”, mi hanno detto esplicitamente, anche se a microfoni spenti, alcuni membri del Gmd. Per qualche ora si era temuto che la clamorosa rimonta dell’outsider Chang Ya-chung avrebbe potuto completarsi davvero. “Avrebbe spaccato il partito”, si mormora dopo che la vittoria di Chu diventa chiara. Chang, considerato una sorta di nuova emanazione di Han Kuo-yu (sconfitto da Tsai Ing-wen nel 2020), aveva conquistato lo zoccolo duro più filocinese del partito proponendo un trattato di pace con la Repubblica Popolare. Chang si è presentato come ultima possibile ancora di salvezza del Gmd e di Taiwan. Con una vittoria avrebbe presentato la sfida tra Gmd e Dpp come una scelta tra pace e guerra. Eppure, il partito che fu di Sun Yat-sen e Chiang Kai-shek è convinto che ormai quello che una volta era un suo punto a favore, vale a dire essere considerato l’unico interlocutore politico di Pechino a Formosa, ora sia uno svantaggio. Anche per questo, dopo il tracollo delle elezioni 2020, la presidenza ad interim era stata affidata a Johnny Chiang.

Il risultato può non dispiacere anche a Pechino. Chang avrebbe potuto far perdere la vocazione maggioritaria al Gmd, Chiang invece poteva significare un rinnovamento del posizionamento del partito che è l’unico interlocutore possibile per il Partito comunista cinese a Taiwan. Xi Jinping ha recapitato un messaggio di congratulazioni a Chu. “Attualmente, la situazione nello stretto di Taiwan è complessa e cupa. Tutti i figli e le figlie della nazione cinese devono lavorare insieme con un cuore solo e andare avanti insieme”, ha scritto Xi, che ha espresso l’auspicio che con la vittoria di Chu entrambe le parti possano cooperare per “cercare la pace nello stretto di Taiwan, cercare la riunificazione nazionale e cercare la rivitalizzazione nazionale”. Le elezioni del 2024 sembrano rappresentare il momento decisivo, nel quale Pechino capirà se ha ancora speranze di riavviare il dialogo con Taipei alle sue condizioni oppure no.

Per approfondire: Taiwan Files 2 ottobre 2021 – Eric Chu, movimenti militari, rapporti con l’Ue e chip

 

Ottobre – Feste nazionali, incursioni aeree e percezione dei taiwanesi

10 ottobre 1911. La rivolta di Wuchang dà il via alla rivoluzione Xinhai. Si tratta dell’inizio della fine per la dinastia imperiale Qing. Un anno più tardi nasce la Repubblica di Cina con la nomina di Sun Yat-sen a presidente del Consiglio delle province. 120 anni dopo la ricorrenza viene ancora celebrata a Taiwan, il cui nome ufficiale resta appunto Repubblica di Cina. Per domenica si preparano delle celebrazioni in tono minore a causa del Covid-19, come già accaduto lo scorso anno. Parlerà la presidente Tsai Ing-wen, ci sarà una dimostrazione aerea e verranno mostrati quattro nuovi tipi di missili.

Il 10 ottobre 1911 è una data ricordata in larga parte con piacere anche a Pechino, perché viene considerato l’avvio di un processo che porterà alla fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, al termine della guerra civile che vide prevalere il Partito comunista con la fuga dei nazionalisti del Guomindang a Taiwan. Ma la festa nazionale della Repubblica Popolare è celebrata il 1° ottobre. Da tempo, la prima decade di ottobre è permeata di tensioni e anche retorica tra le due sponde dello Stretto. Il 10 ottobre 2020 l’Esercito popolare di liberazione aveva operato un test su larga scala che prevedeva la simulazione di un’invasione terrestre di un’isola. Quest’anno, i “festeggiamenti” sono iniziati prima, con 156 aerei militari entrati nella zona di identificazione di difesa aerea taiwanese nel giro di quattro giorni, tra venerdì 1° ottobre e lunedì 4 ottobre.

In tutto il 2020 le incursioni erano state 380, nel 2021 sono già oltre 600. Gli aerei non violano lo spazio aereo de facto di Taiwan (non riconosciuto da Pechino), che si estende per 12 miglia nautiche dalla costa, ma negli ultimi tempi sui media cinesi sono comparsi inviti all’esercito di sorvolare direttamente il territorio dell’isola. Azione che rischierebbe di innescare un’escalation, anche perché i canali di comunicazione intrastretto sono tagliati sin dall’elezione di Tsai nel 2016 e dal suo mancato riconoscimento del cosiddetto “consenso del 1992”, pilastro del quale Pechino non intende fare a meno per mantenere un canale di dialogo.

Il ministero della Difesa di Taipei ha spiegato che le attuali tensioni militari sono “al punto più alto degli ultimi 40 anni”, aggiungendo di temere che Pechino possa davvero optare per un’invasione entro il 2025. In un intervento su Foreign Affairs, Tsai ha avvertito che l’eventuale caduta di Taiwan avrebbe conseguenze catastrofiche” per la pace regionale e segnalerebbe al mondo che “l’autoritarismo può avere la meglio sulla democrazia”. Il governo ha anche sottolineato che senza la pace salterebbe la cruciale catena di approvvigionamento globale dei semiconduttori, settore in cui Taiwan è leader mondiale. Il tentativo è quello di presentarsi come indispensabili a livello economico, strategico e retorico, provando così a rendere più esplicito l’appoggio degli Usa e dei suoi partner. Washington ha sempre mantenuto una “ambiguità strategica” sulla possibilità di intervenire militarmente a difesa di Taiwan in caso di attacco, ma l’appoggio a Taipei è diventato più chiaro nell’ultimo anno, sia con Trump sia con Biden.

Proprio Biden ha dichiarato che Xi Jinping si atterrà a quello che ha definito “accordo su Taiwan“, senza spiegare esattamente a che cosa si riferisse. Ma in realtà il dossier taiwanese appare insolubile nell’ambito dei rapporti Washington-Pechino. Secondo il Wall Street Journal, a Taiwan ci sarebbe un contingente di consiglieri militari per addestrare le forze terrestri e marittime locali. Notizia non smentita dal Pentagono e che rischia di avvelenare i tentativi di dialogo cominciati a Zurigo con l’incontro tra Jake Sullivan a Yang Jiechi. Ad agosto, dopo un tweet del senatore repubblicano John Cornyn, il Global Times aveva paragonato l’ipotetica presenza fissa di militari americani in territorio taiwanese a una “invasione militare”, definendola “l’equivalente di una dichiarazione di guerra”.

“La Cina prenderà tutte le misure necessarie per salvaguardare la sovranità e l’integrità territoriale”, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Zhao Lijian. “Gli Stati Uniti dovrebbero riconoscere pienamente il carattere altamente sensibile della questione di Taiwan, attenersi al principio dell’unica Cina, e smettere di vendere armi a Taiwan e di stabilire contatti militari con essa, per non danneggiare seriamente le relazioni tra Cina e Stati Uniti e la pace e la stabilita’ nello Stretto”.

Hu Xijin, direttore del Global Times, ha invece sfidato Washington a inviare pubblicamente e «in uniforme» i suoi militari sull’isola, verificando in quel modo «se l’Esercito popolare di liberazione ordinerà un attacco aereo per eliminare gli invasori». Non si tratta peraltro di una novità assoluta, negli scorsi mesi si era parlato più volte dell’invio di consiglieri e di esercitazioni militari congiunte Usa-Taiwan. Ma certo la permanenza in pianta stabile di un contingente militare darebbe una prospettiva diversa.

Da una parte preoccupazione, dall’altra assuefazione. Mentre il mondo parla delle incursioni aeree cinesi, a Taiwan la notizia del giorno è il ricevimento di una delegazione di senatori francesi e dell’ex premier australiano Tony Abbott da parte della presidente Tsai Ing-wen. Nessun allarmismo, i cittadini continuano ad andare a lavoro e a svolgere le loro attività come se nulla fosse. Secondo un sondaggio del think tank Intelligentsia Taipei, il 60% dei taiwanesi intervistati ritiene improbabile una guerra nei prossimi dieci anni.

“Il sentimento generale dell’opinione pubblica è di rabbia piuttosto che di paura”, spiega Jenjey Chen, caporedattore dell’agenzia di stampa taiwanese Central News Agency (Cna). I taiwanesi sono abituati alle tensioni con Pechino e non si sentono nel “posto più pericoloso del mondo” come l’ha definito l’Economist. Gli over 35 raccontano della paura provata, allora sì, per la terza crisi dello Stretto del 1995-1996. La risposta americana di allora e l’alto livello di retorica che permea tutto quanto si dica o si faccia su Taiwan hanno creato un sentimento di abitudine.

Così come quasi nessuno fa caso al frequente sibilo degli aerei taiwanesi in volo per esercitazioni o per rispondere alle incursioni, in molti collegano queste ultime all’anniversario della fondazione della Repubblica Popolare (1° ottobre) e alle celebrazioni taiwanesi del 10 ottobre. Insomma, più una parata militare che un preparativo all’invasione, e magari un messaggio al Guomindang che ha appena eletto Eric Chu suo nuovo leader e alla ricerca di una linea politica in vista delle elezioni del 2024, momento forse decisivo per il futuro delle relazioni intrastretto.

Intanto, diversi analisti nonché componenti dell’opposizione Guomindang chiedono un’estensione del periodo del servizio militare. Ne è scaturito un dibattito interessante, riportato dal Taipei Times. Il Dpp sostiene che aumentare la durata del servizio è complicato in una “società democratica”.

Ma “nell’ultimo anno le incursioni sono diventate quasi una ricorrenza quotidiana”, dice Chen. Moltiplicare le incursioni aeree può avere un duplice effetto, economico e psicologico, sulle forze militari taiwanesi, chiamate a rispondere pur avendo meno mezzi a disposizione. E rendere le incursioni una cosa “normale” potrebbe causare un errore di lettura nel caso un’operazione reale venga scambiata per un’esercitazione. Il tutto mentre la zona grigia attorno a Taiwan viene allargata sia a livello operativo che infrastrutturale, per esempio con la costruzione di nuovi hangar nella provincia dello Zhejiang.

Come detto, il ministro della Difesa Chiu Kuo-cheng ha avvertito che entro il 2025 la Cina potrebbe aver maturato non solo la capacità ma anche la decisione di condurre un’invasione. Si ritiene il rischio non immediato, soprattutto per l’approssimarsi del congresso del Partito comunista che dovrebbe conferire il terzo mandato a Xi Jinping. Ma dal 2023 la situazione potrebbe cambiare e il governo ha aumentato l’urgenza degli avvertimenti, spesso sottovalutati anche per la bassa risonanza data tradizionalmente (su suo input) dai media taiwanesi. Da una parte per far uscire gli Usa e i loro partner asiatici dalla loro “ambiguità strategica”, dall’altra per evitare che in caso di minaccia imminente manchi tra i taiwanesi la prontezza (e la volontà) a combattere. E in quel caso, Kabul insegna, gli addestramenti americani contano poco.

Per approfondire: Taiwan Files 9 ottobre 2021 – Aerei, marines, feste nazionali e incroci diplomatici

Ottobre – I discorsi di Xi Jinping e Tsai Ing-wen

La novità è che non ha pronunciato la formula “senza escludere l’utilizzo della forza”. Xi Jinping ribadisce l’impegno alla “riunificazione” tra Repubblica Popolare Cinese e Taiwan, definendola una “questione interna” nella quale non saranno ammesse “interferenze”. Lo ha fatto parlando dalla Grande sala del popolo, in occasione del discorso in memoria della rivolta di Wuchang, la scintilla che fece esplodere la rivoluzione Xinhai che portò alla fine della dinastia Qing e alla fondazione della Repubblica di Cina. Quella Repubblica di Cina che oggi è il nome ufficiale di Taiwan, la cui separazione dalla “madrepatria” per Xi è il risultato di debolezza e caos che ora hanno lasciato posto a forza e ordine. Ecco perché “nessuno dovrebbe sottovalutare la solida determinazione del popolo cinese e la sua forte capacità di difendere la sovranità nazionale”. Dopo la restituzione (e normalizzazione) di Hong Kong e Macao, il “secessionismo di Taiwan” è rimasto “il più grande ostacolo alla riunificazione nazionale e una seria minaccia al ringiovanimento nazionale. Chiunque voglia tradire e separare il paese sarà condannato dalla storia”.

Ma, rispetto al recente passato, i toni del discorso sono stati meno aggressivi. “La riunificazione con mezzi pacifici serve al meglio gli interessi della nazione cinese nel suo insieme, compresi i connazionali di Taiwan”, ha dichiarato Xi, citando la necessità di aderire al principio dell’unica Cina e al “consenso del 1992”. A luglio aveva promesso di “distruggere” qualsiasi tentativo di indipendenza formale di Taipei. Ancora più emblematico il discorso del 2 gennaio 2019, quando non escluse l’utilizzo della forza per completare la riunificazione. Parole volte a spingere il Guomindang verso le elezioni presidenziali del 2020, ma che unite alle proteste e alla stretta su Hong Kong ebbero l’effetto opposto, spianando la strada alla conferma di Tsai Ing-wen. L’ufficio di presidenza di Taipei, in attesa del discorso di domenica di Tsai, ha respinto l’offerta del modello “un paese, due sistemi”, reiterata da Xi. E il Consiglio per le relazioni intrastretto ha invitato Pechino ad abbandonare le “misure provocatorie e di intrusione”, sottolineando che “solo i 23 milioni di abitanti” dell’isola hanno il diritto di “decidere il futuro e lo sviluppo di Taiwan”. Xi implementa una “narrativa storica olistica”, come l’ha definita Xie Maosong dell’università Tsinghua. Narrativa secondo la quale la visione di Sun Yat-sen è stata ereditata proprio dal Partito comunista in seguito alla morte del fondatore del Guomindang e primo presidente della Repubblica di Cina, e non dai nazionalisti di Chiang Kai-shek fuggiti a Taiwan.

Nel suo discorso, invece, Tsai ha affermato che Taiwan continuerà a rafforzare la difesa nazionale e “dimostrare la determinazione a difendersi”, per garantire che nessuno possa costringere l’isola a seguire la strada “che la Cina ha tracciato”. Tsai ha riaffermato il diritto all’autodeterminazione per i 23 milioni di cittadini taiwanesi, elogiando la crescita economica di Taiwan.

Nel suo discorso, Tsai ha ribadito il suo invito a Pechino “a impegnarsi in un dialogo sulla base della parità” e ha affermato di essere favorevole al mantenimento dell’attuale status quo tra i due vicini, nonostante le “sfide senza precedenti” causate secondo lei dalle pressioni della Repubblica Popolare.  Ma ha avvertito che ciò che accade a Taiwan avrebbe importanti implicazioni regionali e globali: “Ogni passo che facciamo influenzerà la direzione futura del nostro mondo, e la direzione futura del nostro mondo influenzerà anche il futuro di Taiwan stessa”.

Pechino ha replicato accusando Tsai di esigere un qualcosa che non può concedere, vale a dire un dialogo alla pari tra stato e stato. Dinamica esemplificativa dello stallo esistente nel dialogo bilaterale dal 2016. Pechino pone come precondizione al dialogo l’accettazione del “consenso del 1992”, Tsai pone invece come condizione quella che non ci siano precondizioni.

Attenzione alle sottigliezze, ai non detti e alle linee irregolari che esistono nei rapporti intrastretto. Per Tsai e il Dpp di fatto esistono già due stati, la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica di Cina. Una presa d’atto di una situazione de facto, ma che nel discorso di domenica Tsai ha reso più esplicita, ponendo un accento maggiore sulla “non appartenenza reciproca” delle due entità. Posizione che non piace a Pechino, che la considera “secessionista”, nonostante rappresenti in realtà una posizione vissuta da Tsai e dal Dpp (così come dall’elettorato più indipendentista) come un “compromesso”, perché non realizza l’ambita indipendenza come Repubblica di Taiwan. Posizione diversa rispetto a quella del Guomindang, che invece ritiene sì Taiwan essere parte della Cina, ma della Repubblica di Cina, non della Repubblica Popolare Cinese. Questo perché costituzionalmente la Repubblica di Cina rivendica il controllo di tutto il territorio cinese.

Per approfondire: Taiwan Files 16 ottobre 2021 – Incendio a Kaohsiung, 10/10, strategia militare (e non), Harvard

 

Ottobre – La chiarezza (o confusione?) strategica di Biden

“Gli Stati Uniti difenderebbero Taiwan in caso di attacco?”, chiede un giornalista della Cnn. “Sì, abbiamo un impegno a farlo”, risponde Biden. È la seconda volta nel giro di due mesi che il presidente americano parla di un impegno che sulla carta, in realtà, non esiste. Il Taiwan Relations Act, il pilastro del mantenimento della pace sullo stretto nonché strumento regolatore dei rapporti Washington-Taipei, prevede l’impegno a supportare gli sforzi dell’isola a proteggersi, per esempio attraverso la vendita di armi. Ma è proprio sull’assenza dell’impegno a intervenire in caso di guerra che si è sempre basata la cosiddetta “ambiguità strategica” della postura statunitense.

“Riposa in pace, ambiguità strategica”, ha commentato su Twitter l’analista Derek Grossman. Come accaduto in agosto, subito dopo il ritiro da Kabul, un portavoce della Casa Bianca ha immediatamente chiarito che le parole di Biden non implicano un cambio di strategia degli Stati Uniti su Taiwan. Ma, come fa notare sempre Grossman, non per forza il cambiamento deve essere “messo nero su bianco”. Anche se la linea ufficiale resta la solita, le ripetute dichiarazioni di Biden sull’argomento non sarebbero dunque delle “gaffe” ma segnali di “chiarezza strategica” con due destinatari: Pechino, con finalità di deterrenza, e Taipei, con finalità di rassicurazione. Finora, Taipei aveva preferito la sicurezza dell’ambiguità allo sconosciuto approdo della chiarezza. Le crescenti pressioni militari cinesi stanno però portando Washington a voler scoprire qualche carta in più, al di là dei sondaggi o dei potenziali esiti. Un portavoce della presidente Tsai Ing-wen ha commentato in modo positivo l’impegno “solido come una roccia” di Biden su Taiwan, pur senza entrare nel dettaglio delle ultime dichiarazioni. Anche perché la stessa Taipei si trova spesso a cercare di decifrare le sue uscite, come quando aveva fatto riferimento a un presunto “accordo su Taiwan” al cui rispetto si sarebbe impegnato anche Xi.

Come prevedibile, invece, la Cina non ha reagito bene. Wang Wenbin, portavoce del ministero degli Esteri, ha chiesto agli Stati Uniti di evitare di “mandare segnali sbagliati” e ha ribadito che sulle “questioni interne”, come quella di Taiwan viene considerata dal Partito comunista, “non c’è spazio per concessioni o compromessi”.

Per approfondire: La chiarezza di Biden, rapporti con l’Ue, semiconduttori

Ottobre – Il tour del ministro Wu in Europa

Il fronte si è intanto espanso anche in Europa, dove sta completando il suo lungo tour il ministro degli Esteri Joseph Wu. Non è frequente che un ministro degli Esteri taiwanese si rechi in visita ufficiale in Europa, dove l’unico paese a riconoscere Taipei è Città del Vaticano. A proposito di Vaticano, il Corriere della Sera ha parlato di presunte pressioni cinesi per rompere i rapporti con Taiwan. Pressioni alle quali Bergoglio starebbe resistendo, intanto il governo di Taipei fa sapere che nulla è cambiato nelle relazioni con la Santa Sede.

Tornando alle visite europee del ministro taiwanese, l’ultima volta era accaduto nel 2019, quando Wu era intervenuto durante un summit per la democrazia organizzato a Copenaghen.  Wu è stato in Slovacchia, Repubblica Ceca e Lituania. Tre paesi delle cintura nord-centro-orientale dell’Europa che di recente hanno raffreddato i rapporti con la Repubblica Popolare Cinese, un po’ per disillusione e un po’ per pressione esterna.

In Repubblica Ceca Wu ha incontrato il sindaco della capitale, Zdenek Hrib, e il presidente del Senato, Milos Vystrcil (in compagnia del quale si è fatto ritrarre sorseggiando una birra), che aveva guidato una delegazione ceca a Taiwan l’anno scorso. E ha firmato una serie di accordi di cooperazione bilaterale su sicurezza digitale, industria spaziale e ingegneria di precisione. Durante la tappa in Lituania, i rappresentanti di Taipei hanno regalato al governo locale 10 droni per svolgere operazioni di sicurezza alle frontiere e 400 coperte da distribuire ai rifugiati nel paese baltico. Vilnius ha annunciato l’apertura di un ufficio di rappresentanza a Taipei all’inizio del 2022.

La reazione di Pechino, ça va sans dire, è stata negativa.  Anche perché si prepara la visita di una delegazione di europarlamentari a Taiwan per la prossima settimana. Tra questi ci dovrebbe essere anche Marco Dreosto della Lega, scrive Gabriele Carrer. “Non avere scambi ufficiali in alcuna forma con le autorità di Taiwan è parte essenziale dell’adesione al principio della unica Cina”, dice Pechino. L’ambasciata di Pechino a Parigi ha invece rimproverato i quotidiani francesi e nello specifico Le Figarò chiedendo di non sostenere i “separatisti” dopo un articolo di Sebastian Falletti in cui si accusava la Cina di voler scatenare una “terza guerra mondiale”.

Ma intanto Wu conclude il suo tour direttamente a BruxellesFocus Taiwan, che pubblica in inglese una selezione delle agenzie della Central News Agency taiwanese, scrive a tal proposito che un portavoce dell’Ue, di fronte a una richiesta sull’agenda della visita, ha risposto: “Siamo a conoscenza della visita. Ci possono essere incontri informali a livello non politico. Questo non è qualcosa che possiamo commentare”. Nello stesso articolo, si legge di come Wu abbia invitato l’Ue a muoversi per negoziare un accordo bilaterale sugli investimenti.

E qui arriva una parte interessante. Sì, perché per giorni si è diffusa con insistenza la voce che Wu sarebbe arrivato a Roma per l’incontro organizzato dall’Alleanza Interparlamentare sulla Cina. L’ipotesi è stata sostenuta da Politico e a seguire anche da altri media, taiwanesi compresi. Gli stessi che fino a qualche giorno prima avevano sempre chiarito che Wu si sarebbe collegato solo in videoconferenza con l’evento organizzato nella capitale italiana alla vigilia del G20. Sentite più fonti, l’opzione in realtà non sarebbe mai esistita, tanto che il ministero non avrebbe fatto nessuna comunicazione o richiesta in tal senso, come solitamente fa per prassi in casi simili. Anche Finbarr Bermingham del South China Morning Post si era mostrato sorpreso della possibilità che Wu arrivasse fisicamente a Roma, anche perché tra le altre cose nello stesso giorno era presente nella stessa città il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, il quale prenderà parte al G20 in rappresentanza della Repubblica Popolare con Xi Jinping collegato in modo virtuale. E alla fine, in effetti, Wu ha parlato in videoconferenza (qui il video dell’evento).

Per approfondire: Taiwan Files 30 ottobre 2021 – Ipac a Roma, Wu in Europa, Tsai alla Cnn, Oppo-Tsmc

 

Ottobre – Tsai conferma la presenza di militari Usa a Taiwan

“Non sono così tanti come si pensa”. Tsai Ing-wen è diventata la prima presidente di Taiwan a confermare la presenza militare statunitense sull’isola dal 1979 in un’intervista alla Cnn. Lo fa senza magnificarne il numero, tanto che verrebbe da pensare che si tratti di un implicito messaggio a Pechino per “rassicurare” sulla limitata quantità di una presenza che ormai era già stata confermata da tutti, Stati Uniti compresi. Ma le sue parole aggiunte alle recenti dichiarazioni di Joe Biden sull’impegno alla difesa dell’isola rende più chiara la tradizionale “ambiguità strategica” che sembra almeno in parte superata dai fatti. Tsai ha dichiarato che in caso di attacco Taiwan si difenderebbe “il più a lungo possibile”, ma si è anche detta “fiduciosa” sull’aiuto di Stati Uniti, coi quali esiste “una vasta gamma di cooperazioni” che aumenta le capacità di difesa. E ha anche ribadito l’apertura al dialogo con Xi Jinping, invitandolo a “farsi un’idea migliore della situazione a Taiwan. E, ovviamente, noi faremmo di più per capire la situazione in Cina”. Difficile che ciò accada, vista la discrepanza delle rispettive precondizioni.

Il portavoce dell’Ufficio per gli affari di Taiwan di Pechino ha garantito “tolleranza zero” con gli “indipendentisti”, mentre il ministero della Difesa ha avvertito Washington che “contrattaccherà” di fronte ai legami militari americani con Taipei, definendo la “riunificazione” un “compito storico”. Il Global Times ha avvertito che Tsai pagherà le conseguenze per aver “oltrepassato una linea rossa”Cgtn, intanto, ricorda la guerra civile.

L’episodio è comunque significativo per la dinamica di rapporti che si è creata tra Taipei e Washington. Le pressioni militari cinesi da una parte e le manovre sempre più evidenti degli Stati Uniti dall’altra, sommate alla vicenda afgana (ne avevo scritto qui ad agosto), stanno rendendo la tradizionale “ambiguità strategica” un po’ scomoda. Anche perché tra ban di export tecnologici e appoggi espliciti, le leve diplomatiche non ufficiali a disposizione di Taipei nei confronti di Pechino stanno diminuendo. E dunque è necessaria un’ambiguità un po’ meno ambigua, che come abbiamo raccontato la scorsa settimana anche Biden sembra disponibile a fornire.

Per approfondire: Taiwan Files 30 ottobre 2021 – Ipac a Roma, Wu in Europa, Tsai alla Cnn, Oppo-Tsmc

Novembre – Sanzioni e blacklist, Michelle Wu sindaca di Boston

“Questo è molto più pericoloso degli aerei”. Opinione che nelle ultime ore non è raro ascoltare a Taipei, dopo che il governo di Pechino ha stilato una lista nera di alti funzionari taiwanesi considerati degli “irriducibili secessionisti”. Comminando delle sanzioni, che coinvolgono il ministro degli Esteri Joseph Wu (appena tornato dal tour europeo che lo ha portato anche a Bruxelles), il primo ministro Su Tseng-chang e il presidente dello yuan legislativo You Si-kun. Ai tre, e a tutti i componenti della blacklist, sarà proibito l’accesso al territorio cinese, anche attraverso le regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao. E saranno ritenuti penalmente responsabili a vita per aver “incitato allo scontro nello Stretto, cercando l’indipendenza con parole, azioni e collegamenti con forze esterne per dividere la Cina”. La misura, di cui si parlava da tempo, è stata annunciata dalla portavoce dell’Ufficio per gli Affari di Taiwan Zhu Fenglian, che ha concluso dicendo che “coloro che dimenticano i loro antenati, tradiscono la patria o dividono il paese saranno disprezzati dal popolo e dalla storia”.

La prima reazione ufficiale è arrivata da You, il quale ha dichiarato che essere bannato dalla Repubblica Popolare Cinese è da lui ritenuto “un onore”. Prevedibile che la mossa di Pechino inasprirà ulteriormente gli animi a livello politico ma, come detto, possa avere un effetto maggiore sull’opinione pubblica taiwanese rispetto alle “solite” manovre militari o incursioni aeree. Come raccontato più volte, le pressioni militari non generano particolare preoccupazione sui taiwanesi. Ma la dotazione di un “arsenale” legale e normativo a disposizione del governo di Pechino spaventa maggiormente i tantissimi che vivono e lavorano nella Repubblica Popolare o che hanno lì famiglia e amici. Il rischio percepito di finire nella lista nera se si viene percepiti come “filo indipendentisti” o “filo secessionisti” è più alto rispetto a scenari di invasione militare ai quali la maggioranza dei taiwanesi continua a non ritenere credibili, quantomeno nel breve periodo.

Intanto, la cittadina americana di origini taiwanesi Michelle Wu è stata eletta sindaca di Boston. Si tratta della prima donna ad assumere tale carica nella città degli Stati Uniti, nonché della prima sindaca americana di origine asiatica. Wu ha 36 anni ed è figlia di immigrati arrivati da Taiwan. Cresciuta a Chicago, la stessa città di Barack Obama, ha frequentato la scuola di legge di Harvard dove è stata una studentessa dell’ex candidata alle presidenziali dei democratici Elizabeth Warren. Eletta tra le file dei progressisti, già a 28 anni era entrata nel consiglio comunale di Boston, per poi diventarne presidente.

Wu ha conquistato l’elettorato di Boston con proposte forti e popolari, spesso presentate attraverso i social network più “da giovani” come Instagram e TikTok. Tra queste, il lancio di un green new deal. Qui un suo ritratto. La sua elezione è un bel segnale non solo per gli immigrati taiwanesi, ma per tutti gli asiatici, dopo le violenze che hanno colpito la comunità asioamericana dopo la pandemia di Covid-19.

Per approfondire: Taiwan Files 6 novembre 2021 – Sanzioni più forti degli aerei, tour Ue, Michelle Wu

 

Novembre – Che cosa pensa Taiwan

Si parla sempre più spesso della situazione collegata a Taiwan, ma di solito lo si fa esaminando volontà, desideri, movimenti di Repubblica Popolare Cinese e Stati Uniti. Molto meno di quelli della Repubblica di Cina, Taiwan. Una prospettiva invece importante da considerare, soprattutto in un momento nel quale le due potenze stanno intensificando i propri movimenti. Puntata speciale di Taiwan Files, la rassegna settimanale di notizie da Taipei e dintorni a cura di Lorenzo Lamperti.

Come vive la situazione Taiwan?

A Taiwan si è abituati alle tensioni con Pechino. Negli ultimi sette decenni ci sono stati diversi momenti di tensione, sfociati nelle tre cosiddette “crisi sullo Stretto” (l’ultima nel 1995-1996). Ma qualcosa, di recente, sta cambiando. Soprattutto nell’orientamento del governo. Vediamo in che modo.

  • Come vive la popolazione. Per la maggioranza in relativa tranquillità. Secondo dei sondaggi recenti, oltre la metà dei taiwanesi ritiene “improbabile” una guerra con la Repubblica Popolare entro i prossimi dieci anni. Complice il fatto che la prima decade di ottobre presenta due appuntamenti simbolicamente importanti come l’anniversario della fondazione della Repubblica Popolare e la festa nazionale della Repubblica di Cina, il recente record di incursioni nello spazio di identificazione di difesa aerea da parte dei velivoli dell’Esercito popolare di liberazione (156 in quattro giorni) sono state percepite più come una parata militare che una preparazione all’invasione. Gli over 30 ricordano di aver provato paura, allora sì, durante la terza crisi sullo Stretto, ma ora sottolineano soprattutto la componente retorica delle mosse e delle dichiarazioni di Xi. C’è anche, però, chi percepisce una minaccia in un aumento. In questo caso è comune un approccio piuttosto fatalista, complice la disparità di forze militare sottolineata anche recentemente dal report annuale del ministero della Difesa che ha spiegato come l’esercito cinese avrebbe la capacità di “paralizzare” la difesa taiwanese. Allo stesso tempo si spera che gli Stati Uniti e il Giappone possano intervenire in aiuto di Taiwan in caso di invasione.

  • Come vive il governo. A livello governativo la situazione cambia. I messaggi mandati di recente dalla presidente Tsai Ing-wen, ma anche dai ministri di Esteri e Difesa, descrive la minaccia più imminente e concreta che in passato. A livello non ufficiale, un po’ tutti sono convinti che prima del 2023 e del probabile avvio del terzo mandato di Xi Jinping difficilmente possa accadere davvero qualcosa. Anche per questo si stanno aumentando i giri delle comunicazioni. Il timore del governo è infatti che, in caso di minaccia concreta, i taiwanesi non siano pronti né determinati a combattere. Anche per questo motivo sta cambiando l’atteggiamento dei media taiwanesi, che in passato erano sempre stati invitati dal governo a tenere un “basso profilo” sulle manovre militari cinesi per non creare panico ed evitare di far percepire alla popolazione che il governo stesso non fosse in grado di tutelarne la sicurezza. Ora, però, il governo taiwanese intravede una finestra di opportunità (e anche di rischio) nella quale cercare di posizionarsi in modo migliore. Da una parte rafforzando i legami internazionali dopo la pandemia da Covid-19 e l’inasprimento delle tensioni di Usa (e non solo) con Pechino: anche in questo senso si potrebbero spiegare le recenti spinte verso la “chiarezza strategica” nei rapporti con Washington, dopo le dichiarazioni di Joe Biden sull’”impegno” americano all’intervento in difesa di Taipei (in realtà inesistente su carta) e la conferma di Tsai della presenza di militari statunitensi sull’isola. Anche perché, nel frattempo, gli Usa stanno cercando di rimuovere leve diplomatiche importanti a disposizioni di Taipei nei confronti di Pechino, su tutte la catena di approvvigionamento dei semiconduttori. Dall’altra parte cercando di evitare una sottovalutazione continua delle pressioni cinesi da parte della popolazione, rischiando che la stessa risulti impreparata in caso di bisogno. Ma, e questo è un altro tema che affronteremo in altra occasione, in concreto ci sarebbe moltissimo da fare in ambito militare. E non si parla solo di mezzi a disposizione, ma di durata di leva militare (che in una democrazia è difficile aumentare, ha detto di recente un membro del DPP in risposta a una richiesta in tal senso del Guomindang), nonché di coinvolgimento e gestione dei riservisti.

Che cosa vogliono i taiwanesi?

Secondo l’ultimo rilevamento annuale operato dalla National Chengchi University vogliono soprattutto il mantenimento dello status quo: si tratta dell’85,6%. All’interno della preferenza sullo status quo ci sono però diverse sfumature, seguendo le opzioni di risposta che vengono fornite durante questi sondaggi. Andiamole a vedere:

  • Status quo e decidere successivamente: 28,8%. Si tratta della percentuale più elevata, seppure in calo. Secondo questa percentuale di taiwanesi si dovrebbe mantenere la situazione attuale e prendere una decisione su indipendenza o unificazione più avanti, quando le circostanze lo consentiranno. Il dato è calato rispetto al 38,5% del 1994, ma è costantemente rimasto il più alto tutti gli anni delle rilevazioni. Interessante notare le fluttuazioni verso l’alto e verso il basso. Il punto più basso si è toccato nel 1995 (24,8%) in concomitanza della terza crisi sullo Stretto, che sembrava rendere imminente la soluzione delle relazioni in un senso o nell’altro. Il picco più alto (38,7%) è datato 2006. Calo dal 33,4% del 2018 al 29,8% del 2019 in seguito a un anno significativo, con la promessa di Xi Jinping di arrivare alla riunificazione senza escludere l’utilizzo della forza e le vicende di Hong Kong, che hanno spianato la strada alla conferma di Tsai Ing-wen alle elezioni del gennaio 2020

  • Status quo andando verso l’indipendenza: 25,8%. Si tratta del dato cresciuto di più rispetto all’inizio delle rilevazioni, nel 1994, quando a rispondere in questo modo era l’8%. Questa risposta significa che si preferisce il mantenimento dello status quo in questo momento ma in futuro ci si immagina una dichiarazione formale di indipendenza. Anche qui è molto interessante notare l’andamento della curva. Crescita costante fino al 1999, per poi calare per un paio d’anni subito dopo l’elezione del primo presidente del DPP. Le percentuali sono sempre rimaste sotto il 20%, fino alla fortissima crescita del 2019 e 2020. ancora una volta si può intuire che una Cina più muscolare ottiene l’effetto opposto di quello desiderato, quantomeno a livello di volontà dei taiwanesi. Dopo il fallimento del modello “un paese due sistemi” a Hong Kong, l’unificazione diventa dunque un’ipotesi sempre meno appetibile per l’opinione pubblica.

  • Status quo a tempo indefinito: 25,5%. Si tratta di quella parte di popolazione che vorrebbe mantenere la situazione attuale se possibile per sempre. Indipendenza de facto, ma senza dichiarazione formale di indipendenza come Repubblica di Taiwan. Tra chi la pensa così prevale la sensazione che le cose siano finora andate bene sostanzialmente per tutti, sia a livello commerciale sia a livello politico, e che non ci sia nemmeno il bisogno di azioni drastiche perché nei fatti Taiwan è già un’entità a sé, seppure come Repubblica di Cina. In questo caso l’andamento è stato ondulato fino al 2008, quando c’è stato un cambio di passo verso l’alto (da 18,4% a 26,2%) in concomitanza con l’elezione di Ma Ying-jeou (Guomindang), che aveva portato a una grande distensione nei rapporti con la Repubblica Popolare, nonché nel 2010 a un accordo commerciale. Altro aumento significativo (da 24 a 27,8%) nel 2019, probabilmente per l’aumentata percezione del rischio dopo il discorso di Xi e i fatti di Hong Kong.

  • Status quo andando verso l’unificazione: 5,6%. Risponde così chi vuole mantenere la situazione attuale per ora, ma in futuro desidera un’unificazione con Pechino. Questa percentuale è quella che ha subito il maggiore calo nei 27 anni di rilevazione. Nel 1994 rispondeva così, infatti, il 15,6 % degli intervistati. Ma, attenzione, ancora una volta il calo è stato significativo soprattutto negli ultimi anni. Come già visto sui dati precedenti, l’oscillazione in questo caso verso il basso si è verificata nel cruciale 2019: dal 12,8% al 7,5%, per poi scendere ulteriormente nel 2020.

  • Indipendenza il più presto possibile: 6,6%. Il dato è cresciuto, seppure non di molto, rispetto al 3,1% del 1994. Il picco più alto (8,7%) si è verificato nel 2008, significativamente l’anno dell’elezione di Ma, per poi seguire un processo piuttosto regolare, senza scossoni nemmeno negli ultimi anni, seppure in costante e leggera crescita.

  • Unificazione il più presto possibile: 1%. Si partiva dal 4,4% del 1994 e poi il fato è sempre rimasto stabile intorno al 2%. Interessanti, ancora una volta, i movimenti degli scorsi anni. Tra il 2017 e il 2018 era cresciuto fino al 3,1%. Piccolo segnale che la presidenza Tsai non stava soddisfacendo tutti (e infatti alle elezioni locali del 2018 il DPP aveva perso praticamente ovunque), per poi riscendere di nuovo nel 2019 all’1,4%.

  • Qualche considerazione veloce. Dalla lettura dei dati emergono chiari alcuni elementi. Innanzitutto che la grande maggioranza dei taiwanesi desidera lo status quo, seppure con diverse sfumature. In secondo luogo, il trend di chi immagina in futuro l’indipendenza formale è in crescita, contrariamente a chi si immagina in futuro una unificazione. All’interno di questo trend che appare continuo, però, si vivono delle oscillazioni significative che denotano un allontanamento da Pechino quando quest’ultima è più aggressiva e un riavvicinamento nei momenti di calma apparente.

Quali sono le posizioni dei due principali partiti politici?

  • DPP. Il Partito democratico progressista di Tsai è storicamente definito come “filo indipendentista” dai media internazionali. In realtà, soprattutto con l’avvento di Tsai, il DPP ha fatto sua la “teoria dei due stati”, formulata inizialmente dall’ex presidente Lee Teng-hui nel 1999. Lee, primo presidente eletto liberamente nel 1996 dopo decenni di partito unico e di legge marziale (conclusasi nel 1987), era membro del Guomindang ma venne espulso nel 2000 accusato di sostenere segretamente il governo di Chen Shui-bian (il primo targato DPP) e l’indipendenza. Secondo Lee, la realtà de facto è che esistano già due stati, la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica di Cina. È la stessa posizione espressa da Tsai nel suo discorso alle celebrazioni del 10/10 e durante la recente intervista alla Cnn. Secondo Tsai, a Taiwan non serve una dichiarazione di indipendenza perché è già indipendente, seppure come Repubblica di Cina e non come Repubblica di Taiwan. E dunque il dialogo con Pechino è possibile e auspicabile, ma a fronte del riconoscimento da parte di Pechino stessa dell’esistenza di due entità distinte. Una linea che viene definita “secessionista” e “separatista” dal Partito comunista cinese, ma che in realtà sulla scena politica taiwanese si può identificare come “centrista”, perché tiene ai lati da una parte chi lega il destino della Repubblica di Cina con quello della Repubblica Popolare all’interno del grande concetto della “unica Cina” e dall’altra chi invece vorrebbe l’indipendenza come Repubblica di Taiwan per marcare una differenza non solo politica ma anche identitaria e culturale. Elementi sui quali in realtà il DPP lavora, ma entro il perimetro della Repubblica di Cina. Si tratta peraltro di una posizione a tutela, come abbiamo visto dai sondaggi, del sentimento maggioritario della popolazione che vuole lo status quo. Ma, allo stesso modo, si tratta di una posizione che una Repubblica Popolare più forte e meno chiamata a nascondere le proprie ambizioni non accetta.

  • Guomindang. Il GMD è il Partito nazionalista cinese. Fondato da Sun Yat-sen, governa la Repubblica di Cina (e dunque la Cina in senso esteso) fino alla guerra civile e al 1949, quando Chiang Kai-shek si rifugia a Taiwan. Per i rapporti intrastretto ha modellato in maniera pragmatica la sua aderenza alla costituzione, che prevede la rivendicazione di tutto il territorio cinese con aggiunta della Mongolia e del golfo del Tonchino, la prima divenuta indipendente e il secondo ceduto al Vietnam dopo l’istituzione della Repubblica Popolare. Di fatto, però, il GMD non sostiene più come faceva fino a qualche decennio fa di voler tornare a governare l’intero territorio cinese. Il pilastro su cui si basa il rapporto con Pechino è il cosiddetto “consenso del 1992”, secondo il quale esiste una “unica Cina” ma senza stabilire quale sia. Può sembrare una questione sottile e un esercizio retorico, e in effetti lo è. Ma gli equilibri sullo Stretto e lo status quo si sono sempre poggiati proprio su questioni sottili ed esercizi retorici. Dopo la batosta elettorale del 2020, il GMD ha tentato un timido processo di taiwanizzazione e di rivisitazione della posizione del consenso del 1992. Processo annunciato ma mai chiarito né realizzato, e comunque concluso poche settimane fa quando è stato nominato presidente del partito l’esperto Eric Chu, che in passato ha incontrato Xi (quando era candidato alle elezioni del 2016) e ha parlato della necessità di riaprire il dialogo intrastretto e di tornare a una posizione intermedia nei rapporti con Stati Uniti e Repubblica Popolare.

Per approfondire: Taiwan Files 13 novembre 2021 – Che cosa pensa Taiwan

 

Novembre – Il summit Biden-Xi Jinping visto da Taiwan

Si sa, le parole sono importanti. A Taiwan ancora di più. Tra i temi dell’incontro virtuale di qualche giorno fa tra Joe Biden e Xi Jinping la situazione sullo Stretto ha occupato una posizione rilevante. A Taipei si sentono al centro delle dinamiche tra le due potenze come mai era accaduto negli scorsi decenni. In passato, durante questi incontri il tema veniva inserito tra i vari dossier sui diritti umani o tra quelli relativi alle mosse di Pechino nella regione dell’Indo-Pacifico. Stavolta, invece, Taiwan ha rappresentato uno dei punti focali del summit. Ancora più del solito, dunque, media e partiti locali hanno pesato con estrema attenzione le scelte semantiche utilizzate nei rispettivi comunicati di Washington e di Pechino.

La portavoce del ministero degli Esteri, Joanne Ou, ha ringraziato Biden per le parole espresse a sostegno di Taipei e ha definito “straordinario” l’impegno profuso dagli Stati Uniti per garantire la stabilità nello Stretto. I media più vicini all’esecutivo si sono concentrati anche su delle dichiarazioni antecedenti all’incontro, in cui Biden aveva spiegato che gli Usa “si ergeranno sempre a difesa dei loro interesse e valori, e di quelli dei loro alleati e partner”. Il Liberty Times ha titolato così: « Xi Jinping incontra Biden e lo chiama “vecchio amico”. La Casa Bianca: “Lui non la pensa così”». All’interno poi si scopre che si tratta di una precisazione dei giorni scorsi della portavoce Jen Psaki ai media americani circa i rapporti tra Biden e il collega cinese, incontratisi più volte in passato.

Allo stesso tempo, durante l’incontro Biden ha sottolineato l’adesione al principio della “unica Cina”, sottolineando però il ruolo del Taiwan Relations Act, che impegna Washington a sostenere le capacità di autodifesa dell’isola. Tanto è bastato ai media cinesi per celebrare il teorico “passo indietro”. In un servizio andato in onda poco dopo il termine dell’incontro, la tv di stato CCTV ha sottolineato il mancato sostegno di Biden all’indipendenza di Taiwan. Lettura utilizzata anche da ambienti e media più critici verso il governo e vicini all’opposizione del Guomindang. In molti, anche sui social, se la sono presa con Biden per la presunta morbidezza durante l’incontro con Xi.

A poche ore di distanza dal colloquio, il presidente degli Stati Uniti ha rilasciato dichiarazioni apparentemente contraddittorie. “Taiwan è indipendente, prende le proprie decisioni”, ha detto ai giornalisti durante un viaggio nel New Hampshire. Per poi fare marcia indietro: “Non incoraggiamo l’indipendenza” e alla Cina “abbiamo chiaramente detto che sosteniamo il Taiwan Relations Act, punto e basta”. Vale a dire il caposaldo della cosiddetta “ambiguità strategica” di Washington nei rapporti con Taipei: sì alle armi e allo status quo, no all’obbligo di intervenire militarmente in caso di attacco di Pechino. Anche i media taiwanesi appaiono disorientati. L’agenzia di stampa Cna definisce le parole di Biden solo l’ultimo suo commento ad aver causato confusione“. Se strategica o no, non è dato per ora saperlo. Tra lui e Blinken sembra che ormai Washington stia adottando una sorta di “alternanza strategica”.

Nelle ore successive al summit sono arrivati anche altri due segnali della ferma volontà di Pechino di non lasciare margini di manovra: prima otto velivoli militari cinesi sono entrati nello spazio di identificazione di difesa aerea taiwanese. Poi è stata pubblicata la risoluzione sulla storia approvata dal plenum del Partito comunista. Nel testo si definisce la riunificazione un “obiettivo storico e un impegno incrollabile”.

Per approfondire: Taiwan Files 20 novembre 2021 – Vecchi amici, alternanze strategiche e un po’ di confusione

Novembre – Relazioni Taiwan-Ue e caso Lituania

La Cina sarà anche più lontana, ma non per questo Taiwan può diventare troppo vicina. Come anticipato da Finbarr Bermingham sul South China Morning Post, la Commissione europea ha rinviato a tempo indeterminato l’annuncio di un nuovo formato strategico di collaborazione con Taipei su affari economici e commerciali. Uno stop arrivato all’ultimo momento, dopo l’inedita accelerata sui rapporti Bruxelles-Taipei delle scorse settimane. Ma ora il piede si è spostato sul freno per la preoccupazione che la relazione con Pechino possa ulteriormente precipitare dopo le sanzioni e il congelamento dell’accordo sugli investimenti.

Sul tema l’Ue appare spaccata. “La Commissione deve spiegare questa nuova posizione che contraddice una storica risoluzione adottata dal Parlamento europeo a ottobre”, mi ha detto per il Manifesto Fabio Massimo Castaldo, eurodeputato del Movimento 5 Stelle e vicepresidente dell’europarlamento. “In quell’occasione si chiedeva non solo di perseguire un partenariato globale rafforzato ma addirittura di iniziare una valutazione di impatto su un possibile accordo di investimento bilaterale. La doverosa cautela non deve essere confusa con un’incertezza geopolitica che l’Ue non può permettersi”, sostiene Castaldo.

“Nel post-pandemia l’Ue vuole ristabilire una relazione con la Cina, quindi sarebbe stato strano se avesse portato avanti azioni spavalde sulla questione Taiwan”, sottolinea invece Francesca Ghiretti, analista del Merics di Berlino. “Questo però non vuol dire che un cambio di posizione nei confronti dell’isola non stia avvenendo”, aggiunge Ghiretti. Esempio in tal senso il recente viaggio del ministro degli esteri taiwanese Joseph Wu in Repubblica Ceca, Slovacchia, Lituania e Bruxelles. Ma anche la visita di una delegazione di europarlamentari a Taipei nei giorni immediatamente successivi. Tra loro c’era il leghista Marco Dreosto, che commenta: “Il Parlamento è l’unico organismo con rappresentanti eletti direttamente dai cittadini europei. La Commissione dovrebbe tenere meglio in considerazione le nostre posizioni. Inoltre, da un punto di vista politico, si tratterebbe di chinare il capo ancora una volta dinanzi alla Cina”. Pur essendo le istituzioni europee più disposte a parlare di e con Taiwan rispetto al passato, secondo Ghiretti non bisogna aspettarsi “grandi formalizzazioni di questo cambio. In altre parole, anche l’accordo bilaterale sugli investimenti è poco probabile che si materializzi perché l’interesse in tal senso sarebbe più politico che economico”. I rapporti commerciali tra Ue e Taiwan non hanno infatti particolari ostacoli, ma l’annuncio di un accordo darebbe benefici d’immagine rilevanti a Taipei in un momento nel quale la tensione con Pechino è particolarmente alta.

Un passo avanti formale è quello della Lituania. Due giorni fa, a Vilnius ha aperto un Ufficio di rappresentanza di Taiwan. È la prima volta che un paese europeo (al di fuori del Vaticano, l’unico con rapporti diplomatici ufficiali con l’isola) consente l’utilizzo della parola “Taiwan”, solitamente sostituita da “Taipei” per non provocare le ire cinesi. “È un atto estremamente oltraggioso, la Lituania pagherà per i suoi errori”, ha minacciato il governo della Repubblica Popolare. Vilnius ha peraltro ospitato nelle scorse settimane il ministro degli Esteri taiwanese Joseph Wu, mentre qualche mese fa ha abbandonato il 17+1, meccanismo che riunisce Pechino coi paesi dell’Europa nord-centro-orientale. Ed è andata avanti a rafforzare i legami con Taipei nonostante gli avvertimenti della Cina.

Per approfondire: Taiwan Files 20 novembre 2021 – Vecchi amici, alternanze strategiche e un po’ di confusione

Novembre – Reportage da Kinmen

Kinmen prospera per 500 anni, Xiamen fiorisce per 500 anni. Questo proverbio locale viene citato all’ingresso della torre di Juguang, costruita nel 1953 per commemorare i caduti della battaglia di Guningtou. Siamo a Kinmen, un’ora di volo da Taipei e poche bracciate di mare dalla Repubblica Popolare Cinese. Qui lo «stretto» non esiste, è un concetto astratto. Dal posto di osservazione di Mashan i chilometri di distanza sono poco più di due. Nulla. Kinmen però è sotto controllo taiwanese. Due isole, una piccola e l’altra piccolissima, sospese nel tempo e nello spazio.

A metà tra monumento di guerra e punto di congiunzione tra Repubblica Popolare Cinese e Taiwan. Kinmen è ciò che resta della Repubblica di Cina, sbaragliata dai comunisti a Pechino e messa ormai tra parentesi per dovere costituzionale a Taipei. Impegnata, quest’ultima, in un percorso di costruzione identitaria e di ampliamento dell’alterità rispetto alla Repubblica Popolare, che dalla sfera politica arriva ora anche a quelle storica e culturale.

AVAMPOSTO MILITARE dei nazionalisti sconfitti nella guerra civile e bersaglio dei bombardamenti di Mao Zedong durante le prime due crisi dello stretto degli anni Cinquanta, da qui Chiang Kai-shek sognava di ripartire alla riconquista della Cina continentale. Ma la speranza che accompagnava lo scrutare al di là di quei pochi chilometri di acqua si è presto tramutata in timore. Ancora oggi, se Pechino operasse un’azione militare per tentare la «riunificazione», l’invasione di Kinmen è uno degli scenari più probabili. Stress test per saggiare le intenzioni altrui, statunitensi e giapponesi in primis, e ipoteticamente fiaccare le resistenze taiwanesi.

A KINMEN, PERÒ, è uno scenario a cui credono in pochi. «Questo è un luogo del tutto sicuro, le tensioni intrastretto qui non ci hanno per niente coinvolto», sostiene un funzionario del governo locale. «È solo politica, a tanti conviene creare il panico», dice invece Fen, guida turistica in attesa che il suo gruppo finisca di visitare l’isolotto di Jiangongyu, una sorta di Mont Saint-Michel raggiungibile via terra solo per qualche ora nel pomeriggio. «Se avessero voluto invaderci lo avrebbero già fatto e ormai, in ogni caso, se davvero lo facessero con due bombe sarebbe già tutto finito», aggiunge. Alle sue spalle un ex fortino militare, uno dei tanti avamposti, tunnel e bunker abbandonati e trasformati in attrazioni per i turisti in arrivo da Taiwan o dalla Repubblica Popolare. Ora restano solo i primi, viste le restrizioni Covid.

Per approfondire e continuare a leggere il reportage da Kinmen: Taiwan Files 27 novembre 2021 – Kinmen, arcipelago sospeso

 

Dicembre: Isole Salomone e caso Far Eastern Group

Che cosa accomuna le Isole Salomone e l’Honduras? Apparentemente nulla. Uno è un arcipelago di circa mille isole nell’oceano Pacifico meridionale, l’altro è un paese che si affaccia sul mar dei Caraibi e che pochi anni fa ha raggiunto il poco invidiabile primato del record mondiale di omicidi. Eppure, qualcosa che li unisce, in particolare in questi ultimi periodi esiste. Vale a dire i rispettivi rapporti con Pechino e Taipei.

Lunedì 6 dicembre è in programma al parlamento di Honiara, la capitale delle Isole Salomone, un voto di fiducia sul governo di Sogavare. In caso di estromissione dal governo dell’attuale primo ministro, potrebbe esserci un nuovo ribaltone diplomatico, con la rottura dei rapporti con la Repubblica Popolare Cinese e il ristabilimento di quelli con la Repubblica di Cina, Taiwan. Richiesta avanzata dalla provincia di Malaita, i cui abitanti hanno cinto d’assedio la capitale per diversi giorni con vaste proteste. In una decina di giorni i manifestanti, in gran parte provenienti dalla vicina isola di Malaita, hanno cercato di assediare la residenza personale del primo ministro Manasseh Sogavare, dando fuoco a un edificio limitrofo. Diversi negozi della capitale sono stati distrutti ed è stato preso d’assalto anche il parlamento. La polizia ha risposto con gas lacrimogeni, arresti e spari. Quello che è certo è che le autorità hanno imposto un coprifuoco a tempo indefinito tra le sette di sera e le sei del mattino. L’Australia ha inviato delle forze di sicurezza, alle quali si sono aggregati anche quelle di alcuni stati dell’Oceania tra cui Isole Figi e Papua Nuova Guinea.

Il caos di queste settimane è stato messo in relazione alla Cina, anche perché i manifestanti hanno colpito anche la Chinatown di Honiara, come già avevano fatto nel 2006 quando si era sparsa la voce di interferenze cinesi sulle elezioni. Da anni le Isole Salomone sono entrate nell’orbita di Pechino. Nel 2017 un progetto di cavi sottomarini è stato interrotto dall’intervento dell’Australia, che si è sobbarcata le spese di un progetto alternativo pur di rallentare l’avanzata cinese nel Pacifico meridionale, sua tradizionale area d’influenza. Ma il rapporto era avviato, e nel 2019 Honiara ha stabilito relazioni diplomatiche ufficiali con Pechino, rompendo quelle con Taipei. Una scelta arrivata in concomitanza delle elezioni del 2019, vinte dal partito di Sogavare, e che è stata imitata poche settimane dopo da un altro paese dell’area, Kiribati. La decisione non è mai stata accettata da Malaita, la provincia più popolosa dell’arcipelago, che intrattiene rapporti privilegiati con gli Stati Uniti, che forniscono aiuti economici diretti all’amministrazione locale. Non è un caso che durante la pandemia Malaita abbia ricevuto mascherine e altri aiuti sanitari da Taiwan, tra le proteste del governo centrale e di Pechino. Sogavare, al potere a più riprese dal 2000, resiste alle richieste di dimissioni e sostiene che dietro la rivolta ci siano “interferenze straniere”. Versione a cui sembra credere anche Pechino. Condannando le violenze e chiedendo la tutela della sicurezza dei cittadini e delle imprese cinesi, il portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian ha detto che “tutti i tentativi di interrompere il normale sviluppo delle relazioni tra Cina e Isole Salomone sono futili”. In realtà il menù della rivolta va ben al di là dell’ingrediente cinese. La tensione atavica tra l’isola della capitale e quella di Malaita deriva da motivazioni etniche, spesso sfociate in scontri armati come negli anni che hanno preceduto una missione di pace australiana che si è protratta tra il 2003 e il 2017. Di base, resta il malcontento di Malaita sulla suddivisione delle risorse economiche da parte del governo centrale. Dal 2020 la provincia spinge per un referendum di indipendenza, respinto dall’esecutivo. A tutto questo si aggiunge il tema geopolitico, che non è causa ma sintomo delle divisioni interne.

Pechino intanto affila l’arsenale normativo per provare a colpire quelli che chiama “secessionisti” taiwanesi. Annunciata la pubblicazione di una versione estesa della blacklist di “indipendentisti” nella quale sono stati inseriti il ministro degli Esteri, il primo ministro e lo speaker dello yuan legislativo.

Come già scritto varie volte su Taiwan Files, questi sviluppi preoccupano i taiwanesi più delle manovre militari. Anche perché possono avere effetti concreti su imprese e privati cittadini taiwanesi. Un primo esempio è arrivato con Far Eastern Group, un’impresa logistica taiwanese operante nella Repubblica Popolare. Il gigante taiwanese è stato sanzionato per una serie di questioni che ufficialmente non hanno a che fare con la provenienza, ma si sottolinea che il conglomerato ha in passato finanziato la campagna elettorale di Su Tseng-chang. Il patron del gruppo, Douglas Hsu, ha dovuto dichiarare la sua contrarietà all’indipendenza taiwanese elogiando lo status quo.

Il messaggio di Pechino indirizzato alle imprese, e potenzialmente ai singoli, è semplice: “Scegliete da che parte stare“.

Per approfondire: Taiwan Files 4 dicembre 2021 – Salomone, Honduras, Abe, Summit for Democracy, Ue, effetti delle sanzioni di Pechino

 

Dicembre: Il Nicaragua rompe i rapporti con Taiwan

La prima volta era stata nel 1985, poco dopo aver esordito alla presidenza del Nicaragua. La seconda volta è arrivata in concomitanza con il summit per la democrazia di Joe Biden. Daniel Ortega l’ha fatto di nuovo: ha rotto le relazioni diplomatiche con la Repubblica di Cina (Taiwan) e le ha avviate con la Repubblica Popolare Cinese. Eppure dal suo ritorno al potere nel 2007 aveva incontrato l’ex presidente taiwanese Ma Ying-jeou e aveva proseguito l’accordo di libero scambio riavviato nel 1990 dalla sua temporanea erede Violeta Barrios Torres de Chamorro. «La Repubblica Popolare Cinese è il solo governo legittimo che rappresenta tutta la Cina e Taiwan è una indiscutibile parte del territorio cinese», dice ora il ministero degli Esteri del Nicaragua, i cui funzionari hanno subito incontrato controparti cinesi a Tianjin.

Per la Cina si tratta di un risultato simbolico, vista l’insofferenza per l’invito di Taiwan al summit di Biden. Eppure non è stata coinvolta Tsai Ing-wen, come sperava Taipei, ma la ministra per il Digitale Audrey Tang. Negli scorsi mesi si era trattato sulla partecipazione della presidente taiwanese, ipotesi alla quale il Global Times aveva risposto invitando l’Esercito popolare di liberazione a sorvolare il territorio dell’isola. Gli Stati Uniti hanno criticato la scelta del Nicaragua, con l’invito alle democrazie di «procedere in senso contrario e approfondire i legami con Taiwan». D’altronde, i rapporti tra Washington e Managua sono compromessi. Dopo le presidenziali del 7 novembre vinte da Ortega con diversi candidati d’opposizione in manette, la Casa Bianca ha imposto il divieto d’ingresso negli Usa a gran parte degli esponenti di governo.

L’Organizzazione degli stati americani ha avviato l’iter per l’espulsione di Managua, che ha annunciato a sua volta la fuoriuscita per le «ripetute ingerenze negli affari interni del Nicaragua» di un’organizzazione definita «ostaggio di Washington». Segnali di insofferenza diffusa in una regione, l’America centrale, dove Taiwan ha perso negli ultimi anni anche El Salvador e Panama, con l’Honduras della neo presidente Xiomara Castro che aveva detto di voler compiere la stessa scelta, salvo poi rallentare. Ma Xiaoguang, portavoce dell’Ufficio di Pechino per gli Affari di Taiwan ha esortato «i pochissimi alleati diplomatici» di Taipei a «schierarsi dal lato giusto della storia il prima possibile», definendo la «completa riunificazione» una «tendenza storica inarrestabile». Il ministero degli Esteri sostiene che si tratti di una «decisione politica senza prerequisiti economici, non una merce di scambio». Tsai ha risposto che «nessuna pressione esterna può scuotere il nostro impegno per la libertà, i diritti umani e la collaborazione con la comunità democratica internazionale». Anche il Guomindang di Eric Chu è intervenuto sulla vicenda, criticando anche Pechino per la “campagna acquisti” diplomatica.

Nonostante si tratti dell’ottavo alleato perso dall’avvento di Tsai nel 2016, a Taiwan c’è anche chi si felicita per la rottura dei rapporti con Managua. Taipei propone infatti da tempo la narrativa dei cosiddetti like-minded partner, vale a dire democrazie con lo stesso approccio aperto politicamente e progressista in materia di diritti civili. Descrizione inappropriata per il Nicaragua, dove dal 2018 le proteste sono state represse nel sangue con centinaia di morti e arresti. Nonostante questo gli investimenti taiwanesi non si erano fermati, seppure un finanziamento da 100 milioni di dollari predisposto nel 2019 non sia mai stato incassato. Non è l’unico dei 14 alleati rimasti a rappresentare motivo di imbarazzo.

Non a caso il Taipei Times preferisce sottolineare il rafforzamento delle relazioni con i partner non ufficiali come Usa e Giappone. A proposito di Giappone, le recenti parole dell’ex primo ministro Abe Shinzo e l’accantonamento della tradizionale timidezza diplomatica di Tokyo sui dossier più delicati riguardanti Pechino stanno creando una tensione particolarmente alta con il tradizionale rivale cinese. Con la possibilità che i rapporti bilaterali entrino in una nuova fase di crisi come quella antecedente all’arrivo dello stesso Abe e di Xi Jinping, che portò a un lungo disgelo che avrebbe dovuto sfociare nella nuova era del 2020, col viaggio programmato di Xi rinviato e poi cancellato a causa del Covid.

A proposito di alleati presenti o passati. Per restare all’America centrale, il Belize ha riaffermato la forza dei rapporti con Taipei. Nel Pacifico meridionale, invece, il primo ministro delle Isole Salomone Manasseh Sogavare, fautore della rottura con Taiwan (che nega il coinvolgimento nelle rivolte partite dalla provincia di Malaita) e del passaggio dalla parte della Repubblica Popolare, ha passato indenne il voto di sfiducia in parlamento (ne ho scritto qui). E attenzione alle Isole Marshall, il cui rapporto con Washington è ai minimi.

Per approfondire: Taiwan Files 12 dicembre 2021 – Nicaragua e like-minded partner, chip e decoupling (molto lontano)

 

Dicembre – Tsai vince sui 4 referendum

Quattro no. L’amministrazione di Tsai Ing-wen esulta per l’esito dei quattro quesiti referendari. In particolare, tira un sospiro di sollievo per la mancata reintroduzione del bando all’importazione di carne di maiale contenente ractopamina, additivo utilizzato dagli allevatori degli Stati Uniti e vietato in Unione europea, Cina e Russia. Quell’additivo è finito al centro di una disputa geopolitica. Nell’agosto 2020, nell’ultima aggressiva fase della permanenza di Donald Trump alla Casa Bianca, Taipei aveva deciso di consentire le importazioni di carne suina dagli Stati Uniti nonostante le perplessità sulle possibili conseguenze sanitarie. Il via libera era stato presentato come una sorta di conditio sine qua non per rafforzare i legami commerciali (e non) con Washington. Tesi ribadita anche durante la campagna referendaria, con Tsai che ha dichiarato che la vittoria dei «sì» avrebbe compromesso l’ingresso nel Cptpp. Il «no» ha vinto con 4,1 milioni di voti, contro i 3,9 milioni di sì. Ma a vincere è stato anche l’astensionismo, visto che si è recato alle urne solo il 41% degli aventi diritti voto. Anche se ci fossero stati più «no» non sarebbe bastato, visto che per far passare un quesito referendario serve almeno il 25% dei voti degli aventi diritto, poco meno di cinque milioni.

Bocciata anche la richiesta di bloccare l’operatività di un sito estrattivo di gas naturale liquefatto nella costa della contea di Taoyuan, che secondo le critiche rischia di compromettere la salute della barriera corallina di Datan. Niente da fare neppure per la proposta di riattivare la centrale nucleare di Lungmen, nell’area di Nuova Taipei. Il quarto quesito proponeva invece la reintroduzione dell’election day, con i futuri referendum calendarizzati insieme alle elezioni locali. Anche qui hanno vinto i «no», come chiedeva il governo, che aveva operato la scissione nel 2019 dopo che nel 2018 era rimasto scottato alle elezioni locali, coincise con una debacle politica che si era riflessa anche sul voto per i referendum.

Tsai ha commentato i risultati sottolineando che il governo «ha a cuore anche le opinioni di chi ha votato a favore dei referendum e cercherà di continuare a comunicare col pubblico sulle sue politiche», aggiungendo che la sicurezza alimentare e quella ambientale non saranno intaccate. Ma la campagna referendaria è stata caratterizzata da una divisione netta con i due partiti principali schierarsi in maniera manifesta l’uno contro l’altro. Postura che ha reso i referendum un vero e proprio test politico. Il Partito democratico progressista ha portato la discussione sul territorio che lo favorisce maggiormente, quello identitario (a tal proposito, su Wired ho scritto di come film e serie tv possano alimentare soft power e costruzione identitaria taiwanesi). Un «no» alla carne suina statunitense significava dunque fare un favore a Pechino. Si è insistito per esempio sul fatto che senza l’import dagli Usa si sarebbe dovuti ricorrere alla carne cinese, anche se in realtà oltre il 90% dei consumi deriva da produttori locali.

Se il risultato rafforza l’amministrazione Tsai, indebolisce ancora il Guomindang. Il principale partito d’opposizione ha da poco aperto un ufficio a Washington per provare a ristabilire il dialogo con gli Usa e rendersi così «potabile» in vista delle elezioni 2024. Ma intanto il neo presidente del partito, Eric Chu, esce sconfitto visto che non è riuscito a prevalere in neppure un quesito. Guadagna invece popolarità il sindaco di Nuova Taipei Hou Yu-ih, che si è schierato contro la posizione del suo partito sul nucleare. In molti, nel Gmd, guardano a lui come una possibile ancora di salvezza per il voto del 2024.

Per approfondire: Taiwan Files 19 dicembre 2021 – Tsai vince sui referendum, la mappa di Tang e la chiarezza giapponese

 

Semiconduttori, la catena montuosa sacra che protegge Taiwan

Una catena montuosa sacra che protegge Taiwan. A Taipei e dintorni la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company viene spesso chiamata così. Ama farlo anche lo stesso Morris Chang, che ha fondato la Tsmc col governo come maggiore azionista. Era il 1987, anno che oltre a sancire la fine della legge marziale del Guomindang ha anche posto i semi della leadership global di Taiwan nel campo dei semiconduttori. Oggi l’isola ha il 65,8% dello share globale di fabbricazione e assemblaggio, con Tsmc che da sola pesa il 55,3%. Il dominio è ancora più esteso dal punto di vista qualitativo. In un’industria nella quale “più piccolo è meglio”, i produttori taiwanesi detengono il 92% della manifattura di chip con meno di dieci nanometri, con il restante 8% in mano alla Corea del Sud.

Non è un mistero che l’industria dei semiconduttori taiwanese sia al centro dei desideri di Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese, che flirtano con un decoupling tecnologico che forse sarà, ma ancora non è. Taipei è tra i principali destinatari delle pressioni di Washington per recidere il cordone tecnologico che la lega all’altra sponda dello Stretto. Nelle scorse settimane, il ministero dell’economia ha annunciato la revisione delle regole per la vendita di componenti o impianti e per il trasferimento di tecnologie sensibili a controparti cinesi. Le aziende dovranno richiedere un’approvazione alle autorità, mentre finora dovevano solo notificarle delle transazioni avvenute.

Nel mirino soprattutto i semiconduttori, dopo che qualche settimana fa ASE Technology Holding, il più grande fornitore di servizi di imballaggio di chip al mondo ha venduto quote di due delle sue filiali cinesi a Wise Road Capital, una società di private equity coinvolta nel salvataggio di Tsinghua Unigroup. Il ministero della giustizia prevede invece di introdurre la necessità di un via libera formale per i viaggi oltre lo stretto dei professionisti taiwanesi che hanno lavorato a progetti con fondi governativi. A spaventare Taipei è la “campagna acquisti” di ingegneri dei chip portata avanti in modo aggressivo da Pechino alla ricerca di talenti.

Dall’altra parte, Taiwan appare sempre più coinvolta nella catena di approvvigionamento “democratica” che Joe Biden sta cercando di assemblare escludendo Pechino. La Tsmc ha annunciato l’apertura del suo primo stabilimento in Giappone, che godrà di un programma di sussidi statali studiato ad hoc spinto dall’ex premier Shinzo Abe, a testimonianza di quanto venga ritenuto cruciale il tema a Tokyo. Nel 2024 entrerà in funzione l’impianto in Arizona, ottenuto da Donald Trump in concomitanza del divieto di esportazione verso Huawei, che nel 2020 era ancora il secondo maggiore cliente di Tsmc. E il gigante di Hsinchu è in trattativa anche con India e Germania per l’apertura di altri due stabilimenti.

Ma la realtà è più complessa di come appare. “Lavoriamo regolarmente a progetti per clienti cinesi”, dice al manifesto un ingegnere di Tsmc che lavora a Hsinchu ma che a breve si trasferirà a Kaohsiung, in uno degli stabilimenti di prossima apertura. “Le tensioni politiche per ora non si sentono sulla parte operativa del nostro lavoro”, prosegue. Negli ultimi mesi, Tsmc ha fornito alla cinese Oppo le tecnologie per lo sviluppo di chip a 3 nanometri, più avanzati rispetto a quelli a 5 nanometri che verranno sviluppati in Arizona. Anche la SiEngine Technology, azienda di Wuhan specializzata nel design di chip dedicati all’automotive, utilizzerà prodotti targati Tsmc. Da una parte Tsmc produce chip utilizzati dagli Stati Uniti in ambito militare, a partire dagli F-35, dall’altra i rapporti delle aziende taiwanesi con Pechino appaiono ancora stretti. Dei 300 miliardi di dollari di importazioni cinesi nel settore, la maggior parte hanno come mittente Taipei.

“Al di là delle dichiarazioni ufficiali, Taiwan non conviene portare all’esterno intelligence troppo avanzata, né aiutare la diversificazione di una catena di approvvigionamento nella quale ora tutti sono dipendenti da lei”, spiega il dirigente di un’altra azienda operante sull’isola nel settore dei chip. E non solo per un discorso commerciale, nonostante il settore è arrivato a pesare oltre il 30% del pil taiwanese nel 2020, ma anche a livello diplomatico. In assenza di dialogo tra governi, i colossi tech fungono da ambasciatori diplomatici, come accaduto nell’acquisto da parte di Tsmc e Foxconn (entrambe operative nella Repubblica Popolare con grandi stabilimenti) di dieci milioni di sieri Pfizer dalla cinese Fosun Pharma all’alba della campagna vaccinale taiwanese.

Per approfondire: L’ambita montagna di chip che protegge Taiwan

 

Ultime notizie del 2021

Taiwan, Stati Uniti e Giappone appaiono sempre più allineati in materia di movimenti militari. Taipei sarà invitata alle manovre militati statunitensi nel Pacifico. Pechino ha risposto minacciando “misure drastiche” per la “riunificazione”.

Tra Taipei e Corea del Sud ci sono invece frizioni dopo che Seul ha cancellato un invito alla ministra del Digitale Audrey Tang.

Negli Stati Uniti un lobbysta vicino al team di Biden si muovono per promuovere il vaccino taiwanese Medigen.

Il Nicaragua ha espropriato gli immobili dell’ex ambasciata di Taipei e li ha consegnati a Pechino.

Il Guomindang ha sollecitato le dimissioni del ministro degli Esteri di Taiwan Joseph Wu,  per aver permesso la perdita di sei alleati diplomatici dall’inizio del suo mandato nel 2018.

Riprende l’accordo di cooperazione militare tra Taiwan e Singapore.

Inchiesta della Reuters sullo spionaggio della Repubblica Popolare Cinese a Taiwan.

Da seguire gli sviluppi sul caso della Lituania. Vilnius ha partecipato per la prima volta al popolare Taipei Food Show, coi suoi prodotti che hanno ricevuto grande attenzione dai taiwanesi, che vedono nel piccolo paese baltico un simbolo interessante dei possibili futuri rapporti tra WEuropa e Cina. Antony Blinken ha garantito supporto alla Lituania, anche se in Europa si registrano movimenti contrastanti in arrivo dalle imprese tedesche.

Di Lorenzo Lamperti

Qui per recuperare tutte le puntate del 2021 di Taiwan Files