Taiwan Files – Sanzioni più “forti” degli aerei, tour Ue, Michelle Wu

In Asia Orientale, Taiwan Files by Lorenzo Lamperti

Le ultime notizia da Taipei (e dintorni). Si parte dalle sanzioni di Pechino agli “ultra secessionisti”, che ai taiwanesi mandano un messaggio molto più forte delle recenti manovre militari. Poi il tour della delegazione europea a Taipei, l’incontro Blinken-Wang al G20 e tanto altro. A cura di Lorenzo Lamperti

“Questo è molto più pericoloso degli aerei”. Opinione che nelle ultime ore non è raro ascoltare a Taipei, dopo che il governo di Pechino ha stilato una lista nera di alti funzionari taiwanesi considerati degli “irriducibili secessionisti”. Comminando delle sanzioni, che coinvolgono il ministro degli Esteri Joseph Wu (appena tornato dal tour europeo che lo ha portato anche a Bruxelles), il primo ministro Su Tseng-chang e il presidente dello yuan legislativo You Si-kun. Ai tre, e a tutti i componenti della blacklist, sarà proibito l’accesso al territorio cinese, anche attraverso le regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao. E saranno ritenuti penalmente responsabili a vita per aver “incitato allo scontro nello Stretto, cercando l’indipendenza con parole, azioni e collegamenti con forze esterne per dividere la Cina”. La misura, di cui si parlava da tempo, è stata annunciata dalla portavoce dell’Ufficio per gli Affari di Taiwan Zhu Fenglian, che ha concluso dicendo che “coloro che dimenticano i loro antenati, tradiscono la patria o dividono il paese saranno disprezzati dal popolo e dalla storia”.

La prima reazione ufficiale è arrivata da You, il quale ha dichiarato che essere bannato dalla Repubblica Popolare Cinese è da lui ritenuto “un onore”. Prevedibile che la mossa di Pechino inasprirà ulteriormente gli animi a livello politico ma, come detto, possa avere un effetto maggiore sull’opinione pubblica taiwanese rispetto alle “solite” manovre militari o incursioni aeree. Come raccontato più volte, le pressioni militari non generano particolare preoccupazione sui taiwanesi. Ma la dotazione di un “arsenale” legale e normativo a disposizione del governo di Pechino spaventa maggiormente i tantissimi che vivono e lavorano nella Repubblica Popolare o che hanno lì famiglia e amici. Il rischio percepito di finire nella lista nera se si viene percepiti come “filo indipendentisti” o “filo secessionisti” è più alto rispetto a scenari di invasione militare ai quali la maggioranza dei taiwanesi continua a non ritenere credibili, quantomeno nel breve periodo.

Per approfondire, domenica 31 ottobre è uscita un’edizione free della newsletter di approfondimento di China Files nella quale ho provato a spiegare che cosa pensa Taiwan. Si può leggere a questo link, qui sotto un piccolo estratto.

 

Che cosa vogliono i taiwanesi?

Secondo l’ultimo rilevamento annuale operato dalla National Chengchi University vogliono soprattutto il mantenimento dello status quo: si tratta dell’85,6%. All’interno della preferenza sullo status quo ci sono però diverse sfumature, seguendo le opzioni di risposta che vengono fornite durante questi sondaggi. Andiamole a vedere:

• Status quo e decidere successivamente: 28,8%. Si tratta della percentuale più elevata, seppure in calo. Secondo questa percentuale di taiwanesi si dovrebbe mantenere la situazione attuale e prendere una decisione su indipendenza o unificazione più avanti, quando le circostanze lo consentiranno. Il dato è calato rispetto al 38,5% del 1994, ma è costantemente rimasto il più alto tutti gli anni delle rilevazioni. Interessante notare le fluttuazioni verso l’alto e verso il basso. Il punto più basso si è toccato nel 1995 (24,8%) in concomitanza della terza crisi sullo Stretto, che sembrava rendere imminente la soluzione delle relazioni in un senso o nell’altro. Il picco più alto (38,7%) è datato 2006. Calo dal 33,4% del 2018 al 29,8% del 2019 in seguito a un anno significativo, con la promessa di Xi Jinping di arrivare alla riunificazione senza escludere l’utilizzo della forza e le vicende di Hong Kong, che hanno spianato la strada alla conferma di Tsai Ing-wen alle elezioni del gennaio 2020

• Status quo andando verso l’indipendenza: 25,8%. Si tratta del dato cresciuto di più rispetto all’inizio delle rilevazioni, nel 1994, quando a rispondere in questo modo era l’8%. Questa risposta significa che si preferisce il mantenimento dello status quo in questo momento ma in futuro ci si immagina una dichiarazione formale di indipendenza. Anche qui è molto interessante notare l’andamento della curva. Crescita costante fino al 1999, per poi calare per un paio d’anni subito dopo l’elezione del primo presidente del DPP. Le percentuali sono sempre rimaste sotto il 20%, fino alla fortissima crescita del 2019 e 2020. ancora una volta si può intuire che una Cina più muscolare ottiene l’effetto opposto di quello desiderato, quantomeno a livello di volontà dei taiwanesi. Dopo il fallimento del modello “un paese due sistemi” a Hong Kong, l’unificazione diventa dunque un’ipotesi sempre meno appetibile per l’opinione pubblica.

• Status quo a tempo indefinito: 25,5%. Si tratta di quella parte di popolazione che vorrebbe mantenere la situazione attuale se possibile per sempre. Indipendenza de facto, ma senza dichiarazione formale di indipendenza come Repubblica di Taiwan. Tra chi la pensa così prevale la sensazione che le cose siano finora andate bene sostanzialmente per tutti, sia a livello commerciale sia a livello politico, e che non ci sia nemmeno il bisogno di azioni drastiche perché nei fatti Taiwan è già un’entità a sé, seppure come Repubblica di Cina. In questo caso l’andamento è stato ondulato fino al 2008, quando c’è stato un cambio di passo verso l’alto (da 18,4% a 26,2%) in concomitanza con l’elezione di Ma Ying-jeou (Guomindang), che aveva portato a una grande distensione nei rapporti con la Repubblica Popolare, nonché nel 2010 a un accordo commerciale. Altro aumento significativo (da 24 a 27,8%) nel 2019, probabilmente per l’aumentata percezione del rischio dopo il discorso di Xi e i fatti di Hong Kong.

• Status quo andando verso l’unificazione: 5,6%. Risponde così chi vuole mantenere la situazione attuale per ora, ma in futuro desidera un’unificazione con Pechino. Questa percentuale è quella che ha subito il maggiore calo nei 27 anni di rilevazione. Nel 1994 rispondeva così, infatti, il 15,6 % degli intervistati. Ma, attenzione, ancora una volta il calo è stato significativo soprattutto negli ultimi anni. Come già visto sui dati precedenti, l’oscillazione in questo caso verso il basso si è verificata nel cruciale 2019: dal 12,8% al 7,5%, per poi scendere ulteriormente nel 2020.

•      Indipendenza il più presto possibile: 6,6%. Il dato è cresciuto, seppure non di molto, rispetto al 3,1% del 1994. Il picco più alto (8,7%) si è verificato nel 2008, significativamente l’anno dell’elezione di Ma, per poi seguire un processo piuttosto regolare, senza scossoni nemmeno negli ultimi anni, seppure in costante e leggera crescita.

• Unificazione il più presto possibile: 1%. Si partiva dal 4,4% del 1994 e poi il fato è sempre rimasto stabile intorno al 2%. Interessanti, ancora una volta, i movimenti degli scorsi anni. Tra il 2017 e il 2018 era cresciuto fino al 3,1%. Piccolo segnale che la presidenza Tsai non stava soddisfacendo tutti (e infatti alle elezioni locali del 2018 il DPP aveva perso praticamente ovunque), per poi riscendere di nuovo nel 2019 all’1,4%.

• Qualche considerazione veloce. Dalla lettura dei dati emergono chiari alcuni elementi. Innanzitutto che la grande maggioranza dei taiwanesi desidera lo status quo, seppure con diverse sfumature. In secondo luogo, il trend di chi immagina in futuro l’indipendenza formale è in crescita, contrariamente a chi si immagina in futuro una unificazione. All’interno di questo trend che appare continuo, però, si vivono delle oscillazioni significative che denotano un allontanamento da Pechino quando quest’ultima è più aggressiva e un riavvicinamento nei momenti di calma apparente.

 

Il piano sui riservisti, i quaranta marines e il “dibattito” sullo stress test sulle isole Dongsha

Nel frattempo, sempre molto attivo il ministero della Difesa di Taipei. Negli scorsi giorni è stato annunciato un piano per incrementare l’addestramento dei riservisti a partire dal 2022, con il raddoppio dei training di combattimento e tiro, con l’addestramento di aggiornamento obbligatorio che passerà da 5-7 giorni a 14. Il programma sarà dedicato a 15 mila persone, ma per ora non sono state prese decisioni sulla possibilità di ampliare il numero dei riservisti.

La presenza di militari statunitensi a Taiwan è un “open secret” da decenni, scrive il South China Morning Post. Dopo la conferma ufficiale di Tsai Ing-wen nell’intervista alla Cnn, che ha interrotto il silenzio su un elemento su cui tutti gli attori avevano volutamente taciuto finora, il ministro della Difesa ha dato qualche elemento in più, stimando nell’ordine della “quarantina” le unità del contingente. Confermate delle esercitazioni congiunte a Guam.

Chiu Kuo-cheng ha scritto un articolo per il Wall Street Journal nel quale sostiene che Taiwan “non capitolerà” di fronte a Pechino. Mentre da Washington arrivano proposte per supportare l’acquisto di armamenti da parte di Taipei e soprattutto per superare definitivamente l’ambiguità strategica.

Intanto, l’invito delle autorità cinesi ad acquistare beni di prima necessità ha subito scatenato le voci su una possibile guerra imminente, mentre sui social sono apparsi immagini di mezzi militari sulle strade del Fujian, la provincia meridionale della Repubblica Popolare che si trova di fronte a Taiwan. Indiscrezioni smentite dalle stesse autorità cinesi.

Lo scenario di uno “stress test” su un’isola minore amministrata da Taipei, ipotesi di cui ho parlato più volte su Taiwan Files, sarebbe stata dibattuta in maniera concreta dalle autorità cinesi. Lo ha dichiarato pubblicamente il direttore generale dell’Ufficio di sicurezza nazionale di Taipei, Chen Ming-tong, senza fornire particolari dettagli. La discussione avrebbe riguardato le isole Dongsha, arcipelago del mar cinese meridionale a circa 340 chilometri di distanza da Hong Kong.

 

Michelle Wu sindaca di Boston

La cittadina americana di origini taiwanesi Michelle Wu è stata eletta sindaca di Boston. Si tratta della prima donna ad assumere tale carica nella città degli Stati Uniti, nonché della prima sindaca americana di origine asiatica. Wu ha 36 anni ed è figlia di immigrati arrivati da Taiwan. Cresciuta a Chicago, la stessa città di Barack Obama, ha frequentato la scuola di legge di Harvard dove è stata una studentessa dell’ex candidata alle presidenziali dei democratici Elizabeth Warren. Eletta tra le file dei progressisti, già a 28 anni era entrata nel consiglio comunale di Boston, per poi diventarne presidente.

Wu ha conquistato l’elettorato di Boston con proposte forti e popolari, spesso presentate attraverso i social network più “da giovani” come Instagram e TikTok. Tra queste, il lancio di un green new deal. Qui un suo ritratto. La sua elezione è un bel segnale non solo per gli immigrati taiwanesi, ma per tutti gli asiatici, dopo le violenze che hanno colpito la comunità asioamericana dopo la pandemia di Covid-19.

G20: incontro Blinken-Wang

Dopo l’evento dell’Alleanza Interparlamentare sulla Cina, di cui avevamo parlato la scorsa settimana, a Roma si è svolto il G20. Appuntamento durante il quale è andato in scena un colloquio, durato circa un’ora, tra il segretario di Stato degli Stati Uniti Antony Blinken e il ministro degli Esteri Wang Yi. Occasione nella quale è emerso nuovamente con forza che c’è uno scoglio che sembra inaggirabile: Taiwan, definita dallo stesso Wang la questione “più delicata tra Cina e Usa”. Per il ministro cinese gli Stati Uniti sono responsabili di “interferenze sconsiderate negli affari interni cinesi”, come viene considerata dal Partito comunista la sorte di Taipei. Wang ha esortato Blinken a rendersi conto “del grave danno della possibile indipendenza di Taiwan” e ha chiesto agli Usa di “onorare i propri impegni nei confronti della Cina, non il loro tradimento”. Per Pechino “il vero status quo su Taiwan è che esiste una sola Cina”. Una risposta ai recenti scricchiolii della cosiddetta “ambiguità strategica” della Casa Bianca su Taipei, con la conferma della presenza di militari americani sull’isola. Pechino considera la “riunificazione” un obiettivo storico e non negoziabile.

Non a caso, contestualmente al summit di Roma otto aerei da combattimento dell’esercito popolare di liberazione hanno compiuto una nuova incursione nello spazio di identificazione di difesa di Taiwan. Nel mese di ottobre sono stati in tutto 200.

La delegazione europea a Taiwan

Ma è stata soprattutto la settimana della visita delle delegazione del parlamento europeo a Taiwan. Mercoledì 3 novembre è atterrato all’aeroporto di Taoyuan, Taiwan, un volo con a bordo una delegazione di europarlamentari. Una mossa inedita, soprattutto perché coinvolge in maniera unitaria un gruppo di deputati del Parlamento Ue di diversi stati membri. Se era già capitato in passato che si realizzassero delle visite di politici europei, si tratta di una mossa inedita a livello unitario. 

La delegazione è stata guidata da Raphael Glucksmann, eurodeputato francese di S&D, forte critico della Cina, che era stato tra i cinque parlamentari sanzionati da Pechino a marzo. Un episodio, quello delle controsanzioni a eurodeputati e think tank europei come il Merics di Berlino, che avevano peraltro portato al congelamento a tempo indefinito del CAI, l’accordo bilaterale sugli investimenti che era stato firmato a fine dicembre 2020 su grande spinta di Angela Merkel, prima che Joe Biden si insediasse alla Casa Bianca.

Non è dunque un caso che ci sia proprio lui alla guida della delegazione, in un messaggio inviato a Pechino. “Più la Cina è aggressiva e più l’Ue si allontana”, sembra essere la comunicazione implicita rivolta al governo cinese.

Tra i sette eurodeputati ce n’è anche uno italiano. Si tratta di Marco Dreosto della Lega, che lavora sull’interferenza straniera nei processi democratici dell’Ue. L’ho intervistato. Tra disinformazione, interferenze straniere e semiconduttori mi ha dato anche alcune risposte su geopolitica e Italia. Le riporto qui sotto.

Alcuni suoi colleghi hanno anche chiesto un riconoscimento di Taiwan. Secondo lei è un passo che avverrà o che dovrebbe avvenire?

Mi sembra un aspetto prematuro. Noi siamo qui per capire la loro esperienza e per dare un segnale a tutela della loro vita democratica. Ho parlato con diverse persone e alcuni sono preoccupati che possa cambiare qualcosa e che le attuali tensioni possano trasformarsi in qualcosa di più pericoloso. Il nostro primo interesse è garantire il mantenimento dello status quo. Poi noi comunque siamo una commissione con dei compiti ben precisi, gli aspetti geopolitici li lasciamo decidere a qualcun altro.

In Italia è cambiato qualcosa nei rapporti con Pechino e Taipei col governo Draghi?

Anche qui mi sembra che ci si sia resi conti che esiste un problema. Il governo Draghi ha dato un forte impulso al nostro tradizionale posizionamento atlantista filoamericano. L’Italia ha assunto una posizione molto chiara e anche chi è nel Movimento Cinque Stelle ha capito che la musica è un po’ diversa ora e che ci sono problematiche legate ai nostri asset strategici, che bisogna a tutti i costi tutelare. Taiwan è un dossier che stiamo seguendo con attenzione, noi come Lega da tanto tempo: ricordo che nel 2019 l’ultima delegazione italiana venuta qui è stata tutta della Lega con la guida di Gian Marco Centinaio. Ora anche le altre forze politiche si sono accorte che la vicenda taiwanese è importante ed è uno specchietto di qualcosa che può diventare più grande.

Nel 2019 però c’era anche la Lega al governo quando è stata firmata l’adesione alla Belt and Road. Si trattò di un errore?

Si trattò di una decisione che teneva conto di alcuni fattori contingenti ed era una sorta di pre accordo non definitivo. Era stata fatta una valutazione sul fatto che un accordo di quel tipo avrebbe potuto portare vantaggi commerciali sia all’Italia sia alla Cina, ma poi è stato corretto fermarsi e valutare con attenzione tutti i dossier. Faccio l’esempio del porto di Trieste, che Pechino aveva messo nel mirino e noi alla fine abbiamo invece fatto un accordo con Amburgo, fondamentale per aprirci all’est Europa. E’ una lezione che non abbiamo bisogno della Cina per ottenere risultati importanti. 

La visita della delegazione europea si è conclusa con l’affermazione di Glucksmann, secondo cui questo viaggio “è stato solo il primo passo” e “ne seguiranno altri”, lasciando intendere la possibilità che venga approfondita l’ipotesi di un accordo bilaterale sugli investimenti, che il documento di recente approvato in plenaria al parlamento europeo chiede di prendere in considerazione.

 

La riforma costituzionale di Taiwan

Interessante approfondimento di SupChina sul dibattito della politica taiwanese circa la possibile riforma costituzionale della Repubblica di Cina. Tutto nasce dalla richiesta di 17 tra deputati ed ex deputati del Partito democratico progressista di emendare la carta. Tra le riforme richieste l’abbassamento dell’età necessaria per votare, l’abolizione di alcuni organi statali, l’istituzione di un comitato indipendente sui diritti umani e, soprattutto, la facilitazioni di future modifiche costituzionali. Una storica richiesta del movimento indipendentista taiwanese sin dall’abolizione della legge marziale. Al momento, per emendare la costituzione ci vogliono almeno i tre quarti dei voti dello yuan legislativo con un referendum confermativo. Ciò significa che il Dpp avrebbe bisogno di un numero significativo di voti dal Guomindang per far passare delle proposte di riforma costituzionale.

Lotta alla criminalità informatica

Taiwan si propone per cooperare a livello globale sulla lotta alla criminalità informatica. Huang Chia-lu, commissario del Criminal Investigation Bureau di Taipei, ha rilasciato una nota nella quale racconta il modo in cui le autorità taiwanesi possono dare una mano sul tema. Qui una delle vicende citate nel documento: “Nel 2020, la polizia di Taiwan ha utilizzato l’analisi dei big data per identificare numerosi cittadini taiwanesi sospettati di aver stabilito operazioni di frode telefonica in Montenegro. Taiwan ha contattato il Montenegro e ha proposto assistenza legale reciproca, consentendo all’ufficio del procuratore di Stato speciale montenegrino di portare avanti il ​​caso. Attraverso sforzi congiunti, Taiwan e le forze di polizia montenegrine hanno scoperto tre operazioni di frode telefonica e arrestato 92 sospetti accusati di impersonare funzionari del governo cinese, polizia e pubblici ministeri. Si ritiene che i sospetti abbiano truffato più di 2.000 persone in Cina, causando perdite finanziarie fino a 22,6 milioni di dollari. Questo caso evidenzia le caratteristiche della criminalità transnazionale. I sospetti erano cittadini di Taiwan, mentre le vittime erano cittadini cinesi. Il presunto reato è avvenuto in Montenegro ed è stato perpetrato con tecnologie di telecomunicazione. Grazie alla cooperazione bilaterale di polizia, i sospetti sono stati arrestati, impedendo ad altre persone innocenti di cadere vittime della truffa”.

 

Notizie in pillole: innovazione, business, elezioni in Honduras, sfida culturale

Il valore della produzione di semiconduttori di Taiwan raggiungerà 4,5 trilioni di dollari taiwanesi (161,4 miliardi di dollari) il prossimo anno e 5 trilioni di dollari taiwanesi nel 2025.

Le imprese tech taiwanesi guardano all’espansione verso l’Asia, in particolare nei settori di 5G e veicoli elettrici. Un esempio arriva dall’accordo tra Gogoro e il gigante indonesiano Gojek per la produzione di scooter elettrici.

Ma il boom del settore tech nasconde una realtà molto più complicata per ampie altre categorie di lavoratori taiwanesi, scrive il Nikkei.

Google ha donato 1 milione di dollari al Taiwan FactCheck Center (TFC) per contribuire a finanziare le iniziative di alfabetizzazione mediatica del centro. Il milione di dollari sarà erogato nei prossimi tre anni nell’ambito delle iniziative di Google Intelligent Taiwan per aiutare a combattere gli effetti della disinformazione.

Taipei seguirà con attenzione le imminenti elezioni presidenziali in Honduras (uno dei 15 alleati diplomatici ufficiali rimasti), dove una delle candidate ha dichiarato che in caso di vittoria avvierà le relazioni diplomatiche con Pechino.

Una delle più grandi piattaforme di streaming video della Repubblica Popolare, iQIYI, cesserà intanto la cooperazione con il suo agente sull’isola di Taiwan, OTT Environment.

Interessante approfondimento dell’Hollywood Reporter sul tentativo dell’industria cinematografica e dell’intrattenimento taiwanese di diventare il polo di riferimento per le produzioni in lingua cinese dopo le contestuali strette in corso a Pechino e a Hong Kong.

Di Lorenzo Lamperti

Le puntate precedenti di Taiwan Files

Ipac a Roma, Wu in Ue, Tsai alla Cnn, Tsmc-Oppo

La chiarezza di Biden, rapporti con l’Ue, semiconduttori

Incendio a Kaohsiung, 10/10, strategia militare (e non), Harvard

Aerei, marines, feste nazionali e incroci diplomatici

Eric Chu, movimenti militari, rapporti con l’Ue e chip

Elezioni Guomindang, CPTPP, francesi a Taipei

Moon Festival, wargames, Pacifico, chip e spazio

Super tifoni, venti militari, brezze elettorali e aliti di storia

Sicurezza, budget militare, Europa, M5s e fantasmi