Taiwan Files – Che cosa pensa Taiwan

In Asia Orientale, Taiwan Files by Lorenzo Lamperti

Si parla sempre più spesso della situazione collegata a Taiwan, ma di solito lo si fa esaminando volontà, desideri, movimenti di Repubblica Popolare Cinese e Stati Uniti. Molto meno di quelli della Repubblica di Cina, Taiwan. Una prospettiva invece importante da considerare, soprattutto in un momento nel quale le due potenze stanno intensificando i propri movimenti. Puntata speciale di Taiwan Files, la rassegna settimanale di notizie da Taipei e dintorni a cura di Lorenzo Lamperti.

Come vive la situazione Taiwan?

A Taiwan si è abituati alle tensioni con Pechino. Negli ultimi sette decenni ci sono stati diversi momenti di tensione, sfociati nelle tre cosiddette “crisi sullo Stretto” (l’ultima nel 1995-1996). Ma qualcosa, di recente, sta cambiando. Soprattutto nell’orientamento del governo. Vediamo in che modo.

  • Come vive la popolazione. Per la maggioranza in relativa tranquillità. Secondo dei sondaggi recenti, oltre la metà dei taiwanesi ritiene “improbabile” una guerra con la Repubblica Popolare entro i prossimi dieci anni. Complice il fatto che la prima decade di ottobre presenta due appuntamenti simbolicamente importanti come l’anniversario della fondazione della Repubblica Popolare e la festa nazionale della Repubblica di Cina, il recente record di incursioni nello spazio di identificazione di difesa aerea da parte dei velivoli dell’Esercito popolare di liberazione (156 in quattro giorni) sono state percepite più come una parata militare che una preparazione all’invasione. Gli over 30 ricordano di aver provato paura, allora sì, durante la terza crisi sullo Stretto, ma ora sottolineano soprattutto la componente retorica delle mosse e delle dichiarazioni di Xi. C’è anche, però, chi percepisce una minaccia in un aumento. In questo caso è comune un approccio piuttosto fatalista, complice la disparità di forze militare sottolineata anche recentemente dal report annuale del ministero della Difesa che ha spiegato come l’esercito cinese avrebbe la capacità di “paralizzare” la difesa taiwanese. Allo stesso tempo si spera che gli Stati Uniti e il Giappone possano intervenire in aiuto di Taiwan in caso di invasione.

  • Come vive il governo. A livello governativo la situazione cambia. I messaggi mandati di recente dalla presidente Tsai Ing-wen, ma anche dai ministri di Esteri e Difesa, descrive la minaccia più imminente e concreta che in passato. A livello non ufficiale, un po’ tutti sono convinti che prima del 2023 e del probabile avvio del terzo mandato di Xi Jinping difficilmente possa accadere davvero qualcosa. Anche per questo si stanno aumentando i giri delle comunicazioni. Il timore del governo è infatti che, in caso di minaccia concreta, i taiwanesi non siano pronti né determinati a combattere. Anche per questo motivo sta cambiando l’atteggiamento dei media taiwanesi, che in passato erano sempre stati invitati dal governo a tenere un “basso profilo” sulle manovre militari cinesi per non creare panico ed evitare di far percepire alla popolazione che il governo stesso non fosse in grado di tutelarne la sicurezza. Ora, però, il governo taiwanese intravede una finestra di opportunità (e anche di rischio) nella quale cercare di posizionarsi in modo migliore. Da una parte rafforzando i legami internazionali dopo la pandemia da Covid-19 e l’inasprimento delle tensioni di Usa (e non solo) con Pechino: anche in questo senso si potrebbero spiegare le recenti spinte verso la “chiarezza strategica” nei rapporti con Washington, dopo le dichiarazioni di Joe Biden sull'”impegno” americano all’intervento in difesa di Taipei (in realtà inesistente su carta) e la conferma di Tsai della presenza di militari statunitensi sull’isola. Anche perché, nel frattempo, gli Usa stanno cercando di rimuovere leve diplomatiche importanti a disposizioni di Taipei nei confronti di Pechino, su tutte la catena di approvvigionamento dei semiconduttori. Dall’altra parte cercando di evitare una sottovalutazione continua delle pressioni cinesi da parte della popolazione, rischiando che la stessa risulti impreparata in caso di bisogno. Ma, e questo è un altro tema che affronteremo in altra occasione, in concreto ci sarebbe moltissimo da fare in ambito militare. E non si parla solo di mezzi a disposizione, ma di durata di leva militare (che in una democrazia è difficile aumentare, ha detto di recente un membro del DPP in risposta a una richiesta in tal senso del Guomindang), nonché di coinvolgimento e gestione dei riservisti.

Che cosa vogliono i taiwanesi?

Secondo l’ultimo rilevamento annuale operato dalla National Chengchi University vogliono soprattutto il mantenimento dello status quo: si tratta dell’85,6%. All’interno della preferenza sullo status quo ci sono però diverse sfumature, seguendo le opzioni di risposta che vengono fornite durante questi sondaggi. Andiamole a vedere:

  • Status quo e decidere successivamente: 28,8%. Si tratta della percentuale più elevata, seppure in calo. Secondo questa percentuale di taiwanesi si dovrebbe mantenere la situazione attuale e prendere una decisione su indipendenza o unificazione più avanti, quando le circostanze lo consentiranno. Il dato è calato rispetto al 38,5% del 1994, ma è costantemente rimasto il più alto tutti gli anni delle rilevazioni. Interessante notare le fluttuazioni verso l’alto e verso il basso. Il punto più basso si è toccato nel 1995 (24,8%) in concomitanza della terza crisi sullo Stretto, che sembrava rendere imminente la soluzione delle relazioni in un senso o nell’altro. Il picco più alto (38,7%) è datato 2006. Calo dal 33,4% del 2018 al 29,8% del 2019 in seguito a un anno significativo, con la promessa di Xi Jinping di arrivare alla riunificazione senza escludere l’utilizzo della forza e le vicende di Hong Kong, che hanno spianato la strada alla conferma di Tsai Ing-wen alle elezioni del gennaio 2020

  • Status quo andando verso l’indipendenza: 25,8%. Si tratta del dato cresciuto di più rispetto all’inizio delle rilevazioni, nel 1994, quando a rispondere in questo modo era l’8%. Questa risposta significa che si preferisce il mantenimento dello status quo in questo momento ma in futuro ci si immagina una dichiarazione formale di indipendenza. Anche qui è molto interessante notare l’andamento della curva. Crescita costante fino al 1999, per poi calare per un paio d’anni subito dopo l’elezione del primo presidente del DPP. Le percentuali sono sempre rimaste sotto il 20%, fino alla fortissima crescita del 2019 e 2020. ancora una volta si può intuire che una Cina più muscolare ottiene l’effetto opposto di quello desiderato, quantomeno a livello di volontà dei taiwanesi. Dopo il fallimento del modello “un paese due sistemi” a Hong Kong, l’unificazione diventa dunque un’ipotesi sempre meno appetibile per l’opinione pubblica.

  • Status quo a tempo indefinito: 25,5%. Si tratta di quella parte di popolazione che vorrebbe mantenere la situazione attuale se possibile per sempre. Indipendenza de facto, ma senza dichiarazione formale di indipendenza come Repubblica di Taiwan. Tra chi la pensa così prevale la sensazione che le cose siano finora andate bene sostanzialmente per tutti, sia a livello commerciale sia a livello politico, e che non ci sia nemmeno il bisogno di azioni drastiche perché nei fatti Taiwan è già un’entità a sé, seppure come Repubblica di Cina. In questo caso l’andamento è stato ondulato fino al 2008, quando c’è stato un cambio di passo verso l’alto (da 18,4% a 26,2%) in concomitanza con l’elezione di Ma Ying-jeou (Guomindang), che aveva portato a una grande distensione nei rapporti con la Repubblica Popolare, nonché nel 2010 a un accordo commerciale. Altro aumento significativo (da 24 a 27,8%) nel 2019, probabilmente per l’aumentata percezione del rischio dopo il discorso di Xi e i fatti di Hong Kong.

  • Status quo andando verso l’unificazione: 5,6%. Risponde così chi vuole mantenere la situazione attuale per ora, ma in futuro desidera un’unificazione con Pechino. Questa percentuale è quella che ha subito il maggiore calo nei 27 anni di rilevazione. Nel 1994 rispondeva così, infatti, il 15,6 % degli intervistati. Ma, attenzione, ancora una volta il calo è stato significativo soprattutto negli ultimi anni. Come già visto sui dati precedenti, l’oscillazione in questo caso verso il basso si è verificata nel cruciale 2019: dal 12,8% al 7,5%, per poi scendere ulteriormente nel 2020.

  • Indipendenza il più presto possibile: 6,6%. Il dato è cresciuto, seppure non di molto, rispetto al 3,1% del 1994. Il picco più alto (8,7%) si è verificato nel 2008, significativamente l’anno dell’elezione di Ma, per poi seguire un processo piuttosto regolare, senza scossoni nemmeno negli ultimi anni, seppure in costante e leggera crescita.

  • Unificazione il più presto possibile: 1%. Si partiva dal 4,4% del 1994 e poi il fato è sempre rimasto stabile intorno al 2%. Interessanti, ancora una volta, i movimenti degli scorsi anni. Tra il 2017 e il 2018 era cresciuto fino al 3,1%. Piccolo segnale che la presidenza Tsai non stava soddisfacendo tutti (e infatti alle elezioni locali del 2018 il DPP aveva perso praticamente ovunque), per poi riscendere di nuovo nel 2019 all’1,4%.

  • Qualche considerazione veloce. Dalla lettura dei dati emergono chiari alcuni elementi. Innanzitutto che la grande maggioranza dei taiwanesi desidera lo status quo, seppure con diverse sfumature. In secondo luogo, il trend di chi immagina in futuro l’indipendenza formale è in crescita, contrariamente a chi si immagina in futuro una unificazione. All’interno di questo trend che appare continuo, però, si vivono delle oscillazioni significative che denotano un allontanamento da Pechino quando quest’ultima è più aggressiva e un riavvicinamento nei momenti di calma apparente.

Quali sono le posizioni dei due principali partiti politici?

  • DPP. Il Partito democratico progressista di Tsai è storicamente definito come “filo indipendentista” dai media internazionali. In realtà, soprattutto con l’avvento di Tsai, il DPP ha fatto sua la “teoria dei due stati”, formulata inizialmente dall’ex presidente Lee Teng-hui nel 1999. Lee, primo presidente eletto liberamente nel 1996 dopo decenni di partito unico e di legge marziale (conclusasi nel 1987), era membro del Guomindang ma venne espulso nel 2000 accusato di sostenere segretamente il governo di Chen Shui-bian (il primo targato DPP) e l’indipendenza. Secondo Lee, la realtà de facto è che esistano già due stati, la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica di Cina. È la stessa posizione espressa da Tsai nel suo discorso alle celebrazioni del 10/10 e durante la recente intervista alla Cnn. Secondo Tsai, a Taiwan non serve una dichiarazione di indipendenza perché è già indipendente, seppure come Repubblica di Cina e non come Repubblica di Taiwan. E dunque il dialogo con Pechino è possibile e auspicabile, ma a fronte del riconoscimento da parte di Pechino stessa dell’esistenza di due entità distinte. Una linea che viene definita “secessionista” e “separatista” dal Partito comunista cinese, ma che in realtà sulla scena politica taiwanese si può identificare come “centrista”, perché tiene ai lati da una parte chi lega il destino della Repubblica di Cina con quello della Repubblica Popolare all’interno del grande concetto della “unica Cina” e dall’altra chi invece vorrebbe l’indipendenza come Repubblica di Taiwan per marcare una differenza non solo politica ma anche identitaria e culturale. Elementi sui quali in realtà il DPP lavora, ma entro il perimetro della Repubblica di Cina. Si tratta peraltro di una posizione a tutela, come abbiamo visto dai sondaggi, del sentimento maggioritario della popolazione che vuole lo status quo. Ma, allo stesso modo, si tratta di una posizione che una Repubblica Popolare più forte e meno chiamata a nascondere le proprie ambizioni non accetta.

  • Guomindang. Il GMD è il Partito nazionalista cinese. Fondato da Sun Yat-sen, governa la Repubblica di Cina (e dunque la Cina in senso esteso) fino alla guerra civile e al 1949, quando Chiang Kai-shek si rifugia a Taiwan. Per i rapporti intrastretto ha modellato in maniera pragmatica la sua aderenza alla costituzione, che prevede la rivendicazione di tutto il territorio cinese con aggiunta della Mongolia e del golfo del Tonchino, la prima divenuta indipendente e il secondo ceduto al Vietnam dopo l’istituzione della Repubblica Popolare. Di fatto, però, il GMD non sostiene più come faceva fino a qualche decennio fa di voler tornare a governare l’intero territorio cinese. Il pilastro su cui si basa il rapporto con Pechino è il cosiddetto “consenso del 1992”, secondo il quale esiste una “unica Cina” ma senza stabilire quale sia. Può sembrare una questione sottile e un esercizio retorico, e in effetti lo è. Ma gli equilibri sullo Stretto e lo status quo si sono sempre poggiati proprio su questioni sottili ed esercizi retorici. Dopo la batosta elettorale del 2020, il GMD ha tentato un timido processo di taiwanizzazione e di rivisitazione della posizione del consenso del 1992. Processo annunciato ma mai chiarito né realizzato, e comunque concluso poche settimane fa quando è stato nominato presidente del partito l’esperto Eric Chu, che in passato ha incontrato Xi (quando era candidato alle elezioni del 2016) e ha parlato della necessità di riaprire il dialogo intrastretto e di tornare a una posizione intermedia nei rapporti con Stati Uniti e Repubblica Popolare.

 

Quali sono i possibili scenari?

  • La classica domanda da un milione di dollari. Come detto in precedenza, si ritiene difficile che Xi Jinping possa imbarcarsi in un’azione militare che potrebbe portare anche a una guerra su larga scala prima di incassare il terzo mandato. C’è però anche chi sottolinea come i recenti problemi interni, dalla crisi immobiliare a quella energetica, possano anche fargli venire in mente l’idea di imbarcarsi in un’operazione militare. Opzione percorribile forse solo in caso Xi si senta davvero in pericolo e in quel modo una guerra potrebbe costringere il Partito a lasciarlo al suo posto. Ipotesi che però sembra molto lontana dalla realtà, con la presa del presidente che verrà chiarita in modo ancora più concreto dalla risoluzione storica in procinto di essere approvata al prossimo Plenum del Pcc (8-11 novembre).
  • Detto che prima del 2023 sembra improbabile un’azione militare vera e propria, è probabile che aumentino le pressioni, anche perché nel 2024 a Taiwan ci sono le elezioni presidenziali. Pechino potrebbe cercare di presentarle come l’ultima spiaggia per i taiwanesi nella scelta tra guerra (DPP) e pace (GMD qualora confermasse una linea dialogante dopo la crisi di identità, che in realtà persiste, degli ultimi anni). Una strategia non nuova, ma più credibile visto l’aumento quantitativo e qualitativo delle pressioni militari.
  • Diversi analisti ritengono più plausibile, rispetto a un’invasione diretta dell’isola di Taiwan, uno “stress test” su una delle isole minori amministrate da Taipei. La mancata reazione di Stati Uniti e Giappone potrebbe fiaccare la resistenza, anche psicologica dei taiwanesi, e favorire una riunificazione, o unificazione a seconda della prospettiva, semi pacifica.

Per approfondire: tutti i sabati su China Files viene pubblicata la rubrica Taiwan Files, una rassegna di notizie da Taipei (e dintorni) a cura di Lorenzo Lamperti

Di Lorenzo Lamperti

Le puntate precedenti di Taiwan Files

06.11 – Sanzioni più “forti” degli aerei, tour Ue, Michelle Wu

30.10 – Ipac a Roma, Wu in Ue, Tsai alla Cnn, Tsmc-Oppo

23.10 – La chiarezza di Biden, rapporti con l’Ue, semiconduttori

16.10 – Incendio a Kaohsiung, 10/10, strategia militare (e non), Harvard

09.10 – Aerei, marines, feste nazionali e incroci diplomatici

02.10 – Eric Chu, movimenti militari, rapporti con l’Ue e chip

25.09 – Elezioni Guomindang, CPTPP, francesi a Taipei

18.09 – Moon Festival, wargames, Pacifico, chip e spazio

11.09 – Super tifoni, venti militari, brezze elettorali e aliti di storia

04.09 – Sicurezza, budget militare, Europa, M5s e fantasmi