Taiwan Files – Pelosi a Taipei, questione di “faccia”

In Asia Orientale, Taiwan Files by Lorenzo Lamperti

Edizione speciale della rassegna di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei (e dintorni) con le ultime novità sulla possibile visita di Nancy Pelosi a Taiwan

Gli Stati Uniti non possono mostrarsi deboli nei confronti della Cina. La Cina non può mostrarsi debole nei confronti degli Stati Uniti. Taiwan non può mostrarsi indisponibile nei confronti degli Stati Uniti, ma nemmeno troppo aggressiva nei confronti della Cina. Il rompicapo sulla visita di Nancy Pelosi è servito. Taipei attende, tra voci e opinioni contrastanti. Ma lo fa con più tranquillità e meno chiasso rispetto a quello prodotto dalle due superpotenze. Indiscrezioni e minacce sono vissute, come dice Brian Hoe (fondatore di New Bloom Magazine) alla Cnn, come “rumore di sottofondo“.

Alla visita di Pelosi è interamente dedicata la puntata di Taiwan Files di due giorni fa (qui invece una diretta Instragram di China FIles), nella quale si raccontano nel dettaglio contesto, prospettive e scenario. Qui ci limitiamo a qualche aggiornamento. Intanto, il viaggio di Pelosi e diversi altri membri del Congresso Usa è pronto a cominciare. Nelle prossime ore il volo con a bordo la speaker del Congresso dovrebbe decollare per un tour che prevede ufficialmente le tappe di Singapore, Malesia, Corea del Sud e Giappone.

Ancora nessuna conferma sulla tappa di Taiwan, come a questo punto è più che normale, ma a Taipei sono in corso i preparativi logistici nel caso in cui la tappa si facesse. Ascoltando le dichiarazioni di John Kirby, portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale, la sensazione è che però la visita si possa davvero fare. “Non c’è motivo di arrivare a questo, di arrivare ai colpi, di arrivare a una maggiore tensione fisica”, ha detto Kirby alla Casa Bianca. “Non ce n’è motivo perché non c’è stato alcun cambiamento nella politica americana nei confronti del principio della unica Cina”.

A Taipei c’è ancora incertezza. Due diverse fonti politiche mi danno conto (entrambe nelle prime ore di sabato 30 luglio) di due visioni di segno opposto. La prima sostiene che alla fine Pelosi possa non arrivare. “Si pensa che l’amministrazione Tsai Ing-wen voglia portare fuori dai guai l’amministrazione Biden, forse su pressione di Washington, chiedendo a Pelosi di non venire”. Aggiungendo: “Uno scenario del genere è certamente possibile, dato che Taipei è spesso accondiscendente alle richieste statunitensi su molte questioni”. Se ciò fosse vero, non solo gli Stati Uniti mostrerebbero debolezza nei confronti di Pechino (soprattutto a causa delle parole di Biden sui dubbi del Pentagono, come spiegato nel dettaglio nell’ultima puntata di Taiwan Files), ma significherebbe anche che la diversità di vedute sull’opportunità del viaggio tra la Casa Bianca e Pelosi sia notevole.

Una seconda fonte sostiene invece che il viaggio alla fine si farà, “nel giro di qualche giorno” e con una durata limitata. Ciò significa che potrebbe avvenire a cavallo dell’anniversario della fondazione dell’Esercito popolare di liberazione, portando Pechino a dover compiere una reazione tangibile per non doversi mostrare a sua volta debole.

Wen Ti-Sung, politologo presso il programma di studi su Taiwan dell’Australian National University, ha esplicitato una suggestione che circola da qualche giorno sulla visita di Pelosi: “E se alla fine si facesse uno stopover? Le visite presidenziali taiwanesi negli Stati Uniti sono solitamente inquadrate non come “visite ufficiali” o “visite di Stato”, ma come “visite di scalo”, per rifornimenti e rifornimenti, come parte di lunghi viaggi per visitare l’America Latina”, spiega Wen. A quel punto Taiwan potrebbe dare questo messaggio: “È una necessità tecnica, non politica e non vuole essere una festa, quindi non c’è bisogno di reagire in modo eccessivo, Pechino”. Aggiunge Wen: “Tutti saprebbero cosa sta succedendo. Ma questo fornirebbe alla Cina un’uscita di sicurezza sufficiente a salvare la faccia”.

La seconda fonte, quella che sostiene che il viaggio si faccia, commenta a Taiwan Files: “Quando Newt Gingrich venne a Taiwan nel 1997, rimase in città per non più di qualche ora, arrivando al mattino e ripartendo nel pomeriggio, non molto più a lungo di una sosta di rifornimento. Potrebbe avvenire lo stesso anche adesso ma credo che a questo punto sia probabilmente troppo tardi per dare a una visita di Pelosi a Taiwan un altro nome o fornire un’altra spiegazione”.

Crisi inevitabile? No. Certo, si alza il rischio di un incidente anche non voluto visti i movimenti incrociati di mezzi militari. Venerdì 29 e sabato 30 luglio si svolge una grande esercitazione navale dell’Esercito popolare di liberazione, con test al largo dell’isola di Pingtan, nella provincia del Fujian, in un’area distante poco più di 100 chilometri dalle coste della principale isola taiwanese. Ma proprio nelle ultime ore è stato annunciato un nuovo ciclo di esercitazioni, lungo la penisola di Leizhou, nelle acque al largo del Guangdong. Si terranno il 2 e 3 agosto, giorni che rientrano nella fascia temporale della possibile visita. Come raccontato nei giorni scorsi, anche gli Usa stanno muovendo mezzi in prossimità di Taiwan.

Ma si intravedono spiragli per riportare tutto su un canale meno scivoloso, in particolare dopo la telefonata tra Biden e Xi Jinping (analizzata qui). Secondo Crisis Group, “ci sono piccoli passi che Washington può incoraggiare Pelosi a compiere per sottolineare che il viaggio rappresenta uno scambio che rientra nei limiti degli impegni assunti dagli Stati Uniti nei confronti della politica di una sola Cina e del Taiwan Relations Act. In primo luogo, Pelosi dovrebbe viaggiare con un jet commerciale o con un aereo governativo senza contrassegni militari“, viene suggerito. Effettivamente, nel giugno 2021 una delegazione del Senato americano si è recata a Taiwan con un aereo da trasporto militare C-17 con la scritta “U.S. Air Force” sulla fiancata, suscitando le grida di sdegno dei nazionalisti cinesi e una brusca risposta ufficiale.

Allo stesso modo, sottolinea Crisis Group, “Pechino troverebbe provocatorio se l’aereo della speaker fosse scortato da aerei militari statunitensi“. Continua Crisis Group: “Anche gli incontri che Pelosi tiene a Taiwan, la pubblicità che li circonda e ciò che dice alla stampa sono dettagli importanti che possono essere gestiti per contribuire ad abbassare la temperatura. Pelosi potrebbe, ad esempio, ribadire l’impegno degli Stati Uniti nei confronti della politica di una sola Cina e la posizione degli Stati Uniti che non sostengono l’indipendenza di Taiwan”.

In tal senso, Taipei sta mantenendo un basso profilo. Come sottolinea Eric Cheung, Tsai e il suo ufficio non hanno rilasciato dichiarazioni a favore o contro la visita di Pelosi. Anche il premier Su Tseng-chang ha solo ringraziato Pelosi per il suo forte sostegno a Taiwan nel corso degli anni, aggiungendo che Taipei accoglie con favore qualsiasi ospite amichevole proveniente dall’estero. Secondo gli analisti politici, parte del motivo per cui le autorità taiwanesi stanno mantenendo un basso profilo è che ciò potrebbe aiutare a deviare qualsiasi responsabilità nel caso in cui il viaggio si svolga: Pechino sarebbe più propensa a incolpare Washington, piuttosto che Taipei.

Questo lo lascerebbe intravedere anche parte del readout cinese della conversazione Xi-Biden. Come ho scritto in merito dopo la telefonata:

Come a novembre, Xi avverte: «Giocando con il fuoco si rischia di bruciarsi. Spero che la parte statunitense possa vederlo chiaramente». Allora Xi aveva aggiunto che la Cina è «paziente e disposta a fare del proprio meglio per lottare per una prospettiva di riunificazione pacifica» ma non aveva escluso l’utilizzo della forza: «Se gli indipendentisti oltrepassano il limite, ci vedremo costretti ad adottare misure decisive». Via carota e bastone, in questo caso resta solo il fuoco (potenziale).

Un messaggio dunque rivolto prettamente agli Stati Uniti.

A Taiwan, comunque, nell’opinione pubblica non si respira particolare preoccupazione. I cittadini ritengono si tratti più di “minacce verbali” e non credono si arrivi a una vera e propria crisi. Anche i media, come spesso accade in questi casi, non hanno “caricato” la portata dell’evento. “Mentre i media internazionali si sono ampiamente occupati della potenziale visita della Pelosi, a Taiwan questa settimana la notizia non ha quasi fatto notizia. I notiziari taiwanesi si sono invece concentrati soprattutto sugli scandali legati alle imminenti elezioni locali e alle più grandi esercitazioni militari annuali dell’isola”, scrive la Cnn.

Che cosa può succedere? Ne ho scritto più nel dettaglio nella puntata di due giorni fa, da aggiungere questo interessante thread di Zack Cooper che vale la pena citare per intero:

Pelosi probabilmente pensa che il viaggio sia stabilizzante. La deterrenza si sta erodendo, quindi una visita dimostra un impegno. Ma credo che Xi sia più propenso ad agire quando viene messo alle strette. Quindi preferirei che ci concentrassimo sul rafforzamento silenzioso delle capacità nostre e di Taiwan. Meno retorica e più azione. Gli Stati Uniti e la Cina non sono d’accordo su quale parte stia minando lo status quo. Non sto giustificando il comportamento di Pechino, ma dobbiamo riconoscere che una serie di azioni statunitensi sta sollevando dubbi sulla sostenibilità dell’ambiguità strategica e della nostra politica di una sola Cina.

La tempistica di questa visita pone gli Stati Uniti in una posizione strategica difficile.
– L’imminente Congresso del Partito lega le mani a Xi
– Biden ha recentemente affermato che gli Stati Uniti hanno un impegno nei confronti di Taiwan
– Pompeo ed Esper hanno appena messo in discussione una Cina
– Abbiamo una guerra in corso in Ucraina

Le crisi possono essere utili per costruire il consenso all’azione e mostrare la determinazione. Ma a questo punto Biden è diviso dal principale membro del Congresso del suo stesso partito. Questa non è certo la ricetta per dimostrare unità e impegno. Le crisi possono anche costruire coalizioni internazionali e guidare la definizione delle priorità e delle risorse. Ma le mie conversazioni con funzionari ed esperti stranieri suggeriscono che molti dei nostri alleati e partner ci incolperebbero di questa crisi tanto quanto, o addirittura più, della Cina. Non va bene.

Da registrare anche la presa di posizione della Russia. “Indubbiamente siamo solidali” con la Cina, ha detto venerdì il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. “Noi rispettiamo la sovranità e l’integrità territoriale cinese e pensiamo che nessun paese al mondo dovrebbe avere il diritto di metterla in dubbio o di fare passi che istighino o di altra natura”, ha affermato Peskov. Che poi ha denunciato l’atteggiamento di Washington: “Noi riteniamo che questo comportamento sulla scena internazionale possa solo causare ulteriori tensioni, con il mondo già sotto stress per una serie di problemi regionali e globali. Certamente questi passi possono solo essere distruttivi”.

Chiusura, in attesa di sapere se e quando Pelosi arriverà e in che modo reagirà Pechino, con l’analisi di quanto hanno comunicato all’esterno Pechino e Washington su Taiwan dopo la telefonata Xi-Biden, il cui segnale più positivo è il fatto che il discorso si sia allargato a una visione più ampia delle relazioni bilaterali tra Usa e Cina, in grado dunque di andare oltre il caso Pelosi, che ora va però gestito limitando al massimo i rischi.

Non si scherza col fuoco, no a mosse unilaterali per cambiare lo status quo. Il rumore di sottofondo è diverso, ma i ritornelli scelti da Xi Jinping e Joe Biden nel loro colloquio telefonico di ieri sono i soliti. Le parole utilizzate dai presidenti di Cina e Stati uniti, quantomeno su Taiwan, sono pressoché le stesse dello scorso novembre. E non c’è dubbio che Taiwan sia il dossier più elettrico nei rapporti tra Washington e Pechino, ancora di più dopo l’esplosione del caso Nancy Pelosi, ancora di più dopo l’esplosione del caso Nancy Pelosi.

I due comunicati emessi alla fine della telefonata, durata circa 2 ore e 20 minuti, sembrano quasi un copia e incolla di quelli di otto mesi fa. Come ormai è prassi, prima è uscito quello cinese, decisamente più lungo e dettagliato: «Xi Jinping ha sottolineato la posizione di principio della Cina sulla questione di Taiwan» e ha «sottolineato che entrambi i lati dello Stretto di Taiwan appartengono a un’unica Cina». Dopo la classica citazione dei tre comunicati congiunti sinoamericani arriva l’altrettanto classico avviso: «Ci opponiamo fermamente al separatismo e alle interferenze di forze esterne». E ancora: «La volontà di oltre 1,4 miliardi di cinesi è ferma sul salvaguardare risolutamente la sovranità nazionale e l’integrità territoriale». Come a novembre, Xi avverte: «Giocando con il fuoco si rischia di bruciarsi. Spero che la parte statunitense possa vederlo chiaramente». Allora Xi aveva aggiunto che la Cina è «paziente e disposta a fare del proprio meglio per lottare per una prospettiva di riunificazione pacifica» ma non aveva escluso l’utilizzo della forza: «Se gli indipendentisti oltrepassano il limite, ci vedremo costretti ad adottare misure decisive». Via carota e bastone, in questo caso resta solo il fuoco (potenziale).

Molto più stringata la risposta americana: «Il presidente Biden ha sottolineato che la politica degli Stati uniti non è cambiata e che gli Usa si oppongono fermamente agli sforzi unilaterali per cambiare lo status quo o minare la pace e la stabilità attraverso lo Stretto di Taiwan». Il che significa, agli occhi cinesi, anche (e soprattutto) non sostenere l’indipendenza di Taipei come Repubblica di Taiwan.

Nessuna citazione come prevedibile, per Pelosi. Non è dato sapere se il mantenimento dello stesso tono rispetto a novembre scorso, nonostante le minacce di escalation e le manovre militari dei giorni scorsi, possa significare che tra i due ci possa essere stato una sorta di “assenso” sul modo in cui far fronte alla vicenda. Ma un accordo generale, come sempre, è fuori discussione. Oggi l’esercito cinese avvia due giorni di test navali, mentre ieri i militari taiwanesi hanno sparato un razzo per allontanare un drone in prossimità delle isole Matsu.

Promettenti invece due elementi: la scomparsa del termine “competizione” dal readout Usa e la previsione post colloquio di un incontro di persona (il primo da quando Biden è presidente) entro la fine dell’anno. Questo significa che su Taiwan non ci saranno più tensioni? Ovviamente no. Anzi, nei prossimi giorni è lecito aspettarsi un aumento delle incursioni aeree dell’esercito popolare di liberazione, a prescindere da Pelosi visto che arriva l’anniversario delle forze armate comuniste. Nelle scorse settimane non si è visto un aumento, segnale che Pechino si tiene questa carta come reazione alla possibile visita di Pelosi (il che, paradossalmente, è un bene viste le alternative).

Rispondendo anticipatamente alle consuete domande che si fanno in queste occasioni: su Taiwan non c’è e non ci sarà comunque un accordo di nessuno tipo. Ieri sostanzialmente Xi e Biden hanno ribadito di vedere nell’altro l’attentatore allo status quo. Al massimo si può trovarsi d’accordo di essere in disaccordo riportando però le tensioni su un sentiero meno irto di incognite.

Di Lorenzo Lamperti

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