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L’India a 75 anni: ancora un manifesto post-coloniale della democrazia?

In Asia Meridionale, Economia, Politica e Società by Redazione

Il 15 agosto l’India festeggia i 75 anni dall’Indipendenza dal Regno Unito. Un’analisi sulla salute della democrazia indiana in un contesto socio-politico sempre più polarizzato. Di Manali Kumar, editor-in-chief di 9DashLine

Durante una visita in Germania lo scorso giugno, il primo ministro Narendra Modi ha definito l’India “la madre della Democrazia”, dichiarando che il suo paese ha dimostrato che “la democrazia può dare risultati, e ne ha dati tanti”. Modi è stato poi al G7, dove ha parlato di libertà di parola, internet libero e indipendenza della società civile. Un commento abbastanza ironico, se consideriamo che l’India è tra i principali paesi al mondo che utilizzano i blocchi sulla rete per ostacolare le informazioni meno gradite al governo. Allo stesso modo, Nuova Delhi utilizza metodi repressivi  “alla cinese” nei confronti degli utenti dei social media, mentre aumentano gli arresti di giornalisti più critici.

Il 15 agosto l’India festeggia i suoi 75 anni di indipendenza. Ma come sta andando nel paese che, come lo definì Sunil Khilnani, rappresenta “il terzo grande esperimento democratico avviato…dalla Rivoluzione francese e americana”? Quali prospettive per l’India di Modi in qualità di bastione della democrazia contro l’espansione dell’autoritarismo cinese in Asia Pacifico?

Una democrazia atrofizzata

Il premier Modi ha messo al centro del suo governo i rituali indù. Eppure l’India non è un paese induista, né un paese a lingua hindi. Contrariamente a quanto molti pensano, non è nemmeno un paese vegetariano. L’80% degli indiani pratica l’induismo, ma questo non è mai diventato la religione “ufficiale”, o la religione di stato. La Costituzione considera la libertà religiosa un diritto fondamentale e l’India è il terzo paese al mondo per popolazione musulmana. Non esiste una lingua “nazionale”: sebbene l’hindi e l’inglese siano le lingue degli affari governativi, la Costituzione riconosce 22 idiomi, altrettanto utilizzati a livello ufficiale e nei contesti educativi. E anche se mangiare carne e uova è diventato un tema sempre più politicizzato, tanto che alcuni governi locali stanno imponendo dei divieti al consumo di questi alimenti, oltre il 90% degli indiani consuma un qualche tipo di pasto non strettamente vegetariano. L’India è un paese multireligioso, multilinguistico e multietnico che per decenni ha esposto con orgoglio la propria incredibile eterogeneità. Con l’arrivo del governo guidato dal Bharatiya Janata Party (Bjp) e della sua ossessione per il suprematismo Hindu, purtroppo, molti indiani sembrano aver dimenticato questa storia.

Nel preambolo alla Costituzione indiana, adottata nel 1950, vengono sanciti alcuni ideali fondanti, come democrazia, giustizia, libertà, uguaglianza e fraternità. Tra questi è presente anche la laicità dello stato, aggiunta con l’emendamento del 1976. Sebbene il governo Modi non abbia ancora interferito con l’integrità del processo elettorale democratico di per sé, ha però compromesso ciascuno di questi princìpi. Che la democrazia indiana sia in recessione – analogamente ad altri contesti democratici nel mondo – è un dato di fatto, supportato da prove evidenti. Sia la violenza nei confronti delle minoranze che la violazione delle libertà civili – più o meno esplicitamente condannate da Nuova Delhi – sono in aumento. “Jai Shri Ram” (gloria al Dio Rama) è presto diventato il motto delle manifestazioni della destra induista, dove le processioni religiose si stanno trasformando in occasioni sempre più inquietanti in cui leader religiosi e di partito chiedono apertamente ai fedeli di armarsi contro i musulmani. Dallo scorso aprile, numerose abitazioni ed edifici commerciali di proprietà di musulmani sono stati distrutti.

Peggio ancora, il processo legislativo viene sistematicamente ostacolato: alcuni membri dell’opposizione sono stati sospesi per sopprimere il dibattito politico, mentre alcune leggi sono state approvate con poco (o nullo) scrutinio da parte dei legislatori. Modi, che tanto fa leva sulla relazione con il pubblico, è noto per la sua abilità nell’evitare le conferenze stampa e le domande più dirette. Il nazionalismo indiano, un tempo incentrato sull’orgoglio per dighe e impianti per la produzione dell’acciaio – i “templi dell’India moderna” del premier Jawaharlal Nehru – ora è radicato in ben altre iniziative. Si va dalla condiscendenza verso la retorica anti-musulmana alle statue da 400 milioni di dollari, dal cambiare i nomi di strade e città che hanno origine coloniale o (presunta) musulmana con nomi indù, fino alla totale intrasigenza verso le critiche contro il governo e il suo leader, Narendra Modi.

Verso la tempesta perfetta

Sin dagli inizi, quando il Bjp prometteva di combattere la corruzione e di migliorare il governo indiano, il partito di Modi ha cercato di giostrarsi tra una politica indù “moderata” e un tacito consenso verso le fazioni più estremiste, promotrici di un’aperta politica dell’odio.Il risultato è una società sempre più polarizzata, dove crolla la fiducia nelle istituzioni e crescono il vigilantismo e la violenza.

La fazione più intransigente degli induisti accusa il Bjp di non fare abbastanza per garantire i diritti della maggioranza e instaurare uno stato indù, mentre le minoranze – in particolare la numerosa comunità musulmana – sono sempre più spaventate all’idea stessa di non aver presto più diritto di esistere nel proprio paese. Questa terribile situazione sociale e politica in un paese messo alla prova dalla crisi economica è motivo di forte preoccupazione. Dopo un decennio di stagnazione economica, e nonostante la vitalità del settore tech e una ripresa della manifattura, l’economia indiana continua a combattere contro il crescente costo della vita e un gap salariale sempre più ampio. Lo scorso giugno, la disoccupazione è salita al 7,8%, con meno del 36% degli occupati tra la forza lavoro del paese. Nel 2021 il Pil pro capite (Ppp) era di soli 6,675 dollari, meno dei 6,689 dollari degli Stati Uniti. Per fare un altro paragone, l’anno scorso la Cina ha registrato un Ppp di 17,603 dollari.

Guardando alle elezioni del 2024, che il Bjp decida di adottare un approccio più moderato o di perseguire un progetto elettorale più radicale, il problema dell’agenda politica degli estremisti indù rimane. E rimane chiara l’inabilità dell’attuale governo a implementare delle politiche efficienti per il paese o per il suo sviluppo infrastrutturale, nonostante si continui ad affermare il contrario. Come racconta una recente analisi pubblicata su Foreign Affairs, il governo indiano ha attivamente e sistematicamente soffocato la crescita economica.

Perché è importante

L’Occidente sta lavorando attivamente per riunire le democrazie con cui condivide principi e valori, il tutto nel tentativo di consolidare il sistema basato sulle regole e le norme del diritto internazionale e contrastare “gli autocrati e gli uomini forti della politica illiberale”. E se pochi scommetterebbero su un ordine mondiale a guida cinese (o russa), gli Usa e i suoi alleati non possono più contare sulla possibilità di creare e mantenere un ordine mondiale coerente con le proprie preferenze. Per avere più garanzie, il peso dell’India continua a renderla un partner importante per affrontare le sfide presenti e future. Ma se il governo indiano sembra tutt’altro intenzionato a preservare l’ordine democratico previsto dalla sua Costituzione, quale tipo ordine internazionale potrebbe mai aiutare a sostenere in Asia Pacifico?

L’Unione Europea ha tentato di separare i princìpi dagli interessi nel perseguire la propria cooperazione con la Cina in qualità di “partner strategico” e ha impiegato anni per negoziare l’Accordo sugli investimenti. Sebbene il dialogo fosse giunto a un punto di svolta nel dicembre del 2020, la ratifica dell’accordo è saltata a causa delle sanzioni europee contro Pechino per le violazioni dei diritti umani contro la minoranza uigura. Con una Cina ora definita dall’Ue come un “rivale strategico”, ora Bruxelles cerca di negoziare dei nuovi accordi commerciali e di investimento con altri partner  in Asia Pacifico, India compresa. Se l’Ue continua a mettere in primo piano democrazia, liberalismo, diritti umani e inclusività come parte inalienabile della propria identità, però, rischia di avere sempre più difficoltà nel giustificare il suo rapporto con Nuova Delhi negli anni a venire. Dubbi sul rispetto dei diritti umani in India sono già stati sollevati al Parlamento europeo

Too big to fail?

Allo scoccare della mezzanotte del 14 agosto 1947 Jawaharlal Nehru, primo ministro dell’India indipendente, osservò nel proprio discorso all’Assemblea costituente che il paese “usciva dal vecchio per entrare nel nuovo”. Un’era stava finendo, disse, e il paese si stava risvegliando nella libertà. 75 anni dopo un’altra era sembra avviarsi alla sua fine, e l’India passerà a qualcosa di nuovo. Ma in cosa si risveglierà questa volta? 

C’è forse un senso di compiacimento quando si pensa all’India del futuro, non solo all’interno del paese, ma anche da fuori. Dopotutto, l’India vanta una carriera democratica che risulta quasi senza macchie rispetto ad altri stati post-coloniali. L’India ha saputo affrontare numerose sfide sociali, politiche ed economiche, e probabilmente sarà in grado di superare anche questo. Le alternative sono troppo sconfortanti per essere prese in considerazione: una discesa nel fascismo o nella diffusa violenza religiosa sembrano impossibili e le loro conseguenze, tra cui una crisi umanitaria e dei rifugiati, sembrano troppo lontane per essere prese in considerazione. Ma la pandemia e la guerra in Ucraina erano ritenute altrettanto improbabili, finché non sono accadute.

Forse un giorno l’India ce la farà: in quanto cittadino indiano, posso solo che sperare in questa ipotesi. Ma per ora, l’opposizione rimane in pericolo, incapace di convertire l’insoddisfazione popolare in voti e lasciare a Modi solo una parte di influenza sul paese. Un terzo mandato per l’attuale premier sembra tutt’altro che un’utopia. Sebbene unica nel suo genere, la recessione democratica dell’India fa parte di una tendenza globale. E come in altre realtà, anche l’India ha bisogno di nuove idee se vuole superare questa svolta fascista e divisiva nella sua politica.

Manali Kumar è una ricercatrice post doc e professoresse presso l’Università di San Gallo, in Svizzera, ed è caporedattrice di 9DashLine. La sua ricerca si concentra sugli interessi dell’India in qualità di grande potenza in divenire, così come nel valore della prudenza nel guidare il decision-making in contesti internazionali incerti.

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