Taiwan Files – 24 miglia nautiche

In Asia Orientale, Taiwan Files by Lorenzo Lamperti

L’arrivo dell’ennesima delegazione Usa e le nuove esercitazioni militari cinesi al largo del Fujian, il drone a Kinmen, budget di difesa, il ritorno di Pompeo, Xi manda un messaggio da Jinzhou, le strategie militari di Pechino e Taipei, il dialogo commerciale Usa-Taiwan e tanto altro. La rassegna settimanale di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei (e dintorni)

Le navi da guerra cinesi sono rimaste ad almeno 24 miglia nautiche di distanza dalla costa di Taiwan durante le recenti esercitazioni militari, nonostante gli avvertimenti di Pechino che avrebbero potuto avvicinarsi alle acque territoriali di Taipei. Dunque entro le 12 miglia nautiche. Anche perché tre delle sei aree annunciate per i test sembravano sovrapporsi alle acque territoriali taiwanesi. Il governo di Taiwan aveva preparato una serie di misure volte a difendere la propria sovranità senza aggravare ulteriormente le tensioni se le navi da guerra cinesi si fossero avvicinate alla costa taiwanese, hanno dichiarato dei funzionari a Bloomberg, chiedendo di non essere identificati perché non autorizzati a discutere pubblicamente di questioni di sicurezza. Come ho scritto nell’ultima puntata recap della crisi di Taiwan Files, durante le esercitazioni militari di Pechino va sottolineato anche quello che NON è successo. Per esempio, appunto il mancato ingresso nelle acque territoriali taiwanesi o il sorvolo dell’isola principale di Taiwan, opzioni che Pechino si riserva per una futura escalation. Christopher Twomey sottolinea su War on the Rocks che “la quarta crisi sullo Stretto è solo all’inizio“. Giovedì 25 agosto in tarda serata è atterrata a Taipei la senatrice repubblica Marsha Blackburn, di ritorno da un tour nelle isole del Pacifico meridionale: Figi, Papua Nuova Guinea e Isole Salomone (sempre più nell’orbita di Pechino). Venerdì 26 agosto incontra Tsai Ing-wen, prima di ripartire sabato 27. Si tratta della terza delegazione congressuale nel giro di poche settimane dopo quelle guidate da Nancy Pelosi ed Ed Markey. Mentre da venerdì 26 agosto parte un nuovo round di esercitazioni al largo del Fujian, la provincia cinese che si trova di fronte all’isola principale di Taiwan.

Le ultime: dal drone a Kinmen al budget militare, dalla nuova visita di Pompeo al tono della reazione di Pechino

Quello che certamente è successo, e di cui a Taipei si sta parlando molto, è il sorvolo di una base militare a Kinmen (qui un mio reportage dal piccolo arcipelago di qualche mese fa) da parte di un drone civile cinese. “Taiwan inizierà l’anno prossimo a dispiegare sistemi di difesa con droni sulle sue isole offshore”, ha dichiarato il ministero della Difesa, dopo che sono emersi i filmati di soldati taiwanesi che lanciano pietre per allontanare il drone. Ci si è chiesti perché non abbiano sparato: la risposta è che la direttiva era chiara ed era quella di non stimolare escalation.

Intanto il governo taiwanese ha annunciato gli obiettivi di budget per il 2023 e ha proposto un bilancio militare da record, con un aumento del 14% rispetto all’anno precedente. Il più alto organo amministrativo del governo, lo Yuan Esecutivo, ha approvato una spesa annuale di 2,7191 trilioni di dollari taiwanesi (90 miliardi di dollari) per il 2023, con un budget per la difesa fissato a 586,3 miliardi di dollari taiwanesi, oltre 19 miliardi di dollari: un aumento del 13,9% rispetto agli anni precedenti. Il budget per la difesa stabilito dallo Yuan esecutivo si basa sul principio di non essere inferiore al tasso di crescita medio del PIL del 4,09% negli ultimi tre anni. La cifra è molto più alta di 480 miliardi di dollari taiwanesi – l’importo di cui il governo aveva parlato precedentemente alle esercitazioni militari di Pechino seguite alla visita di Nancy Pelosi. La proposta di bilancio sarà inviata allo Yuan legislativo (il parlamento locale) per la revisione durante la sessione di settembre e dovrà essere approvata e firmata da Tsai Ing-wen prima di entrare in vigore. L’aumento della spesa militare previsto per il 2023 farebbe entrare Taiwan nella top 20 mondiale, visto che la cifra prevista sarebbe  quasi pari a quella spesa nel 2021 dalla Spagna, sedicesima al mondo secondo i dati dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), e di poco superiore a quella spesa dal Brasile, nel 2012 diciassettesimo con 19,2 miliardi di dollari.

“Non è abbastanza” mi dice però Kuo Yu-jen, direttore esecutivo dell’Institute for National Policy Research, il principale think tank non partisan di Taipei. “Non avrebbe comunque senso provare a competere con Pechino in termini quantitativi, è fondamentale acquistare le giuste armi. Sottolineo poi che le spese si concentreranno molto sul welfare, anche perché il 2023 sarà dominato dalla campagna elettorale per le presidenziali del 2023 e in una società dal trend demografico negativo come quella taiwanese le spese sul welfare portano più voti”, aggiunge.

Proseguono le visite americane. Una nuova delegazione è arrivata nella serata del 25 agosto, subito dopo che si è conclusa la visita del governatore dell’Indiana, Eric Holcomb, che ha incontrato anche Tsai e si è concentrato molto sul tema dei semiconduttori caro ai produttori statunitensi e all’amministrazione Biden che ha lanciato il Chip 4, alleanza di settore che includerebbe Usa, Taiwan, Giappone e Corea del Sud. Taipei ha chiarito di non essere stata informata di un possibile primo incontro.

Il 27-28 settembre torna anche Mike Pompeo in occasione del Global Business Forum di Kaohsiung, la seconda città di Taiwan e centro del prossimo stabilimento produttivo di Tsmc. E’ la seconda visita nel giro di sei mesi, la precedente l’avevo raccontata nel dettaglio qui.

Secondo un sondaggio della Taiwan Public Opinion Foundation il 52% dei taiwanesi ha accolto con favore la visita di Pelosi, mentre il 24% l’ha percepita in modo negativo. Inoltre, il 52,9% degli intervistati afferma che anche se avesse saputo che la Cina avrebbe organizzato esercitazioni militari su larga scala, Taiwan non dovrebbe rifiutare la visita di Pelosi, mentre il 33,6% degli intervistati afferma che Taiwan avrebbe dovuto rifiutare la sua visita, che secondo il Washington Post Xi Jinping avrebbe chiesto a Joe Biden di bloccare nella telefonata dl 28 luglio. Una versione che non convince del tutto, come ho avuto modo di raccontare nelle scorse settimane appare improbabile che in quella data già non si sapesse del viaggio, ma che semmai Xi avrebbe tentato di incidere sull’agenda. Qui una bella analisi di Ryan Hass sulla visita di Pelosi e gli insegnamenti da trarre per Washington.

Pechino intanto rimodula la sua risposta e in direzione del XX Congresso, non ha lanciato nuove vaste esercitazioni militari dopo l’arrivo delle nuove delegazioni ma si “limita” per ora a rafforzare il “new normal” spostando le incursioni oltre la “linea mediana”. L’incidente Pelosi non “accelererebbe” il calendario della riunificazione, ha dichiarato Sun Yafu, ex vice capo dell’Ufficio Affari di Taiwan di Pechino, in un’intervista pubblicata dalla rivista statale China Newsweek.

Ma non ci sono solo i missili nell’arsenale del Partito comunista cinese, che insiste anche sul fronte normativo. L’imminente sentenza in un maxi processo contro 47 oppositori di Hong Kong viene non a caso utilizzata come monito dai media cinesi. “Un caso così importante legato alla legge sulla sicurezza nazionale”, scrive per esempio il Global Times, “trasmetterà un forte messaggio di deterrenza nei confronti di coloro che intendono mettere a repentaglio la sicurezza nazionale, e la fine dei rivoltosi e dei secessionisti anticinesi di Hong Kong oggi potrebbe essere quella dei separatisti di Taiwan domani”. Mentre sono stati inseriti nuovi nomi nella blacklist dei “secessionisti”, tra i quali la rappresentante di Taipei negli Usa, Hsiao Bi-khim. Ne ho scritto qui.

L’ambasciatore americano negli Usa, Nicholas Burns, è stato molto criticato sui social cinesi per la sua intervista alla Cnn nella quale chiede a Pechino di non essere un “agente di instabilità” sullo Stretto. L’ambasciatore cinese negli Stati Uniti, Qin Gang, ha tenuto un colloquio con la vicesegretaria di Stato Usa, Wendy Sherman, centrato sulla situazione nello Stretto di Taiwan, le attività diplomatiche dell’ambasciata, le restrizioni anti-pandemiche e la scadenza delle deroghe ai viaggi all’estero per alcuni talebani al governo in Afghanistan.

Le strategie militari di Pechino e Taipei: intervista a Chieh Chung

A proposito di manovre militari. Nei giorni scorsi una nave militare dell’Esercito popolare di liberazione è passata vicino a Green Island, al largo della costa orientale, dove si sono svolti test missilistici. Secondo i media locali, i missili sarebbero ricaduti in acqua senza raggiungere l’altezza stabilita. Pechino ha nominato Wang Zhongcai nuovo comandante del Comando del Teatro Orientale della Marina. Scelta significativa: si tratta del capo della guardia costiera che ha guidato le incursioni intorno alle Senkaku/Diaoyu, isole contese col Giappone. Ulteriori segnali che sempre più navi cinesi anche non militari circonderanno Taiwan.

Ho intervistato Chieh Chung, esperto di aspetti militari della National Policy Foundation di Taipei (think tank vicino al Guomindang), per analizzare le strategie delle due sponde dello Stretto.

Chieh Chung, lo status quo è cambiato?

Da sempre la Repubblica Popolare Cinese si prepara a una potenziale invasione della Repubblica di Cina (il nome ufficiale con cui Taiwan è indipendente de facto, ndr). Quanto accaduto in queste settimane ha cancellato un tacito accordo che era stato applicato, salvo rari episodi, sin dal 1999: il rispetto della linea mediana. Funzionava come “confine” garantendo una zona cuscinetto. Ma il tacito accordo è stato rotto e si entra in una nuova fase dello status quo.

L’esercito popolare di liberazione ha chiarito che le manovre oltre la linea mediana diventeranno regolari. Come reagirà l’esercito taiwanese?

In quelle acque si svolgono manovre di routine ed esercitazioni, non si può cederle. Si rischia che mezzi navali e aerei di entrambe le parti si trovino gli uni di fronte agli altri sempre più spesso, aumentando il rischio di incidenti. Il nostro esercito cercherà di evitarli: non aprendo il fuoco dovrà cercare di far cambiare rotta ai mezzi di Pechino.

Le esercitazioni erano una dimostrazione di forza o una prova generale?

Non erano solo uno show, fanno parte del piano di potenziale invasione. In questo caso era chiaro che non ci sarebbe stata perché non c’è stato assembramento di truppe e beni di prima necessità sulle coste. Lo scopo era dire agli Usa di smettere di rafforzare le comunicazioni con Taipei.

Una reazione così dura non rischia di mettere in allerta altri paesi asiatici?

A Pechino non dispiace alzare la pressione perché questo, nella sua ottica, le crea maggiori opportunità di negoziazione. È stata usata questa diplomazia coercitiva già nel 2012 sulle Diaoyutai (a Taipei si chiamano così le Senkaku/Diaoyu, ndr) forzando gli Usa a chiedere al Giappone di fare un passo indietro, ora si ripete la strategia su Taiwan.

Senza la visita di Nancy Pelosi ci sarebbero state comunque le esercitazioni?

Non definirei la visita una scusa, ma un innesco. Di certo era un piano già pronto per essere utilizzato in una situazione come questa. Pechino è insoddisfatta e insicura da tempo per l’aumento degli scambi tra Usa e Repubblica di Cina, facilitati dall’eliminazione delle restrizioni autoimposte operata da Pompeo.

Non è scattata l’allerta sui missili che hanno sorvolato l’isola. Giusto?

Il governo aveva il dovere di comunicare quanto accaduto e spiegare il mancato allarme. Se la notizia dei missili fosse arrivata da Pechino e non da Tokyo l’effetto sarebbe stato peggiore.

Pechino è pronta a un’invasione o la vede comunque come unica opzione per la “riunificazione”?

Non ancora. Se ci sarà invasione dovrà essere il più veloce possibile. Nella prima fase vanno trasportate almeno 60 mila truppe ma per ora ne possono portare solo la metà. Prima di Trump, Pechino era convinta che il tempo fosse dalla sua parte. Ora ci sono troppe variabili ed è ansiosa. Ma nel breve termine non si rischia un’invasione.

Sono ipotizzabili un blocco navale (immaginato da Chris Buckley sul New York Times) o un’azione su un’isola minore?

Forse quando Pechino pensava che Taipei si sarebbe seduta al tavolo negoziale. Ora non credo. Prendere Kinmen e Matsu non servirebbe a prendere l’isola principale. E perché il blocco sia efficace dovrebbe durare almeno tre settimane, dando così tempo di reagire a Taiwan e Usa. Se ci sarà azione militare, l’invasione su larga scala è l’opzione più logica.

C’è fiducia su un intervento Usa in caso di guerra?

Nella terza crisi del 1996 c’è stato, anche perché si temeva un’invasione di Kinmen e Matsu. Stavolta non c’erano questi segnali, anche se la Ronald Reagan era in posizione strategica. Ritengo inoltre che nella loro telefonata Xi Jinping e Biden si siano scambiati opinioni su come gestire la situazione e abbassare i rischi.

Che cosa dovrebbe fare Taiwan per rafforzare le sue difese?

È fondamentale rivedere le linee guida per far fronte all’ampliamento dell’area grigia. Oltre la linea mediana non arriveranno solo navi da guerra ma anche guardia costiera e milizia marittima: i protocolli di risposta vanno adeguati. Le difficoltà saranno sempre maggiori. Serve poi estendere la leva militare e il programma dei riservisti ma mancano basi d’addestramento.

Una delegazione del Gmd è in Cina continentale. Può convincere Pechino a riavviare il dialogo politico?

Non credo che ora Pechino si affidi ad alcuna forza politica della Repubblica di Cina. Certo non vorrebbe che nel 2024 vincesse ancora il Dpp, per giunta con un candidato più radicale. Da lì al 2027, con XXI Congresso e possibili cambi nel Partito comunista, sarà una fase molto delicata.

I messaggi di Xi Jinping per Taipei e pubblico interno: silenziati blogger ultranazionalisti

Jinzhou occupa un posto speciale nella storia della Repubblica Popolare Cinese. È da questa città oggi parte della provincia nord orientale del Liaoning che la guerra civile si incanalò verso la vittoria del Partito comunista. Qui i nazionalisti di Chiang Kai-shek subirono una sconfitta decisiva durante la campagna di Liaoshen del 1948, quando il Guomindang perse anche Changchun e Shenyang. E proprio qui, al memoriale di Liaoshen, è riapparso Xi Jinping al termine del raduno a porte chiuse di Beidaihe (ne ho scritto qui). Li Keqiang ha scelto il porto di Yantian e Shenzhen, città simbolo della stagione di riforma e apertura lanciata da Deng Xiaoping. Il premier si è recato a porgere omaggio a una statua del piccolo timoniere. Con Jinzhou il nuovo timoniere ha invece operato una scelta dall’alto contenuto simbolico, col pensiero a Taiwan. Si tratta della sua prima apparizione pubblica dopo la visita di Nancy Pelosi a Taipei e le imponenti esercitazioni militari di Pechino intorno all’isola.

Il messaggio è rivolto ai taiwanesi, certo, ma anche e soprattutto al pubblico interno che mostra crescente insofferenza sul fronte Taiwan. Andando a Jinzhou Xi sta ribadendo che la “battaglia” va vista in prospettiva e che nel medio termine il Partito comunista avrà la meglio così come era accaduto nel 1948-1949. Jinzhou era stato tra i primi step concreti della vittoria sul Guomindang, le esercitazioni militari vanno lette dunque come il primo step concreto verso la “riunificazione”.

Nel frattempo alcuni gli account di alcuni influencer ultranazionalisti sono stati congelati (ne ho scritto qui). Dopo l’overdose di nazionalismo in concomitanza con la visita a Taiwan di Nancy Pelosi, le autorità stringono le briglie. Come in passato si era intervenuti sulle voci liberali, stavolta si interviene sulle ultranazionaliste. Senza dimenticare gli attivisti che si posizionano alla sinistra del Partito. Ecco allora il congelamento dell’account di Sima Nan (vero nome Yu Li), a cui è stato impedito di postare su Weibo, WeChat, Bilibili e Douyin «per violazione delle leggi e dei regolamenti pertinenti», anche se i suoi post precedenti restano intatti. Sinora le sue posizioni, seguite da 44 milioni di follower tra le varie piattaforme, erano sempre state tollerate dalle autorità.

È diventato influente con le sue prese di posizione anti-americane e anti-occidentali nelle quali non attacca il governo centrale, bensì i privati. A partire da imprenditori, celebrità e colossi tecnologici a suo dire non abbastanza patriottici. Tutto in linea con la vasta campagna di rettificazione lanciata da Xi Jinping proprio sugli stessi settori. Così come le sue invettive sul fronte economico ben si sposavano con la retorica della prosperità comune promossa anche in questi giorni dagli organi ufficiali del Partito. A metà luglio aveva auspicato la morte di Tsai Ing-wen.

Quello di Sima Nan non è l’unico caso. Silenziati anche Lu Kewen e Kong Qingdong, professore della Peking University celebre per gli insulti rivolti agli oppositori di Hong Kong. Il discorso, soprattutto in questo momento, deve essere governato solo dal Partito: nessuno, neppure le voci scatenate in passato quando erano utili, possono rischiare di spingere il governo a muoversi su binari o a una velocità diversi da quelli desiderati. Il caso di Hu Xijin, ex direttore del Global Times prepensionato, insegna.

Le esercitazioni militari congiunte Cina-Russia

Dopo una serie di dichiarazioni di sostegno del governo di Mosca, la scorsa settimana Vladimir Putin è intervenuto definendo la visita della speaker della Camera una “provocazione meticolosamente pianificata”. Torna la formula della “benzina sul fuoco” gettata da Washington. Cambia solo il teatro: dall’Ucraina all’Asia-Pacifico. Musica per le orecche di Pechino, il cui ministero degli Esteri ha ieri ringraziato il capo del Cremlino definendo le sue parole “una manifestazione di cooperazione strategica ad alto livello” e “del sostegno reciproco coerente e fermo dei due paesi su questioni che riguardando i reciproci interessi fondamentali”. Conscio degli imboccamenti che c’erano stati tra Joe Biden e Xi Jinping nei mesi scorsi (ne avevo scritto nel dettaglio qui), Putin cerca di ampliare la frattura già molto profonda creatasi tra Usa e Cina, spersonalizzando l’azione di Pelosi. “Non è solo il viaggio di un singolo politico irresponsabile, ma fa parte di una strategia deliberata e consapevole degli Stati Uniti per destabilizzare e deteriorare la situazione nella regione e nel mondo”, ha detto il presidente russo.

Il ministero della Difesa di Pechino ha peraltro annunciato che le truppe cinesi di recheranno in Russia per le esercitazioni militari Vostok 2022, organizzate dal distretto militare orientale di Mosca con quartier generale a Khabarovsk, a 30 chilometri dal confine cinese. Secondo il Cremlino, parteciperanno anche contingenti di Bielorussia, Tagikistan, Mongolia e (soprattutto) India: a conferma che Nuova Delhi mantiene la sua politica di non allineamento con gli Usa nonostante le frizioni con Pechino lungo l’enorme confine conteso. Le manovre sono in programma dal 30 agosto al 5 settembre tra Siberia ed Estremo oriente russo. La presenza “non è correlata all’attuale situazione internazionale e regionale”, chiarisce il governo cinese, ma il segnale di coordinamento si inserisce in un trend di crescente cooperazione militare. Nell’agosto 2021 i due eserciti hanno tenuto test militari congiunti nella provincia centro-settentrionale cinese del Ningxia, coinvolgendo oltre 10 mila truppe. Lo scorso ottobre sono state svolte esercitazioni navali congiunte nel Mar del Giappone. Qualche giorno dopo le navi da guerra di entrambi i paesi hanno effettuato pattugliamenti congiunti nel Pacifico occidentale. E negli scorsi mesi sono stati diversi i passaggi coordinati intorno all’arcipelago giapponese, compresi quelli aerei svolti durante il summit del Quad di maggio a Tokyo.

Il dialogo commerciale Usa-Taiwan

Intanto, il governo degli Stati Uniti ha annunciato di aver avviato il dialogo con Taiwan per il raggiungimento di un accordo commerciale di ampio respiro (ne ho scritto qui). L’obiettivo dichiarato è “approfondire le relazioni commerciali sulla base dei valori condivisi e promuovere l’innovazione”, ha dichiarato la vice rappresentante per il commercio, Sarah Bianchi. Taipei ha presentato l’avvio dei negoziati, fissato per ottobre, come un modo per attrarre maggiori investimenti americani e aprire la strada all’ingresso in accordi multilaterali come il Cptpp. Non sono comprese per ora discussioni sui dazi e non sarebbe dunque in vista un vero e proprio accordo di libero scambio. L’iniziativa comune per il commercio del 21esimo secolo, com’è stata definita, è nata dopo l’esclusione di Taipei dall’Indo-Pacific Economic Framework di Biden e sembra destinata a dare vantaggi all’isola in cambio di aiuto sui semiconduttori nell’ambito del Chips Act. Pechino ha ovviamente criticato l’annuncio: “Ci opponiamo sempre a qualsiasi forma di scambio ufficiale tra qualsiasi paese e Taiwan, compresi i negoziati e la firma di accordi con connotazioni sovrane o di natura ufficiale”, ha dichiarato Shu Jueting, portavoce del ministero del Commercio.

Wang Wenbin del ministero degli Esteri ha invece chiesto agli Usa di annullare i negoziati, spiegando che la Cina li considera “azioni a sostegno dei separatisti taiwanesi”. A giugno, quando era stata menzionata per la prima volta l’iniziativa commerciale, Pechino aveva bloccato le importazioni di cernie taiwanesi. Non è escluso che ci possano essere altre azioni in tal senso nei prossimi giorni e settimane, dopo che in risposta alla visita di Pelosi sono stati già stoppati oltre cento prodotti agroalimentari. Prodromi di trade war. Sul piano militare, invece, ieri il ministero della Difesa taiwanese ha detto di aver rilevato sullo Stretto sei navi e 51 aerei da guerra dell’Esercito popolare di liberazione. 25 jet avrebbero oltrepassato la linea mediana, il “confine” non riconosciuto ma solitamente rispettato da Pechino prima che i recenti test militari cambiassero le regole del gioco avvicinando sempre di più le incursioni alle coste taiwanesi. Secondo Daniel Kritenbrink, principale inviato di Washington per l’Asia orientale, la Repubblica Popolare “aumenterà la pressione” su Taiwan. Anche perché gli Usa sembrano intenzionati a proseguire quella che nella prospettiva di Pechino è una escalation diplomatica. Tra visite, iniziative commerciali e azioni normative come il Taiwan Policy Act (ne avevo scritto qui) che verrà discusso nelle prossime settimane.

Diplomazia, economia, politica interna

Giappone e Cina hanno invece concordato di proseguire il dialogo per costruire legami bilaterali positivi e stabili nel contesto delle crescenti tensioni su Taiwan, dopo un colloquio di sicurezza ad alto livello, durato circa sette ore, che si è svolto a Tientsin tra il consigliere per la Sicurezza nazionale del Giappone, Takeo Akiba, e il diplomatico Yang Jiechi, direttore della Commissione centrale affari esteri del Partito comunista cinese. Ma questo non ferma, anzi, le visite di delegazioni politiche giapponesi a Taipei. E le tensioni con Pechino proseguono, mentre anche una delegazione canadese (tra le altre) si prepara a visitare Taipei. Per l’autunno ci si attende l’arrivo di una delegazione tedesca e, attenzione, potrebbe anche presentarsene una italiana post elezioni. Sarebbe la prima dopo quella dell’autunno del 2019 al 100% leghista. Qui Giulia Pompili scrive della politica estera di Fratelli d’Italia.

Derek Grossman scrive che molti paesi dell’Indo-Pacifico non si allineano agli Usa sulla questione di Taiwan e anche in caso di conflitto non romperebbero le relazioni con Pechino. L’India intanto guarda con crescente attenzione al rapporto con Taipei, anche in materia di semiconduttori.

Secondo Nikkei Asia, lo scoppio di una crisi militare nello Stretto di Taiwan potrebbe innescare una serie di sanzioni economiche da parte degli Stati Uniti, dei Paesi europei e del Giappone a carico della Cina, che però si rivelerebbero un’arma a doppio taglio, causando danni all’economia mondiale per oltre 2.600 miliardi di dollari. Per ora comunque, il mondo del business americano vede un impatto limitato delle tensioni.

Il fondatore di United Microelectronics (UMC), Robert Tsao, ha dichiarato che il Guomindang deve abbandonare la politica dell’unica Cina. Queste affermazioni sono state rilasciate martedì in un’intervista a Radio Taiwan International. La UMC è il secondo produttore di microchip a contratto al mondo e Tsao aveva già fatto parlare di sé di recente donando una cifra cospicua alla difesa di Taiwan.

Quasi al termine il viaggio in Cina continentale della delegazione del Guomindang guidata dal suo vicepresidente Andrew Hsia. Il Gmd ha espresso a un alto funzionario cinese le preoccupazioni dei taiwanesi per i test militari di Pechino nei pressi dell’isola, in un colloquio che il partito ha definito “franco”. I funzionari di Pechino hanno replicato sostenendo si sia trattato “solo” di una risposta alla visita di Pelosi.  Hsia ha esortato le due sponde dello Stretto di Taiwan a riavviare i “mini-three links“. Un membro della delegazione ha ribadito l’adesione al “consenso del 1992“, cosa che sta suscitando delle polemiche a Taipei.

Qualche giorno fa ho partecipato con piacere all’anteprima di A Holy Family, bellissimo documentario diretto da Elvis A-Liang Lu e prodotto dall’italiano Stefano Centini, in uscita tra qualche settimana. Ci torneremo.

Di Lorenzo Lamperti

Puntata speciale recap 16.08.22 – Il nuovo status quo

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Taiwan Files: speciale 2021

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