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L’Altra Asia – Il ritorno (ma solo in foto) di Imran Khan, in Pakistan

In Asia Meridionale, Sud Est Asiatico by Francesco Mattogno

Il Pakistan è tornato a vedere la faccia di Imran Khan, “censurata” per mesi, a un anno dalle proteste che hanno cambiato la storia del paese. Il Vietnam ha un nuovo presidente, la morte in carcere di un’attivista per la democrazia in Thailandia, gli ammiccamenti delle Filippine all’occidente, il regime in Myanmar sta diventando una distopia e i consigli di lettura. L’Altra Asia è una rubrica sui paesi meno raccontati del continente (clicca qui per le altre puntate)

Poco più di un anno fa Imran Khan, ex primo ministro e leader Movimento per la Giustizia del Pakistan (PTI), veniva arrestato fuori dall’alta corte di Islamabad, dove si era recato per partecipare all’udienza di uno dei vari processi a suo carico per corruzione. Le immagini del campione mondiale di cricket scortato con forza dentro un’auto della polizia fecero il giro del mondo, e indignarono i suoi sostenitori. Era il 9 maggio del 2023: da quel giorno in Pakistan sarebbe cambiato tutto.

Migliaia di supporter di Khan si riversarono in strada chiedendo il suo rilascio. In alcune città i manifestanti presero di mira palazzi istituzionali, caserme e residenze private dei più alti ufficiali dell’esercito. Fu la più evidente e violenta sfida di una grande massa di cittadini pakistani all’establishment militare del paese, che fino all’anno precedente sosteneva il governo filo-autoritario dello stesso PTI. L’esercito rispose con forza alle proteste, che si conclusero con un bilancio di 14 morti, centinaia di feriti e migliaia di arresti. Khan venne rilasciato due giorni dopo, per poi essere nuovamente arrestato ad agosto, questa volta in via permanente.

Durante l’ultimo anno l’esercito ha fatto di tutto per rafforzare la propria presa sul paese e smantellare il PTI, costringendo decine dei suoi vertici all’esilio o alle dimissioni, e ostacolando in ogni modo la campagna elettorale del partito per il voto dell’8 febbraio, da cui il PTI è uscito comunque come prima forza politica. Nonostante non sia riuscito a formare un governo, l’esito delle elezioni ha dimostrato come Khan resti ancora di gran lunga il politico più popolare del paese, anche se confinato in carcere.

Eppure, salvo qualche dichiarazione estemporanea e un video generato con l’intelligenza artificiale, da agosto di lui si è saputo poco. Fino a qualche giorno fa. Il 16 maggio a Khan è stato permesso di partecipare in collegamento video all’udienza di un processo alla corte suprema in cui il leader del PTI non è l’imputato, ma l’accusa. L’ex premier sostiene che nel 2022 il governo, guidato allora come oggi dalla Lega Musulmana del Pakistan-Nawaz (PML-N) di Shehbaz Sharif, abbia limitato i poteri dell’Ufficio nazionale di contabilità per poter chiudere i casi per corruzione contro i membri della stessa PML-N.

L’udienza (come accade per i processi di una certa rilevanza) avrebbe dovuto essere trasmessa in diretta sul canale YouTube della corte suprema, ma poi non se ne è più fatto nulla, deludendo i 15 mila utenti presenti nella sala d’attesa virtuale dell’account istituzionale. Per mesi il governo – e quindi l’esercito – ha impedito qualunque forma di esposizione mediatica a Khan allo scopo di indebolire l’attenzione e il sostegno nei suoi confronti, ed è plausibile che abbia deciso di fare lo stesso anche in questo caso. Ma qualcosa è andato storto. Anche se nell’aula non erano permessi gli smartphone, qualcuno è riuscito a fare una foto a un computer che trasmetteva lo streaming con la stanza in cui si trovava Khan. È stata la prima immagine dell’ex premier a circolare pubblicamente in 9 mesi, ed è diventata subito virale.

La foto “rubata” di Imran Khan durante l’udienza del 16 maggio.

La foto ha raggiunto oltre 200 mila persone in qualche ora su X, che è un social tra l’altro poco utilizzato dai pakistani (circa 4 milioni di utenti). Secondo i giornalisti presenti in aula, Khan è rimasto per quasi tre ore in collegamento senza che il giudice gli consentisse di intervenire, visibilmente scocciato ma apparentemente in buona forma. L’interesse attorno alla sua figura è ancora altissimo, ed è stato alimentato nelle ultime settimane da una serie di sviluppi sia giudiziari che politici.

Ad aprile Khan ha dichiarato ai giornalisti che i vertici del PTI stanno parlando con l’esercito, senza specificare ulteriormente. L’ipotesi degli analisti è che il partito stia cercando di ricucire i rapporti con l’establishment militare e di trovare un qualche accordo per la sua liberazione. Il 9 maggio, nell’anniversario delle proteste per l’arresto dell’ex premier, il comandante delle forze armate Asim Munir ha però detto che «non si possono trovare compromessi con chi ha architettato questo capitolo buio della nostra storia».

Nonostante questa apparente chiusura, pochi giorni fa il leader del Partito Popolare Pakistan (PPP), Bilawal Bhutto Zardari, ha denunciato all’Assemblea Nazionale l’atteggiamento del PTI, criticando la scelta del partito di «non parlare con le altre forze politiche» e di rivolgersi direttamente all’esercito. Il 17 maggio Khan ha poi detto che scriverà a Munir per parlare di alcune vicende interne su cui dare un contributo per «il bene del paese». Sono fasi molto preliminari, ma è presto per dire che la carriera politica dell’ex campione di cricket sia già finita.

Sul fronte giudiziario, il 15 maggio l’alta corte di Islamabad ha concesso a Khan la libertà su cauzione riguardo il caso Al Qadir, uno dei vari processi in cui è accusato per corruzione. Il leader del PTI deve restare in carcere perché condannato in altri tre casi (uno con pena sospesa) e accusato di dozzine di reati, compresa istigazione al terrorismo, ma questo continuo rimpallo tra sentenze sospese e disaccordi tra giudici sta contribuendo ad alimentare la sua immagine da vittima del sistema. Il tutto mentre il governo fatica a trovare legittimità popolare.

La scorsa settimana nel Kashmir pakistano migliaia di persone sono scese in strada per protestare contro l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. Il governo ha mandato le forze paramilitari a reprimere le manifestazioni, causando 4 morti e un centinaio di feriti. Il 14 maggio il premier Sharif ha stanziato 82 milioni di dollari di sussidi per provare a far rientrare la situazione, ma l’impressione è che sia una toppa temporanea per una regione che chiede da tempo maggiore autonomia da Islamabad.

Sharif deve vedersela anche con le lotte interne alla PML-N. A inizio maggio il ministro degli Esteri Ishaq Dar, considerato vicino a Nawaz Sharif (fratello di Shehbaz), è stato nominato vicepremier. È il primo a ricoprire il ruolo dal 2013, proprio perché non si tratta di un incarico del tutto cerimoniale. Dalla sua nuova posizione Dar, ex ministro delle Finanze, potrà aver maggiore voce in capitolo sulle questioni economiche e rafforzare il peso di Nawaz sull’esecutivo. Secondo alcuni analisti, contattati dal Nikkei, i due fratelli Sharif si starebbero contendendo la leadership del partito.

VIETNAM – NOMINATO IL NUOVO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Dopo quasi due mesi di attesa, il Vietnam ha un nuovo presidente della repubblica. La scelta del comitato centrale è ricaduta su To Lam, ministro della Sicurezza Pubblica dal 2016 e membro del Politburo del Partito Comunista del Vietnam (CPV) dall’inizio di questo mandato, nel 2021. Da tre anni Lam è anche a capo del comitato direttivo che presiede l’enorme campagna anti-corruzione responsabile della caduta di decine di quadri del partito. Nel 2023 le indagini del comitato hanno spinto alle dimissioni il presidente della repubblica Nguyen Xuan Phuc, due vicepremier e vari ministri. Quest’anno si è ripetuto più o meno lo stesso copione. Tra fine marzo e inizio maggio sono stati epurati tre dei cinque principali quadri della gerarchia del CPV: il presidente della repubblica Vo Van Thuong (che aveva sostituito Phuc), il presidente dell’Assemblea Nazionale Vuong Dinh Hue e Truong Thi Mai, una delle principali candidate alla presidenza (di lei abbiamo parlato qui). La rimozione di Mai è arrivata nella stessa sessione del comitato centrale del CPV (16-18 maggio) che ha portato alla nomina di Lam e all’elezione di altri quattro componenti del Politburo, che per via della campagna anti-corruzione era arrivato a contare a malapena 12 membri sui 18 previsti per legge. Ora sono 16.

Già all’epoca della caduta di Thuong si parlava di Lam come di una figura in ascesa e molto potente proprio grazie al suo ruolo di leader della campagna anti-corruzione, che appare sempre di più come uno strumento utilizzato per scopi politici. Gli ultimi sviluppi portano a pensare che nel 2026 sarà lui a prendere il posto di Nguyen Phu Trong da segretario generale del CPV. Trong è anziano (ha 80 anni) e malato, ed è l’unico capo del partito ad aver superato il limite dei due mandati. Lam invece ha 66 anni e una carriera ancora relativamente lunga davanti a sé, anche se in Vietnam, di questi tempi, non si può mai sapere.

Insieme a Lam, il comitato centrale ha nominato anche Tran Thanh Man come presidente dell’Assemblea Nazionale (era già il vice di Hue). Trong, Lam, il primo ministro Pham Minh Chinh e Man sono ora i quattro uomini più potenti del Vietnam.

Altre notizie in breve. Secondo Human Rights Watch, il Vietnam sta falsificando i risultati degli studi interni sul rispetto dei diritti dei lavoratori per mantenere i suoi rapporti commerciali privilegiati con gli Stati Uniti e altri paesi occidentali. L’ONG sostiene che Hanoi non rispetti gli standard internazionali in materia di lavoro (per esempio non permettendo l’esistenza di sindacati indipendenti) e che la sua non possa essere definita come un’economia di mercato. Report come questi – insieme all’instabilità politica – danneggiano l’immagine del Vietnam, che sta invece cercando di porsi come un paese affidabile verso il quale le aziende internazionali possono indirizzare i propri investimenti. Per farlo, Hanoi si sta anche impegnando a rafforzare le proprie infrastrutture energetiche. La Cina sostiene che il Vietnam negli ultimi tre anni sia diventato più aggressivo nelle proprie pretese sul mar Cinese meridionale, dove avrebbe costruito anche delle piccole isole artificiali vicino alle Spratly. Il presidente russo Vladimir Putin visiterà il Vietnam «nel prossimo futuro».

THAILANDIA – LA MORTE IN CARCERE DI UN’ATTIVISTA PER LA DEMOCRAZIA

Netiporn Sanesangkhom, nota attivista thailandese per la democrazia, è morta il 14 maggio per le conseguenze di uno sciopero della fame durato oltre due mesi. Aveva 28 anni. Dopo che un tribunale le aveva revocato la possibilità di rimanere in libertà su cauzione, dal 26 gennaio Netiporn (conosciuta come “Bung”) era detenuta in custodia cautelare presso l’istituto penitenziario femminile centrale di Bangkok. Il 27 gennaio aveva così iniziato uno sciopero della fame per chiedere la riforma del sistema giudiziario e la scarcerazione per tutti i dissidenti politici, come lei. Le autorità avevano aperto sette casi contro Netiporn, due dei quali per lesa maestà.

Bung era già stata incarcerata due volte per il suo attivismo, che l’aveva resa abbastanza famosa nel paese. Nel 2022 aveva portato avanti un altro sciopero della fame, fino alla sua scarcerazione, poi era finita nei guai per aver organizzato una serie di manifestazioni insieme al gruppo di attivisti di cui era leader, il Talu Wang (che si può tradurre come “distruggere il palazzo”). La libertà su cauzione le era stata revocata proprio per aver pianificato una protesta davanti al ministero dello Cultura, il 6 agosto del 2023.

Su quanto le sia successo restano alcune cose da chiarire. Secondo le autorità, Netiporn era stata trasferita all’ospedale universitario di Thammasat l’8 marzo a causa delle sue precarie condizioni di salute, dovute al digiuno volontario, e sarebbe rimasta nella struttura fino ai primi di aprile. A quel punto Bung avrebbe ripreso a mangiare, rifiutandosi però di assumere integratori e vitamine, considerati essenziali per permettere al suo corpo di tornare a uno stato “normale”. Dalle ricostruzioni, i medici sapevano che Netiporn (che diceva ai suoi legali di sentirsi molto debole) fosse in uno stato grave di anemia. Nonostante questo era stata riportata all’istituto penitenziario, dove il 14 maggio è andata in arresto cardiaco. La sua morte ha scatenato grande indignazione nel paese, insieme alle critiche di varie associazioni per la tutela dei diritti umani come Human Rights Watch e Amnesty International. Al momento ci sono almeno 3 detenuti in sciopero della fame in Thailandia, dove dal 2020 sono state incriminate per lesa maestà oltre 250 persone, tra cui diversi minori.

La veglia a Bangkok in ricordo di Netiporn (Foto: Thai Enquirer).

Le altre notizie. Le aziende thailandesi stanno facendo lobbying contro l’innalzamento del salario minimo giornaliero, che il governo vorrebbe portare a 400 baht (10 euro): secondo gli oppositori la misura causerebbe l’innalzamento dell’inflazione, minando la competitività thailandese nelle esportazioni, e un aumento della richiesta di lavoro migrante. Il premier Srettha Thavisin è in Italia e il 21 maggio ha in programma un incontro con la presidente del consiglio, Giorgia Meloni. Sono morti due degli otto ostaggi thailandesi ancora nelle mani di Hamas, nella Striscia di Gaza.

FILIPPINE – IL “SUPER ORGANISMO” A TUTELA DEI DIRITTI UMANI, CHE TANTO SUPER NON È

Il presidente filippino Ferdinand Marcos Jr. ha annunciato l’istituzione di una Commissione Speciale di Coordinamento sui Diritti Umani, cioè di un nuovo “super organismo” (super body: così viene definito) che dovrebbe garantire una maggiore tutela dei diritti umani nel paese. La commissione si occuperà di fare indagini in materia, facilitare l’accesso delle vittime ai meccanismi giudiziari per denunciare maltrattamenti e così via. Ci si chiede però se non sia altro che uno strumento di propaganda. Secondo Carlos Conde di Human Rights Watch, che ha parlato con l’Inquirer e Rappler (i due principali media filippini in lingua inglese), un grande problema è che il “super organismo” sarà composto solo dai rappresentanti delle agenzie governative, sollevando più di qualche dubbio su quella che potrà essere la sua reale indipendenza dalle istituzioni. Le Nazioni Unite (ONU), le principali ONG globali e la società civile non sono nemmeno state interpellate durante il processo di creazione della commissione.

Quest’ultima mossa «fa parte della charm offensive di Marcos verso la comunità internazionale», ha detto Conde, ovvero di un tentativo del presidente di mostrare un’immagine delle Filippine che corrisponda a quello che i partner occidentali – che fanno della tutela dei diritti umani un aspetto centrale (e per molti strumentale) della propria politica estera – si aspettano da un proprio alleato. E Marcos ha grande bisogno del sostegno della comunità internazionale, viste le sempre più forti tensioni con la Cina sul mar Cinese meridionale. Manila sta inoltre cercando di essere ammessa nel Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU.

C’è tanto scetticismo anche perché, dopo gli anni di dura repressione sotto l’ex presidente Rodrigo Duterte, con Marcos la situazione riguardo la tutela dei diritti umani nel paese non ha fatto grandi passi in avanti. Per esempio il capo di stato ha difeso il “red-tagging”, cioè la pratica di etichettare gli oppositori come affiliati al Partito Comunista delle Filippine, che è considerata un’organizzazione terroristica. La misura serve proprio a perseguire gli attivisti secondo le dure norme anti-terrorismo. L’8 maggio la corte suprema ha dichiarato il “red-tagging” una pratica che «minaccia la vita, la libertà e la sicurezza degli individui».

Altre cose. Un articolo di Rappler sulle alleanze in vista delle elezioni di metà mandato, che si terranno tra un anno. Sarà interessante vedere se i Duterte resteranno in coalizione con Marcos, mentre l’opposizione resta debolissima. Alcuni sviluppi sulle solite controversie con la Cina sul mar Cinese meridionale, qui. Se ne parla molto, anche se non fanno quasi più notizia, perché le tensioni nell’area rischiano di essere la prima scintilla di un conflitto che potrebbe andare molto oltre la regione.

MYANMAR – IL CENSIMENTO DISTOPICO E LA NUOVA ONDATA DI RECLUTAMENTI FORZATI NELL’ESERCITO

Il numero due della giunta militare, Soe Win, ha dichiarato che nelle prime due settimane di ottobre il regime ha in programma di censire tutta la popolazione del paese. È molto complicato immaginare che l’esercito, che ha perso il controllo di quasi tutte le periferie, possa davvero riuscire a completare le operazioni di censimento: è più probabile che si limiteranno alle zone centrali del Myanmar, ancora governate dalla giunta. Ci si chiede poi come verrà finanziato, visto che l’ultimo censimento nazionale del 2014 venne portato a termine solo grazie agli aiuti internazionali, su cui oggi il regime di certo non può contare. Secondo Frontier, inoltre, il rischio è che le operazioni serviranno in realtà a raccogliere i dati biometrici della popolazione per poi inserirli in un apparato centralizzato, oltre che a iscrivere tutti i cittadini possibili nei registri elettorali (cosa che andrebbe contro la legge del 2013, secondo cui i dati dovrebbero rimanere privati).

Di fatto, il censimento non sarebbe altro che una misura volta a potenziare l’apparato di sorveglianza del regime, che ha fatto del controllo oppressivo della popolazione il suo marchio di fabbrica. È iniziata infatti la seconda ondata di reclutamenti forzati nell’esercito. Se per la prima la giunta aveva predisposto una sorta di “lotteria”, durante la quale si sorteggiavano i ragazzi costretti alla leva obbligatoria, ora i nuovi coscritti vengono rapiti direttamente dalle loro case. Questo perché molti dei sorteggiati della prima ondata sono fuggiti dal paese (o si sono uniti alla resistenza) una volta che era stato estratto il loro nome.

In breve. Sembra che Aung San Suu Kyi ora sia davvero agli arresti domiciliari, scrive l’Irrawaddy, ma restano comunque molti dubbi a riguardo. L’Arakan Army (AA) ha conquistato Buthidaung, vicino al confine con il Bangladesh: è la decima città finita nelle mani dell’AA dall’inizio della sua offensiva di novembre tra Stato Rakhine e Chin. Una variegata delegazione di membri della resistenza ha incontrato alcuni esponenti del governo giapponese, a Tokyo, altri sono andati in Corea del Sud. L’obiettivo è ricercare legittimità internazionale. Si è tenuto a Kunming, in Cina, il quinto round di colloqui mediato da Pechino tra la Three Brotherhood Alliance e il regime: non è stato raggiunto nessun nuovo accordo. La giunta ha incontrato alcuni rappresentanti dell’ASEAN a Naypyitaw (qui per i dettagli).

LINK DALL’ALTRA ASIA

Il presidente iraniano Ebrahim Raisi è morto dopo che l’elicottero che lo trasportava si è schiantato nel nord-ovest dell’Iran, il 19 maggio. A bordo c’era anche il ministro degli Esteri, Hossein Amir-Abdollahian. Secondo le leggi, la presidenza ad interim passa al vice di Raisi, Mohammad Mokhber.

È iniziata l’era di Lawrence Wong, a Singapore. Secondo l’analista Michael Barr, che ne ha scritto su East Asia Forum, il vero problema di Wong sarà quello di non avere alcuna fonte di legittimità oltre al patrocinio dell’ex premier Lee Hsien Loong. È probabile che molti dei vertici del PAP penseranno di essere meglio di lui e questo potrebbe minare la sua leadership, insieme alle tante sfide di cui avevamo parlato qui.

La scorsa settimana ci sono stati violenti scontri in Nuova Caledonia, un territorio d’oltremare francese che si trova nel Pacifico meridionale, a est dell’Australia. Il bilancio è di 4 morti, oltre a centinaia di feriti e arresti. Si protestava contro una proposta di legge che, se approvata a giugno, allargherebbe il diritto di voto agli europei residenti nell’arcipelago da 10 anni (l’attuale legge prevede che servano 20 anni). Parigi ha dichiarato lo stato d’emergenza.

Il primo ministro malaysiano, Anwar Ibrahim, ha incontrato i vertici di Hamas in Qatar, il 14 maggio. Poi in Malaysia c’è stato un attacco alla stazione di polizia Ulu Tiram a Johor: l’attentatore, che sembra aver agito da solo, ha ammazzato due agenti e ne ha ferito un terzo, prima di essere ucciso.

La “nuova” mappa del Nepal, che assegna al paese dei territori contesi con l’India, è stata pubblicata soprattutto per ragioni interne, visto che il governo rischia di cadere (di nuovo).

In Cambogia è stato arrestato un altro membro dell’opposizione. Con il nuovo premier Hun Manet, figlio di Hun Sen, le cose non sono cambiate. Ne avevamo parlato qui.

In Kazakistan l’ex ministro dell’Economia Kuandyk Bishimbayev è stato condannato a 24 anni per avere torturato e ucciso la propria moglie, lo scorso novembre. Ovviamente nel paese se ne è parlato tantissimo. Può ancora fare appello.

A cura di Francesco Mattogno