Imran Khan

Terrorismo, rischio default e “fascismo”. In Pakistan è l’anno delle elezioni

In Asia Meridionale, Economia, Politica e Società by Francesco Mattogno

Un paese sull’orlo del default economico, reduce da un disastro ambientale senza precedenti, vittima del terrorismo e lacerato politicamente: questo è il Pakistan che andrà alle elezioni nel 2023. Le stesse che l’ex primo ministro Imran Khan invoca fin dal giorno della sua caduta ad aprile 2022

“Dieci mesi di governo fascista”. Segue una lista di persone arrestate e torturate, da sommare all’omicidio in Kenya di Arshad Sharif – giornalista vicino all’ex primo ministro pachistano, Imran Khan – e all’attentato di novembre proprio nei confronti di Khan, quando il leader del Movimento per la giustizia del Pakistan (PTI) riuscì a cavarsela “solo” con un colpo da arma da fuoco alla gamba. Poi cospirazione, distruzione dell’economia, della democrazia e dello stato di diritto, insieme all’inazione contro la recente ondata di terrorismo. È ciò di cui sarebbe colpevole l’attuale coalizione di governo del Pakistan, guidata dal premier Shehbaz Sharif, secondo l’autore di questo post: Imran Khan.

Escludendo le particolarità legate all’omicidio di Arshad Sharif e al tentato omicidio dello stesso Khan – entrambi episodi sui quali resta ancora tanto da chiarire -, la retorica del numero uno del PTI è identica, ma rovesciata, a quella dei suoi avversari politici. I partiti di governo considerano Khan un pericolo per la democrazia e responsabile dell’affossamento economico del paese durante i suoi quattro anni al potere, dall’agosto 2018 fino alla mozione di sfiducia dell’aprile 2022. È stato rimosso per via parlamentare dal Movimento democratico pachistano (PDM), alleanza di una dozzina partiti con al vertice la Lega pakistana musulmana (PML-N) di Shehbaz Sharif e il Partito popolare pachistano (PPP) di Bilawal Bhutto Zardari. Mossa che per Khan è stata il frutto di un complotto contro di lui orchestrato dagli Stati Uniti con il benestare dei vertici dell’esercito. Solo il parere negativo della Corte suprema gli ha impedito di rigettare il voto di sfiducia: da quel momento è scontro aperto.

Lo stato di polarizzazione politica del Pakistan, pur con le sue specificità, non è dissimile a quello di altre democrazie in crisi. Ma la crisi pakistana non è solo politica. Mentre le parti si colpevolizzano a vicenda alla ricerca di consenso elettorale in vista delle elezioni di quest’anno, il paese è a rischio default, deve fare i conti con i danni e i profughi causati dalle inondazioni dello scorso agosto, ed è obbligato a rispondere agli attentati del Movimento dei talebani pachistani (TTP). L’ultimo, il 30 gennaio in una moschea di Peshawar, ha causato 101 morti e oltre 200 feriti.

Il ritorno del TTP

Peshawar è il capoluogo della provincia del Khyber Phaktunkhwa, nel nord-ovest del paese e al confine con l’Afghanistan. Proprio la porosità di quel confine ha permesso al TTP (gruppo affiliato ma non parte dei talebani afgani) di fare della provincia l’epicentro della propria battaglia jihadista già a partire dal 2007, anno di fondazione del movimento che ha come scopo ultimo la diffusione della sharia in tutto il Pakistan. Sul piano concreto, oggi l’organizzazione richiede prima di tutto l’annullamento della fusione delle aree tribali (FATA) con la provincia del Khyber Phaktunkhwa, avvenuta nel 2018.

Colpito da una serie di operazioni militari dell’esercito pachistano, per una decina d’anni è sembrato che il TTP avesse perso slancio, dando forse l’illusione della vittoria ai vertici militari e politici di Islamabad. Non è andata così. La ritirata americana dall’Afghanistan nell’agosto 2021 non ha solamente riportato al potere i talebani a Kabul, ma anche dato nuova linfa all’organizzazione degli omologhi pachistani. Invece di rivelarsi un alleato del Pakistan nella lotta al movimento, il nuovo governo afgano ha preferito assumere una posizione di neutralità, complicando dunque i rapporti con Islamabad, già tesi per alcune contese di confine e per l’avvicinamento dell’esecutivo di Shehbaz Sharif agli Stati Uniti.

A maggio dello scorso anno, il governo del PDM – insieme all’esercito e, va detto, alla mediazione di Kabul – era riuscito a strappare un accordo di cessate il fuoco al TTP, dal quale l’organizzazione è uscita unilateralmente a novembre. Da allora gli attacchi sono ricominciati e hanno progressivamente aumentato d’intensità, fino alla strage del 30 gennaio che ha ucciso quasi esclusivamente membri delle forze di polizia, e che una fazione del TTP ha rivendicato prima della smentita del comando centrale. Per il primo ministro Sharif oggi “il terrorismo è la principale sfida di sicurezza nazionale” del paese.

L’economia al collasso

Secondo diversi analisti, tra le ragioni che hanno portato alla nuova ascesa dei talebani pachistani – e di altre organizzazioni terroristiche nel paese, come il Fronte di liberazione del Balochistan – rientra sicuramente la grande debolezza politica ed economica del Pakistan. Al 27 gennaio le riserve di valuta estera di Islamabad ammontavano a circa 3,09 miliardi di dollari: non sufficienti a pagare neanche tre settimane di importazioni, dalle quali dipendono molti settori dell’economia pachistana. Qualche giorno prima, il 23, un blackout su scala nazionale ha lasciato alcune parti del paese senza energia elettrica anche per 16 ore. La versione ufficiale parla di un guasto infrastrutturale, ma c’è il sospetto che di notte il governo spenga le centrali elettriche per risparmiare combustibile.

Nel 2019, l’ex primo ministro Imran Khan aveva stipulato un accordo con il Fondo monetario internazionale (FMI) per un piano di salvataggio da circa 6 miliardi di dollari, a cui era stato aggiunto un altro miliardo a seguito delle inondazioni di agosto 2022 (che hanno causato danni per 30 miliardi di dollari). Il FMI ha poi bloccato l’erogazione dell’ultima tranche di aiuti, chiedendo a Sharif di implementare una serie di riforme strutturali di austerità – già promesse e non mantenute da Khan per non perdere consenso, aggravando l’indebitamento. Tra queste ci sono l’allentamento alle agevolazioni sull’acquisto di carburante e la liberalizzazione del tasso di cambio della rupia pakistana, che si è svalutata di oltre il 20% rispetto alla scorsa estate.

Dal 31 gennaio, alcuni emissari del FMI si trovano in Pakistan per discutere con il governo i termini che porteranno a sbloccare quel miliardo “congelato”. I colloqui finiranno il 9 febbraio ma, stando alle parole di Sharif (“Le condizioni che dovremo rispettare vanno oltre ogni limite dell’immaginazione”), non sarà una bella pubblicità per la sua coalizione. Già da mesi il governo ha ridotto all’essenziale le importazioni e deve fare i conti con l’inflazione arrivata al 27,5% rispetto a gennaio 2022. “Senza accordo, andremo in default”, ha dichiarato l’ex ministro delle Finanze pachistano, Miftah Ismail. E potrebbe non bastare. Per Abid Hassan, ex consigliere della Banca Mondiale, “le cose vanno così male che [un accordo con il FMI] nelle migliori delle ipotesi sarebbe solo un cerotto”.

Per questo Sharif e il nuovo capo dell’esercito, il generale Asim Munir, stanno portando avanti da mesi una serrata attività diplomatica alla ricerca di nuovi finanziamenti, o di dilazioni nei pagamenti dei debiti esteri del paese, dividendosi tra Cina (a cui Islamabad deve oltre il 20% del proprio debito estero), Stati Uniti e paesi arabi. Alla Conferenza internazionale sul Pakistan resiliente al clima del 9 gennaio a Ginevra, un forum delle Nazioni Unite, la comunità internazionale si è inoltre impegnata a fornire più di 9 miliardi di dollari in aiuti per riparare i danni dovuti alle inondazioni. Ma per ora è un impegno che resta su carta.

Verso le elezioni 2023

In questo clima di insicurezza e instabilità, la lotta politica continua. Dopo la sua rimozione dall’incarico, Khan ha spinto ripetutamente per andare a elezioni prima della scadenza naturale della legislatura, prevista ad agosto 2023. Durante la campagna di pressione del leader del PTI, alcune sue dichiarazioni lo hanno portato ad affrontare una serie di accuse, dall’oltraggio alla corte a quelle (poi lasciate cadere) di terrorismo. A ottobre la Commissione elettorale del Pakistan lo ha rimosso dal suo seggio in parlamento per uno scandalo relativo ai regali di stato ricevuti durante il mandato da primo ministro, senza però specificare una più lunga interdizione dalle cariche pubbliche, che gli avrebbe impedito di candidarsi per 5 anni.

In vista delle elezioni Khan si dice fiducioso della vittoria, nonostante sostenga di avere “nemici potenti” e l’intero “status quo politico” contro di lui. A gennaio ha ordinato lo scioglimento delle due assemblee provinciali (su quattro totali del paese) guidate dal PTI, in Punjab e Khyber Phaktunkhwa: in questo modo si dovranno tenere nuove elezioni locali entro aprile. Le due province racchiudono più della metà della popolazione del paese, ed è stata l’ennesima mossa finalizzata a destabilizzare il governo centrale e anticipare la chiamata nazionale alle urne. Il PDM ha resistito ancora una volta.

Il problema per Sharif e la sua coalizione è che Khan si è dimostrato abile nello sfruttare la retorica del complotto e una certa mania di persecuzione per accumulare consenso, traendo il massimo sia da un evento potenzialmente tragico – l’attentato nei suoi confronti – che da alcuni assist del governo o dei tribunali. L’ultimo, l’arresto a fine gennaio di uno dei leader del PTI, Fawad Chaudhry, per alcune sue dichiarazioni contro le istituzioni. Una vicenda gestita molto male dal punto di vista mediatico.

A meno di ribaltoni, il parlamento pachistano verrà sciolto ad agosto e con esso anche il governo. Ne verrà nominato uno provvisorio che manderà il paese alle urne entro due mesi dalla fine della legislatura: quindi, entro ottobre. Il PTI è andato molto bene alle varie elezioni suppletive del 2022 e il PDM, ora costretto a stringere la cinghia dinnanzi alle richieste del FMI, non ha grande margine di manovra per guadagnare popolarità. Recentemente Khan ha rifiutato l’invito di Sharif a partecipare a una conferenza di tutti i partiti, prevista per il 7 febbraio, per discutere di questioni economiche e di terrorismo. È stato forse l’ultimo tentativo per una collaborazione ormai impossibile su tutti i fronti.

A cura di Francesco Mattogno