Khan Bhutto Sharif

Il Pakistan è (di nuovo) nelle mani dell’esercito

In Asia Meridionale, Economia, Politica e Società by Francesco Mattogno

La sempre più evidente presenza dell’esercito in politica è di nuovo la normalità, in Pakistan. La crisi della democrazia pakistana (della quale Imran Khan è più che un complice) è ormai cronica, mentre le dinastie politiche degli Sharif e dei Bhutto hanno stretto accordi coi militari pur di vincere le elezioni. Che sono state rimandate da novembre a gennaio

Per diversi mesi, quasi su base giornaliera, era diventato comune leggere sui media pakistani le notizie relative alle continue defezioni dal Movimento per la Giustizia del Pakistan (Pakistan Tehreek-e-Insaf, PTI). Ovvero il partito populista fondato nel 1996 da Imran Khan, ex campione di cricket ed ex primo ministro del Pakistan dal 2018 al 2022. Si trattava di dimissioni, di politici più o meno noti, accolte anche con un certo grado di divertimento dai sostenitori del PTI, che ne sottolineavano la poca rilevanza a fronte di un partito la cui ascesa sembrava inarrestabile. L’ondata è iniziata il 9 maggiodopo il primo arresto di Khan e le successive violenti proteste del suo elettorato, che hanno portato a morti e feriti – ma non si è mai veramente fermata.

Con il passare delle settimane è diventato sempre più difficile prenderlo per uno scherzo e parlare di allontanamenti spontanei. I vertici del PTI sostengono che l’esercito abbia fatto pressione su dozzine dei membri del partito per spingerli alle dimissioni, ponendogli come alternativa il carcere. «Quello che sta accadendo è il più grande broglio pre-elettorale della storia del Pakistan», ha dichiarato al TIME Zulfi Bukhari, ex ministro del governo Khan oggi in “auto-esilio” a Londra.

Dopo l’arresto e il quasi immediato rilascio di maggio, il 5 agosto Khan è stato condannato a 3 anni per aver venduto dei regali di Stato (per il valore di circa 600 mila dollari) collezionati durante il suo mandato da premier. Una pena alla quale si aggiunge la squalifica per 5 anni dagli incarichi pubblici, che se non verrà ribaltata in appello gli impedirà di candidarsi alle prossime elezioni. Nonostante l’Alta corte di Islamabad abbia sospeso la sentenza, da allora l’ex primo ministro non ha mai lasciato il carcere e nelle prossime settimane è previsto che affronterà almeno un altro processo, relativo alla diffusione di segreti di Stato. Ma le accuse avanzate ne suoi confronti sono decine.

IL FAVORE DELL’ESERCITO

Khan è senza dubbio il personaggio più popolare dell’attuale panorama politico pakistano. L’ultimo, in ordine di tempo, ad aver pensato di poter sfidare i militari sulla base del proprio enorme consenso, e a uscirne (almeno momentaneamente) sconfitto. Fin dalla sua indipendenza, nel 1947, quella pakistana non è mai stata una piena democrazia. L’esercito ha governato direttamente per trent’anni, e quando si è formalmente fatto da parte (l’ultima volta nel 2008) ha sempre tirato le fila della politica da dietro le quinte, influenzando i partiti e la magistratura, e manipolando i risultati delle elezioni quando necessario.

Di fatto, in Pakistan un partito per governare deve godere del sostegno dei militari più che dell’elettorato. Khan ha perso questo sostegno dopo quattro anni al potere, durante i quali ha ristretto progressivamente le libertà civili dei cittadini pakistani (tra censura dei media e repressione dell’attivismo), flirtato con i talebani e la Russia fino a logorare gli storici legami dei militari con gli Stati Uniti, e praticamente distrutto l’economia del paese. Mantenendo però sempre un altissimo tasso di popolarità tra la classe media urbana e impensierendo la leadership dell’esercito con il suo stile di governo filo-autoritario.

Sfiduciato ad aprile del 2022, Khan è stato sostituito da una mega coalizione guidata dalle due dinastie politiche più importanti del Pakistan: la Lega Musulmana del Pakistan-Nawaz (PML-N) degli Sharif, e il Partito Popolare Pakistano (PPP) dei Bhutto. Piuttosto che organizzare una seria opposizione parlamentare all’interno delle istituzioni democratiche, Khan ha aizzato la piazza e aumentato ulteriormente il grado della propria retorica populista, polarizzando il paese. Che ha diviso tra i suoi sostenitori e tutti gli altri: cioè i corrotti. Mentre il nuovo governo di Shehbaz Sharif prendeva decisioni impopolari nel tentativo di risollevare l’economia pakistana (martoriata oltretutto dalle inondazioni dell’estate 2022), e crollava nei consensi anche a causa dell’aumento degli attentati terroristici, il PTI dominava in tutte le elezioni suppletive e si apprestava ad andare a vincere anche quelle generali, previste per la fine del 2023. Poi è arrivato il 9 maggio.

Quando i sostenitori del PTI hanno reagito all’arresto del loro leader assaltando le caserme dell’esercito, il declino di Khan e della democrazia pakistana, che l’ex premier ha contribuito a indebolire, ha subito un’accelerata improvvisa. È diventato infatti sempre più evidente che «i militari non vogliono dare a Khan la possibilità di candidarsi alle elezioni», sostiene l’analista di Foreign Policy ed esperto di Asia meridionale, Michael Kugelman.

UN REGIME IBRIDO

Nonostante le smentite di facciata, la presenza ormai esplicita dei militari in politica è tornata a essere la normalità in Pakistan. La costituzione del paese prevede che a seguito della dissoluzione del parlamento (avvenuta il 10 agosto) si vada a elezioni entro massimo 90 giorni. Il periodo di campagna elettorale viene così affidato a un governo ad interim, neutrale, i cui membri sono nominati di comune accordo tra la maggioranza e l’opposizione. In teoria.

In realtà, gran parte del nuovo esecutivo è composto da politici e tecnocrati vicini all’esercito. Così come è un profilo calato dall’alto quello dell’attuale primo ministro ad interim, Anwaar ul Haq Kakar, spuntato un po’ dal nulla e imposto contro la volontà di Sharif. Kakar era un senatore abbastanza anonimo, rappresentante della provincia del Balochistan, dove ha sempre appoggiato le azioni violente dell’esercito per reprimere il terrorismo islamico e i gruppi separatisti. Di norma quella del premier provvisorio è solo una figura di transizione, ma questa volta, poco prima di lasciare il potere, il governo uscente ha preso una serie di decisioni per rafforzarne ruolo e competenze.

Intanto, pur sapendo che così facendo avrebbe violato la costituzione, Sharif ha fatto approvare il nuovo censimento del paese solo al momento dello scioglimento delle camere, aprendo inevitabilmente a un lungo processo per la ridefinizione dei collegi elettorali. La commissione elettorale ha dichiarato che il procedimento verrà completato ufficialmente a fine novembre, annunciando poi il rinvio delle elezioni, che si terranno l’ultima settimana di gennaio e non entro novembre come previsto dalla legge. Il governo provvisorio non sarà più tanto provvisorio, quindi, ma resterà in carica – senza dover sottostare ad alcun controllo parlamentare – per un minimo di quasi sei mesi.

Dopo lunghe trattative, a luglio il Pakistan ha inoltre firmato con il Fondo Monetario Internazionale (IMF) un piano di salvataggio da 3 miliardi di dollari per sostenere la propria economia. In modo da permettere a Kakar di gestire i colloqui con l’IMF, il governo uscente ha allargato le competenze del primo ministro ad interim anche alle questioni economiche, e non è chiaro se questo gli darà l’autorizzazione per firmare altri accordi internazionali. Sono poi state anche emendate le leggi sull’esercito e sui servizi segreti, ai quali il parlamento ha dato molti più poteri per la repressione del dissenso (si parla di criminalizzazione delle “critiche” ai militari, ad esempio), aprendo così la strada, di fatto, a un regime ibrido civile-militare.

VERSO LE ELEZIONI

Il presidente pakistano Arif Alvi, membro del PTI, ha dichiarato di non aver mai controfirmato le due leggi che rafforzano la presa dell’esercito su politica, giustizia e società civile, e ha accusato il governo di aver falsificato la sua firma pur di approvare gli emendamenti prima della dissoluzione del parlamento. Ha poi sollevato qualche dubbio e preoccupazione l’inaspettato attivismo internazionale di Kakar, che è andato ben oltre il suo ruolo da premier provvisorio parlando di questioni di politica estera all’Assemblea generale dell’Onu a New York e rilasciando una serie di interviste ai media occidentali. Su tutte, hanno fatto scalpore le sue parole all’Associated Press.

Il primo ministro ad interim ha infatti dichiarato che l’ipotesi che i militari manipoleranno il voto è «assurda», e che quelle pakistane saranno elezioni libere ed eque anche senza la partecipazione del politico più popolare del paese, Khan, o dei vertici del PTI. Valutazioni che, secondo diversi osservatori, non dovrebbero competere al suo ruolo. Per legge Kakar non potrà candidarsi alle elezioni di gennaio, alle quali saranno chiamati a votare 127 milioni dei 241 milioni di pakistani registrati secondo il nuovo censimento. Nel 2018 i votanti erano 106 milioni, per 207 milioni di cittadini.

Con il PTI che arriverà alle elezioni decimato e indebolito, ci si aspetta che saranno sempre PML-N e PPP a governare, insieme ai partner minori di coalizione. Ma è presto per parlare di alleanze e nulla può essere dato per scontato. Durante queste prime fasi della campagna elettorale, il leader del PPP, il trentacinquenne Bilawal Bhutto Zardari, ha criticato più volte i vecchi e potenziali alleati, dichiarando che il suo è l’unico partito a volere elezioni «tempestive». Un attacco rivolto in particolare a chi ha proposto di rinviare ulteriormente il voto a marzo, visto che a gennaio farebbe «troppo freddo».

Al di là di tutto quello che ruota attorno a Khan, la notizia politica delle ultime settimane è il ritorno in patria, previsto per il 21 ottobre, dell’ex primo ministro Nawaz Sharif, fratello maggiore di Shehbaz. Anche lui politico molto popolare, è fuggito dal paese nel 2019 dopo essere stato condannato per corruzione e da allora è ufficialmente latitante. Ci sono pareri discordanti su quello che gli accadrà una volta rientrato ma, in caso di grazia, potrà candidarsi e guidare il PML-N alle urne.

Il tutto mentre nel paese si protesta per gli aumenti esponenziali del costo dell’energia elettrica (si contano già diversi suicidi), e si piangono le vittime degli ennesimi attentati, che a fine settembre hanno fatto più di 60 morti nelle province del Balochistan e del Khyber Pakhtunkhwa, al confine con l’Afghanistan. Il Capo di Stato maggiore dell’esercito Asim Munir ha accusato degli attacchi «i nemici del Pakistan», mentre il ministro dell’interno Sarfaraz Bugti ha fatto esplicitamente il nome dell’India. In risposta agli attentati, il governo ha ordinato a tutti i migranti illegali nel paese di andarsene entro novembre. Si ritiene che il provvedimento colpirà circa 1 milione degli afghani presenti in Pakistan. Un altro effetto collaterale dell’instabilità politica che sta mettendo in crisi la democrazia di Islamabad.

A cura di Francesco Mattogno