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L’Altra Asia – L’instabilità del Pakistan, anche dopo il voto

In Asia Meridionale, Sud Est Asiatico by Francesco Mattogno

Alle elezioni in Pakistan non c’è stato nessun chiaro vincitore, e questo potrebbe peggiorare le crisi interne. Il 14 si vota in Indonesia. Poi l’amicizia tra i premier di Thailandia e Cambogia, le critiche internazionali alla giunta militare in Myanmar, Biden vuole cooperare con il Bangladesh e le altre storie da Filippine, Singapore, Malaysia, Laos e Sri Lanka. L’Altra Asia è una rubrica sui paesi meno raccontati del continente

C’è un video che forse riesce a spiegare da solo quanto sia complesso e paradossale l’attuale stato della democrazia pakistana. È il discorso dell’ex primo ministro Imran Khan agli elettori del suo partito, il Movimento per la Giustizia del Pakistan (PTI): «Mi congratulo con tutti voi per aver vinto le elezioni del 2024», dice l’ex campione del mondo di cricket, «credevo fortemente che sareste andati a votare». Khan parla per 1 minuto e 34 secondi, ma in realtà quelle parole non le ha mai pronunciate, non è la sua vera voce: è generata dall’intelligenza artificiale. Il leader del PTI si trova in carcere da agosto e, salvo rare eccezioni, da mesi di lui non si hanno né foto, né video.

Da quando è in prigione, le uniche dichiarazioni pubbliche di Khan sono state rilasciate in tribunale o sono arrivate alla stampa tramite i suoi avvocati. Proprio poco prima delle elezioni, tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio, è stato condannato a un totale di 31 anni di carcere in tre diversi casi giudiziari. Nel frattempo, centinaia di membri del suo partito sono stati arrestati o costretti a dimettersi, migliaia di manifestanti sono stati incarcerati, e ai media pakistani è stato impedito di parlare dell’ex primo ministro. Per mesi il PTI ha denunciato le ingerenze dell’establishment militare nella sua campagna elettorale, che a gennaio ha subito probabilmente il colpo più pesante. A causa di un cavillo tecnico, la corte suprema pakistana ha impedito al PTI di partecipare alle elezioni con il suo simbolo, una mazza da cricket. Questo ha obbligato tutti i suoi candidati a presentarsi come indipendenti.

E alla fine, hanno vinto gli indipendenti.

I risultati del voto

L’8 febbraio in Pakistan sono stati chiamati alle urne circa 128 milioni di cittadini aventi diritto, su 241 milioni di abitanti. Secondo i dati preliminari, l’affluenza si è attestata attorno al 47%. Si votava per eleggere la camera bassa del parlamento federale (l’Assemblea Nazionale) e le assemblee locali delle quattro province del paese (Punjab, Sindh, Khyber Pakhtunkhwa e Balochistan). L’Assemblea Nazionale conta un totale di 336 seggi, ma di questi solo 266 sono eletti direttamente dai cittadini (quindi per ottenere la maggioranza servono di fatto 134 seggi). I restanti 70 vengono redistribuiti in proporzione al risultato dei partiti riservandoli alle donne (60) e alle minoranze religiose (10). Uno dei problemi del PTI è proprio questo: non essendosi presentato formalmente come partito, non avrà diritto alla redistribuzione di questa quota di deputati.

Il grande favorito di queste elezioni era la Lega Musulmana del Pakistan-Nawaz (PML-N), il partito di Nawaz Sharif. Nawaz è stato tre volte primo ministro: condannato per corruzione nel 2018, è scappato dal paese in un esilio auto-imposto nel 2019 ed è infine rientrato in Pakistan a ottobre del 2023 dopo un probabile accordo con l’esercito, che da sempre tira le fila della politica pakistana. Tutti gli osservatori erano concordi nel dire che Nawaz (che nel frattempo è stato assolto da tutte le accuse di corruzione) fosse il “prescelto” dei militari per la formazione di un nuovo governo senza Khan, divenuto ostile all’establishent. Per questo si credeva che, a seguito della dura repressione del PTI, la PML-N avrebbe ottenuto il maggior numero di voti alle elezioni. Non è stato così, e Nawaz ha addirittura perso nella circoscrizione in cui si era candidato per entrare nell’Assemblea Nazionale.

I candidati indipendenti hanno ottenuto 101 seggi, contro i 75 della PML-N e i 54 dell’altro grande partito dinastico, il Partito Popolare Pakistano (PPP) dei Bhutto-Zardari. Quasi tutti i candidati indipendenti (93) – che hanno vinto anche in Punjab e nel Khyber Pakhtunkhwa – sono affiliati al PTI, che è così virtualmente il partito al primo posto. Ma giocando sul fatto che formalmente il PTI non si è presentato alle elezioni, anche Nawaz ha fatto il suo discorso della vittoria, dicendo che la PML-N è stata il partito più votato. Comunque, i risultati delle elezioni sono arrivati molto in ritardo rispetto al previsto: si aspettavano nella prima mattina del 9 febbraio, ma la mattina del 10 in molte circoscrizioni ancora andavano avanti i conteggi. 

Si tratta di un risultato sorprendente per quelle che erano le premesse della vigilia, ma non troppo. Nonostante la sua prolungata assenza dalla scena pubblica, Khan è rimasto sempre in cima ai sondaggi come politico più popolare del paese. L’idea – non troppo velata – era che l’esercito avrebbe “facilitato” la vittoria di Nawaz, non che il PTI, seppur colpito duramente, avrebbe perso nettamente le elezioni. La lentezza nella pubblicazione dei risultati ha infiammato le proteste del partito di Khan, che ha denunciato brogli in un gran numero di circoscrizioni. L’attuale leader del PTI, Gohar Khan (che ha sostituto Imran negli ultimi mesi, non sono imparentati), sostiene che il partito abbia ottenuto in realtà 170 seggi e promette che agirà per vie legali, chiamando intanto i suoi sostenitori a manifestare pacificamente. Il PTI non è l’unico partito a denunciare manipolazioni, e tre persone sono state uccise il 9 febbraio in degli scontri tra i manifestanti e la polizia a Shangla, nel Khyber Pakhtunkhwa.

La commissione elettorale e il governo ad interim hanno respinto le accuse di brogli, giustificando il ritardo nella pubblicazione dell’esito delle elezioni con il blocco delle comunicazioni avvenuto l’8 febbraio. Nel giorno del voto, infatti, Islamabad ha impedito l’accesso a internet e l’utilizzo della rete telefonica in tutto il paese, riabilitandole progressivamente solo verso sera. Il governo ha parlato di una misura di sicurezza antiterrorismo, che però non ha impedito che si verificassero attentati in diverse zone del paese. Alla vigilia delle elezioni sono morte almeno 28 persone in due attacchi in Balochistan, mentre il giorno del voto altre 12 hanno perso la vita (tra cui 2 bambini). Dopo il voto, il comandante dell’esercito, Asim Munir, ha chiesto «unità» ai partiti per evitare «anarchia e polarizzazione».

Rispettando le sue parole, PML-N e PPP hanno già raggiunto un accordo preliminare per formare una coalizione di governo, senza il PTI, «per salvare il Pakistan dall’instabilità». I due partiti, che si sono punzecchiati in campagna elettorale, hanno già governato insieme nell’ultima legislatura, proprio dopo la sfiducia a Khan di aprile 2022. Si trattava di un governo debole e impopolare, ed è complicato pensare che una sua riedizione possa davvero riportare stabilità al paese. Allora il primo ministro era Shehbaz Sharif, fratello minore di Nawaz. Il ruolo di premier potrebbe toccare di nuovo a lui e non per forza a Nawaz, con sullo sfondo la figura di Bilawal Bhutto-Zardari, esponente di spicco del PPP che non va escluso dalla corsa. Grazie al suo ottimo risultato elettorale, il PPP sa di essere un alleato indispensabile per chiunque voglia formare un governo e potrebbe anche imporre un suo primo ministro. 

Intanto, il PTI dice a sua volta di voler formare un governo, ma ha un altro problema: gli indipendenti non sono obbligati a schierarsi dalla parte del partito che li ha sostenuti prima del voto. Già uno di loro, per esempio, ha scelto di passare alla PML-N. È l’ennesimo elemento di incertezza per un paese in grande crisi economica e di sicurezza. Il Pakistan sperava che il voto gli portasse stabilità, ma in realtà Islamabad è uscita dalle elezioni senza un chiaro vincitore, tra accuse di brogli, il rischio di grandi proteste nazionali e un ex leader autoritario che dal carcere, anche senza pronunciare una parola, può ancora vantare un sostegno inarrivabile per i suoi avversari.

INDONESIA – TUTTO PRONTO PER IL VOTO DEL 14 FEBBRAIO

Sabato 10 febbraio è stato l’ultimo giorno di campagna elettorale in Indonesia. Il paese andrà al voto mercoledì 14 per eleggere l’ottavo presidente della sua storia, insieme al vicepresidente e al parlamento. Il grande favorito è l’attuale ministro della Difesa, Prabowo Subianto che, come raccontato settimana scorsa, potrebbe vincere già al primo turno superando il 50% dei voti. Per chiudere la campagna Prabowo e il suo candidato vice, Gibran Rakabuming Raka (il figlio più grande del presidente uscente Joko Widodo), hanno tenuto un comizio davanti a 77 mila persone in uno stadio – tutto esaurito – di Giacarta centrale. Stesso stile da concerto anche per gli altri due aspiranti presidenti, Anies Baswedan e Ganjar Pranowo. Ganjar è il candidato del Partito Indonesiano Democratico di Lotta (PDI-P), cioè il partito del presidente Jokowi, che però sostiene Prabowo e il suo primogenito. Della spaccatura tra Jokowi e il PDI-P si parla da mesi. Durante il comizio di Ganjar la leader del partito, Megawati Sukarnoputri, ha invitato gli indonesiani a «non votare chi imbroglia», riferendosi in particolare al fatto che la corte costituzionale, in modo molto controverso, ha permesso a Gibran (36 anni) di candidarsi alla vicepresidenza nonostante non avesse i requisiti minimi di età per farlo (40 anni).

Emanuele Giordana, giornalista di Atlante Guerre e Lettera 22, ritiene che ci siano due elementi in particolare da tenere d’occhio in vista delle elezioni. Questo è quello che ha scritto per la newsletter di China Files (per sapere come ottenerla, clicca qui):

«Il primo elemento da considerare è che alcuni partiti mostrano una solidità che va oltre i loro esponenti politici di rilievo. È il caso del PDI-P di cui Megawati (figlia di Sukarno) è presidente e dove il capo di stato uscente Jokowi si è creato una carriera politica. Le scelte di entrambi in occasione del voto hanno reso insoddisfatta la base del partito, che però sembra comunque voler restare fedele a principi e valori che la gente non vuole dimenticare. Stupisce anche la longevità del Golkar, la “balena gialla” indonesiana così compromessa con la famiglia del dittatore Suharto che si pensava potesse sparire. La seconda cosa è che la varietà del sentimento religioso in Indonesia ne fa un paese dove le linee della spiritualità si intersecano e si contaminano. Positivamente. Quanto tutto questo inciderà sul risultato del 14 febbraio resta da vedere, ma ciò fa di questa giovane democrazia un modello interessante di convivenza e dibattito politico, e trasmette dunque una speranza: quella che la sua adolescenza possa trasformarsi in una maturità che potrebbe avere molto da insegnarci».

THAILANDIA – NUOVE CONDANNE, NUOVE ACCUSE

Le cose non vanno benissimo per il leader del Move Forward, Pita Limjaroenrat. Dopo la sentenza della corte costituzionale che potrebbe portare allo scioglimento del partito (qui per i dettagli), il 7 febbraio Pita e altri esponenti di spicco del Movimento Progressista sono stati condannati a 4 mesi di carcere, con pena sospesa per due anni, e a una multa di 20.200 baht (500 euro) per aver organizzato un flash mob nel 2019.

Sempre sul fronte giudiziario, l’ex premier Thaksin Shinawatra rischia di essere accusato di lesa maestà per un’intervista rilasciata ai media sudcoreani nel 2015. Thaksin, fondatore del Pheu Thai, è rientrato da un esilio auto-imposto di 15 anni lo scorso 22 agosto e da allora sta scontando la sua pena a 1 anno (commutata dai precedenti 8) in un ospedale di Bangkok. Nei prossimi giorni potrebbe uscire in libertà vigilata.

Intanto, presto potrebbe essere vietato l’uso ricreativo della cannabis. È già pronto un disegno di legge per sistemare la normativa adottata nel 2022 che ha rimosso la marijuana dalla lista delle sostanze illegali senza però specificarne in modo chiaro i limiti d’utilizzo.

Il ministro dell’Educazione thailandese Permpoon Chidchob ha detto che ammira la disciplina che la Corea del Nord impone ai suoi giovani. «È uno scherzo?», hanno commentato diverse persone sui social.

La Thailandia sta intensificando gli sforzi per risolvere la crisi in Myanmar, ha detto al Nikkei il viceministro degli Esteri, Sihasak Phuangketkeow. Bangkok invierà degli aiuti umanitari e istituirà un centro al confine con la Birmania per fornire assistenza, ma il piano, stipulato in sede ASEAN, non convince tutti. In un primo momento a beneficiare degli aiuti umanitari saranno 20 mila birmani, ma per l’ONU sono oltre 18 milioni quelli che avrebbero bisogno di sostegno.

CAMBOGIA – HUN MANET IN THAILANDIA, IL “BABY DITTATORE”

Il 7 febbraio il primo ministro cambogiano Hun Manet si è recato in visita in Thailandia per incontrare l’omologo e “amico”, Srettha Thavisin (che qualche settimana fa ha detto di parlare regolarmente con Hun su Whatsapp). Phnom Penh e Bangkok hanno elevato le proprie relazioni al rango di partenariato strategico, firmando inoltre 5 Memorandum of Understanding, in particolare su commercio e investimenti. Uno dei risultati più importanti del vertice è l’impegno a imbastire dei colloqui tra le parti per l’esplorazione congiunta di un’area di 26 mila chilometri quadrati del Golfo della Thailandia che rivendicano entrambi i paesi, e che si ritiene ricca di gas e petrolio. Qualcuno ha anche criticato Hun definendolo un «traditore» per aver raggiunto questo compromesso. I due primi ministri si sono poi rassicurati a vicenda, promettendo di non interferire nei reciproci affari interni.

La Thailandia ha arrestato 6 attivisti per la democrazia cambogiani nelle ultime due settimane, 3 di loro proprio durante la visita di Hun Manet. Il Diplomat lo ha definito un “baby dittatore“, mentre Teav Vannol, presidente del Candlelight Party, principale partito di opposizione, ha detto al Nikkei che «non c’è democrazia in Cambogia». Ne avevamo parlato qui. Critiche a parte, a marzo Hun Manet andrà in Australia alla ricerca di investimenti.

MYANMAR – LE CONDANNE DELL’ONU E DI AMNESTY INTERNATIONAL

Quella appena trascorsa è stata una settimana non semplice per il regime militare a livello internazionale. L’8 febbraio, 9 dei 15 membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (tra loro non ci sono Russia e Cina) hanno chiesto alla giunta di smetterla con gli attacchi indiscriminati sui civili. Il 5 febbraio l’esercito ha bombardato due scuole nello Stato Karenni (Kayah), uccidendo almeno 4 bambini. L’UNICEF ha condannato l’attacco, le cui modalità non sono nuove al conflitto in Myanmar. Il 9 febbraio Amnesty International ha chiesto al Consiglio di Sicurezza ONU di indagare sui bombardamenti nella regione del Sagaing che lo scorso 7 gennaio avevano fatto 17 morti, tra cui 9 bambini. Mentre aumentano le sanzioni occidentali al Myanmar, soprattutto di Stati Uniti e Unione Europea, la giunta ha mandato dei suoi rappresentanti non politici a un incontro tra ministri degli Esteri ASEAN e UE a Bruxelles. L’8 febbraio, intanto, l’India ha sospeso tutti i liberi spostamenti lungo il suo confine con il Myanmar.

Sul campo, l’esercito birmano continua a registrare perdite nello Stato Rakhine e non solo, ma sta facendo passi in avanti per riconquistare Kawlin. La città, che si trova nel Sagaing, è importante a livello simbolico perché è stata la prima a cadere dalle mani della giunta per opera delle People’s Defence Forces (PDF), le truppe del governo in esilio (NUG). Intanto il regime ha imposto la leva obbligatoria ai giovani uomini tra i 18 e 35 anni, e donne tra i 18 e i 27 anni (qui per maggiori dettagli). La scorsa settimana è stato anche pubblicato un video, girato a novembre, nel quale due ribelli ventenni vengono bruciati vivi dai soldati dell’esercito dopo essere stati torturati e appesi a un albero.

BANGLADESH – BIDEN DICE DI VOLER COLLABORARE CON IL NUOVO (VECCHIO) GOVERNO

Uno dei problemi internazionali degli ultimi giorni per la giunta birmana è legato al Bangladesh. Il 5 e 6 febbraio, a seguito di alcuni scontri nel Rakhine tra l’Arkan Army e i soldati del regime, circa 30 colpi di mortaio sono stati sparati oltre confine, in Bangladesh. Sono morte due persone. Non è chiaro chi abbia sparato, ma in Bangladesh sono fuggiti oltre 300 membri dell’esercito birmano. Dhaka ha protestato e ha mandato indietro i soldati.

Intanto il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha mandato una lettera alla prima ministra Sheikh Hasina, fresca di rielezione. Biden le ha chiesto di «lavorare insieme per una nuova fase delle relazioni bilaterali», senza menzionare le critiche all’ultimo processo elettorale, ritenuto dagli osservatori né libero, né equo. Washington ha interesse a mantenere buoni i rapporti con Dhaka per evitare che finisca sotto l’influenza russa o cinese, scrive Michael Kugelman.

Nelle ultime settimane i sostenitori dell’opposizione bangladese stanno portando avanti un boicottaggio dei prodotti provenienti dall’India (“India out”). Il primo ministro indiano Narendra Modi è accusato di aver interferito nella politica interna di Dhaka per mantenere Hasina al potere: ne ha parlato Al Jazeera.

LINK DALL’ALTRA ASIA

Nuovo capitolo dello scontro Marcos-Duterte nelle Filippine. Il presidente Ferdinand Marcos Jr. ha dichiarato che, al contrario di quanto sostenuto dal suo predecessore Rodrigo Duterte, vuole emendare solo i paragrafi della costituzione che regolano l’economia del paese e non quelli che riguardano il sistema politico filippino, dicendo poi all’ex alleato ha di evitare le minacce di secessione di Mindanao. Intanto, la Cina ha detto a Manila di «non giocare col fuoco» in risposta alle intenzioni filippine di rafforzare la propria presenza militare nelle isole del paese più vicine a Taiwan.

Nel suo discorso alla vigilia del capodanno lunare, il primo ministro di Singapore, Lee Hsien Loong, ha chiesto alle coppie di etnia cinese di fare figli in questo anno del drago, che porta bene. Singapore ha uno dei tassi di fecondità più bassi dal mondo: nel 2022 è sceso a 1,04 figli per donna.

In Malaysia il parziale perdono dell’ex premier Najib Razak (qui per maggiori dettagli) ha aumentato le tensioni nella coalizione di governo. L’analisi dello Straits Times.

In Laos fa discutere il progetto di costruzione di una diga vicino alla città storica di Luang Prabang, sito patrimonio UNESCO. Ci sono problemi ambientali e di sicurezza. 

Dopo essere stato arrestato, si è dimesso il ministro dell’Ambiente dello Sri Lanka, Keheliya Rambukwell. Fino allo scorso ottobre era ministro della Sanità e proprio mentre rivestiva quel ruolo, secondo l’accusa, avrebbe stipulato dei contratti per la fornitura di farmaci contraffatti: nel 2022 lo Sri Lanka è andato in default sul debito e per molti mesi ha risentito della carenza di medicinali.

A cura di Francesco Mattogno