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L’Altra Asia – Se la Thailandia fosse un paese normale

In Asia Meridionale, Sud Est Asiatico by Francesco Mattogno

La sentenza della corte costituzionale thailandese della scorsa settimana potrebbe essere il primo atto verso lo scioglimento del Move Forward, il partito progressista che ha ottenuto più seggi alle ultime elezioni in Thailandia. Poi tre anni dal golpe militare in Myanmar, 31 anni di carcere all’ex premier Imran Khan in Pakistan, il “mezzo” perdono di Najib Razak in Malaysia (che ha un nuovo re), e le elezioni in Indonesia che potrebbero decretare un vincitore già al primo turno. L’Altra Asia è una rubrica sui paesi meno raccontati del continente

Lo scorso maggio, una volta arrivati i risultati delle elezioni e accertata la netta, indiscutibile e per molti sorprendente vittoria del Move Forward, c’era una frase che più delle altre riecheggiava tra i commentatori politici thailandesi, lasciata in sospeso: “Se fossimo un paese normale…”. Il non detto era chiaro. Se la Thailandia fosse stato un paese normale, o comunque una piena democrazia, dopo il voto si sarebbe formato un governo di coalizione progressista guidato dal Move Forward e dal suo leader, Pita Limjaroenrat, così come aveva deciso la maggioranza relativa degli elettori.

Non è andata così. Le vicende della politica thailandese sanno essere tanto “pazze” e imprevedibili, quanto a volte scontate, già scritte. E alla fine hanno avuto ragione gli scettici. Il Move Forward è finito all’opposizione, tradito dal Pheu Thai (partito secondo classificato che si è alleato con le sue storiche nemesi: l’esercito e i partiti pro-establishment), e anzi, sia per gli arancioni che per il loro leader sono iniziati i guai giudiziari. La commissione elettorale ha presentato alla corte costituzionale due casi. Nel primo si accusava Pita di aver violato la legge elettorale in quanto intestatario di alcune azioni di una vecchia rete di informazione, iTV, però defunta dal 2007: il 24 gennaio il tribunale ha decretato che il fatto non sussiste permettendo a Pita di tornare in parlamento, da cui era stato sospeso a luglio.

Nel secondo caso si chiedeva alla corte di valutare se il Move Forward, proponendo prima in parlamento e poi in campagna elettorale di depotenziare la legge sulla lesa maestà, avesse cercato di rovesciare il sistema di monarchia costituzionale. La cosiddetta “legge sulla lesa maestà” è in realtà un articolo contenuto all’interno del codice penale thailandese, il numero 112. Si tratta di una delle norme più dure al mondo contro le critiche alla famiglia reale: prevede fino a 15 anni di carcere per ogni capo d’accusa, e negli ultimi anni secondo i critici è stata utilizzata strumentalmente per punire più di 250 attivisti e manifestanti per la democrazia, minorenni compresi.

Alla vigilia della sentenza, Thanathorn Juangroongruangkit, leader del Movimento Progressista e fondatore del Future Forward (il partito predecessore del Move Forward poi sciolto nel 2020 dalla corte costituzionale), aveva dichiarato, come in un déjà-vu: «Se il potere legislativo non può emendare una legge, allora c’è qualcosa di fuori dall’ordinario in questo paese». Al di là dell’ottimismo di facciata, le sensazioni erano le stesse dello scorso maggio. Il 31 gennaio, all’unanimità (9 favorevoli e 0 contrari), la corte costituzionale ha dichiarato il Move Forward colpevole di aver violato l’articolo 49 della costituzione, che recita che «nessuno ha il diritto di rovesciare il sistema di governo con il re a capo dello stato». Nelle motivazioni della sentenza si legge che, attraverso la sua campagna politica per emendare l’articolo 112 del codice penale, il partito avrebbe avuto come «secondo fine» quello di indebolire l’istituzione monarchica, metterla «contro il popolo» e separarla dalle istituzioni statali, e quindi di fatto di rovesciare il sistema.

La decisione del tribunale ha aperto a una serie di domande e preoccupazioni, in particolare riguardo la separazione dei poteri. La corte ha dichiarato che non si può cercare di emendare la legge tramite «mezzi extraparlamentari», senza però spiegare cosa significhi esattamente, obbligando il Move Forward a interrompere ogni attività politica, anche online, che riguardi la modifica dell’articolo 112. Di fatto il potere giudiziario mette così dei limiti alla libertà di parola e all’attivismo, impedendo ai partiti di fare campagna per pubblicizzare le proprie proposte legislative. O almeno lo vieta per quelle riforme che riguardano leggi connesse all’identità costituzionale del paese. Lo stesso presidente del parlamento, Wan Muhamad Noor Matha, ha detto che per ora non è chiaro se si potrà più anche solo discutere di lesa maestà alla camera.

Intanto, lo scioglimento del Move Forward sembra sempre più vicino. All’indomani della sentenza sono state presentate quattro diverse petizioni per chiedere la dissoluzione del partito e la squalifica a vita dei 44 deputati che a marzo del 2021 avevano proposto alla camera di rivedere l’articolo 112 del codice penale. A riceverle sono state due organi diversi: due sono arrivate alla commissione elettorale, e due alla commissione nazionale anti-corruzione (NACC).

La commissione elettorale ha il potere di chiedere alla corte costituzionale lo scioglimento di un partito in base all’articolo 92 della legge sui partiti, che prevede questa possibilità proprio quando è stato accertato che una forza politica (come in questo caso il Move Forward) abbia violato l’articolo 49 della costituzione. Se la petizione verrà passata alla corte e se il tribunale ne accerterà la colpevolezza, dunque, il Move Forward verrà dissolto e i suoi massimi dirigenti potrebbe ricevere una squalifica fino a 10 anni dalla politica. Tra loro c’è anche Pita Limjaroenrat, anche se ora non è più il leader formale del partito.

La NACC invece dovrà valutare se i 44 deputati incriminati abbiano commesso delle «violazioni etiche» (uno degli standard etici che un politico deve rispettare riguarda la protezione della monarchia). Se sì, il caso passerà a una divisione della corte suprema che a sua volta, se accetterà il caso, dovrà giudicare se squalificare a vita dalla politica i 44 membri del Move Forward. È un procedimento contorto ma meno irto di ostacoli di quanto sembri. Anche in questa occasione, Pita è tra coloro che rischiano di non avere più il diritto di candidarsi.

Il Move Forward si dice pronto al peggio. I suoi vertici hanno dichiarato che il processo sarà lungo e che, anche in caso di scioglimento e squalifiche, ci sarà tempo per formare un nuovo partito e una nuova generazione di leader, come è stato dopo la fine del Future Forward. Il partito sta costruendo attorno a sé sempre più consenso e finanziamenti: nel 2023 ha ricevuto 52,5 milioni di baht in donazioni (1,3 milioni di euro) contro i 16 milioni (400 mila euro) del Pheu Thai, al secondo posto. È difficile che i suoi sostenitori spariranno presto. In un paese normale, sarebbe da mesi il partito al potere.

THAILANDIA – ARRESTATI TRE ATTIVISTI CAMBOGIANI, ASPETTANDO HUN MANET

Oltre che della sentenza della corte costituzionale, in questi giorni in Thailandia si è parlato anche di dove estradare 7 membri della band rock russa Bi-2 che erano stati fermati dalla polizia dopo un concerto a Phuket perché non avevano i regolari permessi di lavoro. Alla fine il governo li ha mandati in Israele (4 di loro sono cittadini israeliani) e non in Russia, come si temeva.

Sabato sono poi stati arrestati tre attivisti cambogiani. Uno di loro (Kung Raiya) è un ex membro del Candlelight Party, scrive CNA: anche in questo caso il governo deve decidere se estradarli. Dello stato della democrazia di Phnom Penh ne avevamo parlato la scorsa settimana. Tra l’altro il primo ministro cambogiano Hun Manet è atteso in Thailandia il 7 febbraio per una visita di stato.

MYANMAR – TRE ANNI DAL COLPO DI STATO

Sono passati 1.099 giorni dal colpo di stato militare del 1° febbraio 2021 in Myanmar. Per quasi tre anni l’esercito birmano ha ucciso senza sosta i suoi stessi civili, li ha incarcerati, bombardati e ha bruciato sistematicamente le loro case nella totale indifferenza della comunità internazionale e delle opinioni pubbliche mondiali. Dopo 1.099 giorni si parla di 4.474 morti civili, più di 25 mila arresti, quasi 80 mila case bruciate, 2,3 milioni di sfollati, 12,9 milioni di persone in stato di insicurezza alimentare. Ma l’indignazione per il golpe birmano è durata poco, offuscata da crisi che sembravano ogni volta più urgenti, non trascurabili, forse perché più vicine. Dall’Afghanistan a Gaza, passando per l’Ucraina.

Per quasi tre anni la guerra civile in Myanmar (a cui hanno fatto compagnia altri conflitti dimenticati: Tigrai, Yemen, Sudan, per citarne qualcuno) ha perso costantemente la battaglia per l’attenzione dei grandi media internazionali, condizione che ha permesso al regime militare di Min Aung Hlaing di circondarsi di quell’aura di inevitabilità che si è portato dietro fino al 27 ottobre 2023. Poi è cominciata un’altra storia.

La grande offensiva nello Stato Shan, l’Operazione 1027, ha cambiato il corso degli eventi e riportato il mondo a parlare di “Birmania”. Le numerose vittorie degli eserciti dei tre gruppi etnici riuniti nella Three Brotherhood Alliance (3BHA) – che prima del cessate il fuoco siglato a inizio gennaio hanno conquistato 16 città nello stato di confine, situato nel nord-est del paese – hanno dato nuovo vigore alla resistenza in tutto il Myanmar. L’Arakan Army (AA), parte della 3BHA, continua a conquistare porzioni di territorio nello Stato del Rakhine, così come avanzano le forze karenni (Operazione 1111) nello Stato Kayah, mentre le truppe del governo in esilio (NUG) cercano di farsi strada nelle zone centrali del paese. Il 31 gennaio, alla vigilia dell’anniversario del golpe, la giunta non ha avuto altra scelta che estendere per altri sei mesi lo stato di emergenza e rinviare le elezioni, promesse da quasi due anni.

L’esercito – che controlla saldamente il centro del paese e che ancora dispone di un arsenale superiore ai ribelli – non ha mai smesso di uccidere, ma sta perdendo soldati, armi, basi, città, sostegno e alleati. L’ultima defezione importante riguarda la Karen State Border Guard Force che, diventando neutrale, ha tolto alla giunta il controllo su buona parte dello stato Karen, al confine con la Thailandia. Per continuare a esistere, il regime ha capito di dover scendere a compromessi sia sul fronte interno (potrebbe cercare un estetico rimpasto di governo) che internazionale, dove i rapporti con la Cina si sono fatti più tesi. È in quest’ottica che va vista la decisione del Myanmar di accettare di inviare un suo funzionario amministrativo e non politico – come aveva sempre richiesto dal golpe – alla ministeriale ASEAN in Laos del 28 e 29 gennaio.

Da tre mesi, seppur con tutte le dovute cautele, parlare di un futuro senza l’esercito al potere non è più utopia. Ma che futuro? Il NUG e alcuni dei suoi gruppi etnici alleati continuano a proporre l’istituzione di uno stato federale, sistema di cui si discute fin dall’indipendenza dai britannici nel 1948. Ma il NUG non gode di un supporto totale ed è complicato credere che, una volta rovesciata la giunta, tutte le organizzazioni etniche armate abbandoneranno le armi e le porzioni di territorio conquistate per tornare sotto uno stato centrale guidato da politici di etnia Bamar (birmana), per quanto federalista.

Il rischio è che la fine della guerra al regime militare possa tradursi nell’inizio di altri conflitti, quelli per l’indipendenza di alcuni gruppi etnici. Le tensioni etnico-culturali caratterizzano da sempre la storia del territorio che oggi viene chiamato Myanmar e non vanno sottovalutate. Serviranno impegni per la pace a lungo termine, l’instaurazione di un quadro di dialogo davvero rappresentativo di tutte le minoranze a lungo ignorate dal potere centrale birmano. Intanto, lo sviluppo più significativo è che, a tre anni dal colpo di stato, il futuro del Myanmar potrebbe non essere più solamente nelle mani dell’esercito.

PAKISTAN – TRE SENTENZE IN UNA SETTIMANA: 31 ANNI A IMRAN KHAN

Il sistema giudiziario pakistano ha iniziato a colpire sul serio l’ex primo ministro Imran Khan, che in pochi giorni ha ricevuto tre condanne a un totale di 31 anni di carcere. Il leader del Movimento per la Giustizia del Pakistan (PTI) è detenuto dallo scorso agosto con più di un centinaio di accuse a suo carico. Il 30 gennaio è stato condannato a 10 anni insieme al suo ex ministro degli Esteri, Shah Mehmood Qureshi, per aver reso pubblico un cablogramma riservato nel quale c’era scritto che, all’inizio del 2022, l’allora ambasciatore pakistano negli Stati Uniti, Asad Majid Khan, aveva incontrato un alto funzionario del Dipartimento di Stato americano. Per Khan era la prova che Washington e l’esercito pakistano stessero architettando la sua rimozione dal ruolo di primo ministro.

Il giorno seguente, 31 gennaio, l’ex campione di cricket e sua moglie, Bushra Bibi, hanno poi ricevuto una condanna a 14 anni per corruzione, a cui va aggiunta una multa da 2,8 milioni di euro ciascuno e 10 anni di squalifica dalla possibilità di rivestire cariche pubbliche per Khan. La coppia, secondo un tribunale speciale che ha dovuto riesaminare il caso (per cui Khan era stato precedentemente condannato a 3 anni, con pena poi sospesa), avrebbe comprato e successivamente rivenduto senza dichiararlo alcuni dei regali di stato ricevuti durante il mandato da primo ministro del leader del PTI. La sentenza è stata pronunciata con così tanta urgenza che il giudice non ha nemmeno aspettato l’ingresso in aula dei legali di Khan, che aveva lasciato il tribunale come segno di protesta per non aver potuto rilasciare un’ultima dichiarazione.

Il 3 febbraio, infine, sono stati comminati altri 7 anni all’ex premier e a sua moglie per essersi sposati durante il periodo di “Iddah”. Cioè un lasso di tempo che le donne musulmane divorziate o rimaste vedove sono tenute a rispettare prima di risposarsi. Secondo Khan, questa sentenza ha il solo scopo di umiliarlo e rovinargli la reputazione. Intanto, scrive l’analista Joshua Kurlantzick, ai media pakistani sembra sia stato vietato di parlare approfonditamente delle vicende giudiziarie dell’ex premier.

In passato la società civile pakistana si è unita per protestare contro gli abusi di potere dell’esercito, che controlla da sempre la democrazia di Islamabad, ma in questo caso nessuno fuori dal PTI si è mosso per difendere Khan. Probabilmente sia per il suo passato da premier autoritario e disprezzante dei diritti civili, sia perché i suoi avversari politici stanno traendo vantaggio dalla situazione. Khan è considerato ancora il politico più popolare del paese e, con il PTI davvero in corsa, né il PML-N degli Sharif né il PPP dei Bhutto-Zardari avrebbero avuto grandi chance di vincere le elezioni, in programma l’8 febbraio. In Pakistan non è raro che i politici risorgano da situazioni analoghe a quelle di Khan, che farà ricorso in appello a tutte le sentenze, ma per ora la sua carriera politica sembra al capolinea.

MALAYSIA – DIMEZZATA LA PENA DELL’EX PREMIER NAJIB RAZAK

Il 2 febbraio la Commissione per la grazia della Malaysia ha annunciato di aver dimezzato la pena dell’ex primo ministro Najib Razak, in carcere da agosto del 2022 dopo che nel 2020 era stato condannato a 12 anni per corruzione all’interno dello scandalo 1MDB. La pena di Najib si riduce quindi a 6 anni, una condizione che gli permetterà di chiedere la libertà vigilata già il prossimo anno: secondo la legge malaysiana un detenuto può infatti richiedere di uscire dal carcere dopo aver scontato metà della sua condanna. Se la domanda avrà esito positivo, nel 2026 Najib lascerà la sua cella nella prigione di Kajang. La notizia non è stata accolta benissimo dai cittadini. L’ex premier era stato condannato per aver prelevato illegalmente almeno 8,79 milioni di dollari da SRC International, una sussidiaria del fondo sovrano malaysiano 1MDB da cui fino al 2016 sono stati sottratti illegalmente nel corso degli anni 4,5 miliardi di dollari. A Najib è stata anche ridotta la multa da pagare allo stato: da 210 milioni di ringgit (41 milioni di euro) a 50 milioni di ringgit (9,7 milioni di euro).

Secondo i critici, dietro il suo perdono parziale ci sarebbe l’attuale premier, Anwar Ibrahim, interessato a ricevere il supporto attivo di Najib e della sua fazione interna all’UMNO per mantenere in piedi il governo e attrarre più voti dalle persone di etnia malese. Anwar nega. La Commissione per la grazia, composta da 5 membri e presieduta dal sovrano malaysiano, si è riunita lo scorso 30 gennaio (in quei giorni era anche circolata la voce che Najib potesse essere graziato completamente). Ad avere il potere di concedere la grazia è il re, in quanto capo dello stato. E il dimezzamento della pena di Najib è stato uno degli ultimi atti da sovrano del sultano Abdullah di Pahang.

La Malaysia è una monarchia costituzionale e nel paese esiste un sistema di rotazione della figura del re tra i leader delle 9 famiglie reali del paese, che si avvicendano al trono ogni 5 anni. Il 31 gennaio è finito il mandato del sultano Abdullah di Pahang ed è iniziato quello del sultano Ibrahim Iskandar di Johor. Il ruolo del re è largamente cerimoniale, anche se negli ultimi anni di instabilità politica la figura del sovrano ha guadagnato sempre più importanza. Il sultano Ibrahim Iskandar di Johor è noto per la sua personalità eccentrica: miliardario, imprenditore, collezionista di auto, moto, jet privati. È anche l’unico sultano ad avere un suo esercito.

INDONESIA – PRABOWO POTREBBE VINCERE AL PRIMO TURNO

Domenica in Indonesia si è tenuto l’ultimo dibattito tra i tre candidati alla presidenza. È stato un confronto particolare: nessuno ha attaccato gli avversari, e il grande favorito Prabowo Subianto si è scusato per avere offeso durante la campagna elettorale gli altri due aspiranti alla presidenza, Ganjar Pranowo e Anies Baswedan. Secondo un sondaggio recente, Prabowo potrebbe superare il 50% dei voti alle elezioni del 14 febbraio. Se così fosse, non si andrebbe al ballottaggio previsto a giugno nel caso in cui nessuno dei tre candidati raggiungesse la maggioranza assoluta al primo turno. Si tratterebbe di un risultato considerato inatteso solamente fino a poche settimane fa. Intanto, il ministro della Sicurezza Mahfud MD, candidato vicepresidente di Ganjar, si è dimesso dal suo ruolo in polemica con il presidente Joko Widodo, accusato di stare usando le istituzioni statali per favorire la corsa di Prabowo (che ha scelto come vice Gibran Rakabuming Raka, figlio di Jokowi).

Infine una notizia di politica estera. Israele si sta opponendo all’ingresso dell’Indonesia nell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) a causa delle critiche di Giacarta alla guerra a Gaza, dove dal 7 ottobre l’esercito israeliano ha ucciso più di 26.000 abitanti della Striscia. Tra Indonesia – paese a maggioranza musulmana – e Israele non esistono relazioni diplomatiche.

[Delle elezioni in Indonesia parleremo più approfonditamente nelle prossime settimane, anche con un e-book dedicato in uscita dopo il voto]

LINK DALL’ALTRA ASIA

Sempre a tema Indonesia, i profili dei tre candidati presidenti realizzati dal Nikkei: Prabowo Subianto, Ganjar Pranowo, Anies Baswedan. Qui quello di CNA sul candidato vice di Prabowo, Gibran.

Nelle Filippine è ufficialmente scontro aperto tra il presidente Ferdinand Marcos Jr. e il suo predecessore ed ex sostenitore, Rodrigo Duterte. Reuters racconta qui gli ultimi sviluppi.

A maggio l’India avrà ritirato completamente le sue truppe dalle Maldive (una prima parte se ne andrà a marzo), con cui vuole però mantenere buoni rapporti diplomatici. Collegato alla questione, l’opposizione al presidente maldiviano Mohamed Muizzu sta lavorando a un impeachment.

L’intervista del Diplomat a Nomin Chinbat, ministra alla Cultura della Mongolia, in cui si parla di democrazia e del futuro economico del paese.

Una delegazione cinese si è recata in Nepal per rafforzare i rapporti tra Pechino e Kathmandu: qui un resoconto.

A cura di Francesco Mattogno