Partito Comunista Vietnam dati biometrici

L’Altra Asia – La raccolta di dati biometrici e digitali, per il Vietnam che verrà

In Asia Meridionale, Sud Est Asiatico by Francesco Mattogno

In Vietnam i cittadini potranno (o forse dovranno) fornire i propri dati biometrici per le nuove carte d’identità, mentre aumenta la repressione dell’attivismo. Il summit ASEAN in Australia, gli aggiornamenti dal Myanmar (e dall’Italia), il cambio di governo in Nepal, il nuovo presidente in Pakistan, i soliti Shinawatra in Thailandia e i consigli di lettura. L’Altra Asia è una rubrica sui paesi meno raccontati del continente

Dal 1° luglio il ministero della Sicurezza Pubblica vietnamita inizierà a raccogliere i dati biometrici dei cittadini maggiori di 14 anni: scansione dell’iride, campioni della voce, DNA. Tutte queste informazioni finiranno sulla carta d’identità di ogni adulto presente in Vietnam e saranno consultabili tramite la lettura di un QR Code, facilitando così «le funzioni e i compiti» delle varie agenzie governative. Di fatto, tutti gli organi statali avranno accesso a una banca dati nazionale nella quale verranno catalogate le informazioni biometriche della popolazione, che i funzionari potranno consultare quando sarà necessario risalire all’identità di un individuo. La misura riguarderà 70 milioni di vietnamiti, ma potrebbe estendersi, per chi lo vorrà, anche ai minori tra i 6 e i 14 anni (il ministero vorrebbe proporla anche agli stranieri). Per implementarla occorrerà quindi uno sforzo burocratico di un certo rilievo, giustificato dal fatto che servirà a garantire «lo sviluppo del paese», ha detto il viceministro della Sicurezza Pubblica, Nguyen Duy Ngoc.

La raccolta dei dati biometrici fa parte di un emendamento alla Legge sull’identificazione dei cittadini ratificato dall’Assemblea Nazionale lo scorso 27 novembre, e infine approvato dal primo ministro Pham Minh Chinh negli ultimi giorni di febbraio. Come riportato dal The Register, la norma prevede che siano i cittadini a presentare «volontariamente» le proprie informazioni biologiche, ma non è chiaro se ci si potrà davvero rifiutare di aggiornare la propria carta d’identità, almeno non quando sarà scaduta. La nuova legge, infatti, cambia anche lo scopo stesso della carta d’identità, che diventerà una sorta di raccoglitore di tutta una serie di documenti e dati personali: assicurazione sanitaria, patente, certificato di nascita, certificato di matrimonio e così via. Tutto racchiuso in un’unica, comoda tessera, insieme al proprio gruppo sanguigno e alle altre informazioni biometriche.

Nell’epoca dei deepfake e dei nuovi strumenti di intelligenza artificiale non è difficile immaginare il danno che potrebbe causare un eventuale hackeraggio della banca dati nazionale. Così come, nonostante l’apparente praticità del nuovo sistema, fa discutere che il Partito Comunista del Vietnam (CPV) possa avere accesso a delle informazioni che potrebbero rendere molto più pervasivo il suo controllo sulla popolazione. Il 1° marzo Project88, una ONG che si occupa della situazione dei diritti umani in Vietnam, ha denunciato la pubblicazione da parte del Politburo del CPV della cosiddetta “Direttiva 24”, emanata lo scorso luglio. Secondo l’organizzazione, la Direttiva 24 definisce un pericolo per la sicurezza nazionale tutte quelle «forze ostili e reazionarie» che potrebbero entrare nel paese a causa della sua maggiore apertura internazionale.

Hanoi sta infatti rafforzando tutta una serie di rapporti diplomatici e commerciali, sia a livello regionale che globale. Due mesi dopo la presunta pubblicazione della Direttiva 24, il presidente americano Joe Biden ha visitato il Vietnam e innalzato le relazioni diplomatiche tra Washington e Hanoi al rango di partenariato strategico globale, cioè il livello più alto. A dicembre è stata la volta del presidente cinese Xi Jinping, che nella capitale vietnamita ha firmato 36 documenti di cooperazione e accolto il Vietnam nella visione cinese di una “comunità dal futuro condiviso”. Pochi giorni fa, durante l’incontro ASEAN a Melbourne, il premier Chinh ha firmato un partenariato strategico globale anche con l’Australia, che si è unita così al “club” assieme a Cina, Russia, India, Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti, appunto.

Il Vietnam è corteggiato sia dal “Nord” che dal “Sud” globale, e ha buoni rapporti di facciata con tutti, come previsto dalla “bamboo diplomacydelineata dal segretario generale del CPV, Nguyen Phu Trong. Radici forti, tronco robusto e rami flessibili: è questa la ricetta vietnamita per avere quanti più amici possibile, e dunque meno rivali. Nonostante le sue storiche relazioni (non senza alti e bassi) con Mosca e Pechino, ultimamente Hanoi si sta posizionando sempre più al “centro”, forte del suo essere diventata un polo di attrazione per le aziende tecnologiche che stanno iniziando a trasferire la produzione lontano dalla Cina a seguito delle tensioni commerciali tra Pechino e Washington, e che sono sempre più interessate al Sud-Est asiatico. Con le opportunità di sviluppo economico occidentale, però, il CPV vede arrivare anche possibili minacce alla sua leadership.

La Direttiva 24 mette in guardia i funzionari del partito riguardo eventuali «attività di sabotaggio e [tentativi] di trasformazione politica interna», evidenziando il rischio di «manipolazione e dipendenza da forze esterne» derivante da una maggiore integrazione economica con l’occidente. L’obiettivo è reprimere ogni possibile minaccia al monopolio della leadership sul potere. All’atto pratico, con la direttiva si sarebbe deciso di rafforzare il monitoraggio nei confronti di qualunque organizzazione o movimento pro-democrazia, vigilando dunque anche sui finanziamenti stranieri a gruppi della società civile. Particolare attenzione viene inoltre posta alle controversie lavorative: con il potenziamento della sicurezza nelle zone industriali, la Direttiva 24 avrebbe imposto la sorveglianza di tutte le attività dei sindacati, limitandone il raggio d’azione. Quest’ultima disposizione sarebbe in aperto conflitto con la Convezione 87 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sui diritti dei lavoratori, che il Vietnam dovrebbe ratificare nel corso del 2024.

Project88 ha detto di non poter verificare l’autenticità della direttiva, ma ha fatto notare come parti del documento trapelato siano effettivamente riportate in vari discorsi dei funzionari di partito, che negli ultimi anni ha rafforzato la repressione nei confronti della società civile. Secondo Human Rights Watch, attualmente ci sono almeno 163 attivisti in carcere in Vietnam, dove fare giornalismo e informazione è sempre più pericoloso. Entro quest’anno potrebbe essere rilasciato un nuovo decreto per rafforzare il controllo su tutte le attività online, che avrebbe come scopo quello di colpire in particolare gli “influencer” accusati di diffondere informazioni «false» o «distorte» su internet.

Intanto, a fine febbraio il governo di Ho Chi Minh City ha lanciato un software (“Social Beat”) finalizzato a raccogliere dati dai profili social di tutti i suoi cittadini (22 milioni di account) per «creare una visione generale delle tendenze di internet» e dunque aiutare le autorità a «gestire e plasmare l’opinione pubblica (…) monitorando le informazioni sulle forze ostili che sfruttano il web». Il rischio è che si possa tradurre in una nuova forma di repressione della libertà di parola e di opinione.

ASEAN – GLI INCONTRI IN AUSTRALIA E IN LAOS, TRA ECONOMIA E DIFESA

Dal 4 al 6 marzo a Melbourne si è tenuto il summit speciale ASEAN-Australia, volto a celebrare i 50 anni di relazioni di dialogo tra Canberra e l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico. Al vertice hanno partecipato tutti i leader ASEAN (meno la giunta del Myanmar, che ha mandato un rappresentante non politico) e il primo ministro di Timor Leste, Xanana Gusmão. Si è trattato del primo summit di questo tipo dal 2018, nonché di un tentativo da parte del premier australiano Anthony Albanese di concretizzare la sua politica di “ASEAN centrality”, dimostrando l’impegno dell’Australia a dare seguito a varie promesse di maggiore coinvolgimento nella regione. L’impegno australiano è soprattutto economico. Il risultato più significativo del vertice è stata infatti l’istituzione di un fondo da 2 miliardi di dollari australiani (1,3 miliardi di dollari americani) per sviluppare il commercio e gli investimenti nel Sud-Est asiatico. Le questioni economiche sono state al centro anche dei 55 punti della dichiarazione finale congiunta, dove si è fatto però anche qualche accenno alla cooperazione in materia di sicurezza e di contrasto al crimine internazionale, quest’ultimo punto in riferimento soprattutto al “mercato” delle truffe online che negli ultimi anni ha preso piede in Myanmar, Cambogia e Laos. Infine, è stato anche chiesto il cessate il fuoco a Gaza.

L’Australia sta cercando di porsi come una media potenza in grado di contribuire alla pace e alla prosperità dell’Asia-Pacifico, scrive l’analista Prashanth Parameswaran. Ma la realtà è che gli investimenti diretti esteri australiani verso il Sud-Est asiatico rappresentano solo il 3% del totale (di cui il 2,2% va solo a Singapore e Timor Leste) e che Canberra sembra molto più spostata verso il sistema di alleanze americano, piuttosto che rappresentare un centro di influenza a sé stante. Quasi tutti i suoi finanziamenti nell’area riguardano questioni commerciali, come dimostrano i soli 42 milioni di dollari da destinare in quattro anni alla sicurezza nel Mar cinese meridionale: troppo pochi per contare davvero qualcosa.

Nel frattempo, il 5 marzo si è tenuto anche un incontro tra i ministri della Difesa ASEAN a Luang Prabang, in Laos. Visto il complesso panorama internazionale, tra il conflitto in Ucraina e la crisi umanitaria a Gaza dovuta all’assedio israeliano, il blocco sta considerando l’ingresso di nuovi membri nel quadro di dialogo sulla Difesa ASEAN (ADMM-Plus) che si estende già a otto paesi che non fanno parte dell’Associazione, cioè Stati Uniti, Cina, Australia, India, Giappone, Nuova Zelanda, Russia e Corea del Sud. Presto potrebbero aggiungersi almeno Francia, Regno Unito e Canada. Come da oltre tre anni a questa parte, la guerra civile in Myanmar ha rappresentato una delle questioni più importanti in agenda. Secondo le Nazioni Unite, sono 18,6 milioni le persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria nel paese, ma l’ASEAN finora è riuscita a fare molto poco per favorire un processo di pace. All’incontro a Luang Prabang, per la seconda volta dopo la ministeriale degli esteri di gennaio, il Myanmar ha mandato un suo rappresentante non politico, Zaw Naing Win (direttore generale del Dipartimento Affari Internazionali del ministero della Difesa).

MYANMAR – ACCORDI, BOMBE, YAKUZA, ITALIA

Oltre al meeting in Laos, la giunta militare birmana (SAC) ha mandato il suo incaricato d’affari in Australia, Thet Tun, alla conferenza sul clima e sull’energia pulita che si è tenuta all’interno del summit ASEAN a Melbourne. Il regime di Min Aung Hlaing sta cercando come può di trovare legittimità internazionale, ma nel frattempo continua a bombardare i suoi stessi civili e a perdere terreno sul campo di battaglia a vantaggio delle organizzazioni etniche armate (EAO). Il 7 marzo è cominciata una grande offensiva da parte del Kachin Independent Army (KIA) e dei suoi alleati (Arakan Army e le People’s Defence Forces Kachin, cioè le milizie regionali del governo in esilio) nello Stato Kachin. Secondo quanto affermato dal KIA, i ribelli avrebbero già conquistato almeno dieci basi militari a Momauk, mentre avanzano in altre cittadine limitrofe. La giunta ha riposto come suo solito, cioè con i bombardamenti, e si dice che almeno tre bombe siano cadute sul territorio della Repubblica popolare cinese, ma non ci sono conferme.

Nei giorni scorsi, intanto, la giunta ha rinnovato l’accordo di cessate il fuoco con la Three Brotherhood Alliance (3BHA), l’alleanza di tre EAO che ha conquistato circa due dozzine di città nello Stato Shan, al confine con la Cina. I colloqui si sono tenuti ancora una volta a Kunming, mediati dalle autorità cinesi. Non si conoscono i dettagli, ma sembra che il SAC abbia riconosciuto alla Myanmar National Democratic Alliance Army (MNDAA) l’autorità sulla Regione Speciale 1, un territorio interno allo Stato Shan. Tra gli altri punti, le parti avrebbero deciso di salvaguardare gli interessi della Cina, condividere il gettito fiscale ai valichi di frontiera (questa ipotesi viene smentita dal regime), di ritirare le truppe dalle prime linee e che l’esercito conceda tutto il territorio conquistato dalla 3BHA. In un’apparente contraddizione, la giunta ha però imposto la legge marziale in 3 città controllate dall’alleanza. La 3BHA ha criticato duramente la decisione, dicendo che rischia di minare gli accordi presi a Kunming, mentre per l’Irrawaddy non si tratta altro che di una mossa del regime per «salvare la faccia», mostrando di controllare territori sui quali invece non può fare nulla.

Altre grandi storie birmane di queste settimane:

  • Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha accusato un presunto leader della Yakuza (l’organizzazione criminale giapponese più famosa al mondo), Takeshi Ebisawa, di aver venduto uranio e plutonio all’Iran. Ebisawa ha detto di aver acquistato i materiali per produrre armi nucleari dal Restoration Council of Shan State (RCSS), una EAO Shan ritenuta vicina al regime militare.
  • La giunta ha detto che, almeno per ora, le donne e gli studenti saranno esentati dalla leva obbligatoria. I primi 5 mila coscritti che dovranno entrare nell’esercito a partire da aprile, intanto, sono già stati selezionati.
  • Una storia che riguarda l’Italia. Justice for Myanmar ha chiesto a Roma di sanzionare Rachel Tayza – il cui vero nome è Htoo Htwe Tay Za – in quanto figlia di Tay Za, un trafficante di armi per conto dell’esercito birmano la cui azienda (Htoo Group of Companies) è già sotto sanzioni dell’Unione Europea e non solo. Rachel, che ha studiato moda in Italia, controllerebbe in prima persona alcune attività della famiglia. La sua banca italiana è la Banca Nazionale del Lavoro, di proprietà di BNP Paribas. Maggiori dettagli sulla vicenda li ha Fabio Papetti, che ne ha scritto su Irpi Media.
[Non è sempre scorrevole citare per esteso tutte le fonti contenute nei link. Ma, visto il grande lavoro svolto dai siti di informazione birmani, è giusto ricordare che (oltre alle comunicazioni dirette delle EAO) le principali piattaforme in lingua inglese sulle quali si basa spesso questa rubrica sono: The Irrawaddy, Democratic Voice of Burma, Frontier Myanmar, Myanmar Now. Global New Light of Myanmar è invece il principale quotidiano in lingua inglese di propaganda del regime militare]

 

NEPAL – ALTRO GIRO, ALTRO GOVERNO

In Nepal si è insediato il terzo governo in circa un anno e mezzo, ovvero dalle elezioni del novembre 2022. Si conferma così la “tradizione” di un paese che dal 2008 (anno in cui è finita la monarchia e iniziata la fase repubblicana) ha cambiato più di una dozzina di esecutivi e che non sembra riuscire a trovare stabilità politica. Il primo ministro Pushpa Kamal Dahal, leader del Partito Comunista di Centro Maoista (CPN-MC), ha rotto la coalizione con il Congresso Nepalese (NC) e si è alleato nuovamente con il Partito Comunista Marxista-Leninista Unificato (CPN-UML) di Khadga Prasad Sharma Oli, insieme ad altri partiti minori. Oli e Dahal, conosciuto anche con il suo nome di battaglia “Prachanda”, hanno da sempre un rapporto conflittuale che ha prodotto un’alternanza disorientante di unioni e scissioni politiche. I due Partiti Comunisti avevano già formato un governo a seguito delle elezioni del 2022, caduto poco dopo.

Dahal ha accusato il NC di aver ostacolato la rimozione di tre ministri che, secondo il premier, non stavano svolgendo bene il loro lavoro. Per il Congresso invece «Dahal è un disonesto che ha tradito tutti i partiti più volte». Le coalizioni politiche in Nepal nascono e cadono con grande rapidità: tutti possono allearsi con tutti e nonostante le etichette di “comunismo” e “socialismo”, da tempo le questioni ideologiche non sono più al centro del sistema di potere del paese.

PAKISTAN – ASIF ALI ZARDARI NOMINATO PRESIDENTE PER LA SECONDA VOLTA

Dopo la nomina di Shehbaz Sharif a primo ministro (qui per maggiori dettagli), il Pakistan ha anche un nuovo presidente: Asif Ali Zardari, eletto dalle assemblee nazionali e provinciali il 9 marzo. Definito da Dawn come una sorta di “Machiavelli”, la storia di Zardari è una di quelle tipicamente pakistane e di conseguenza molto interessanti (qui il ritratto di Dawn, qui quello di Arab News). Padre di Bilawal Bhutto Zardari, attuale leader del Partito Popolare Pakistano (PPP), Zardari è da tempo al centro della scena politica di Islamabad. Nel 1987 ha spostato Benazir Bhutto, l’unica donna premier del paese. Bhutto ha servito per due mandati (1988-1990 e 1993-1996) prima di essere uccisa nel 2007, quando cercava la terza rielezione. Zardari ha fatto da ministro degli Investimenti del secondo governo di Benazir, finendo arrestato per corruzione pochi istanti dopo la caduta dell’esecutivo e restando in carcere 11 anni (senza mai una vera condanna). Già negli anni precedenti al suo arresto era considerato un punto debole per il PPP e si era macchiato di altri presunti reati, ma il trasporto emotivo dei pakistani per la morte di sua moglie gli ha consentito di diventare presidente per la prima volta nel 2008.

Le cose notevoli del suo primo mandato (2008-2013) sono state due: l’uccisione nel 2011 di Osama Bin Laden (nascosto in Pakistan) da parte degli Stati Uniti, e il passaggio di una riforma costituzionale che ha tolto allo stesso presidente gran parte dei suoi poteri. Zardari, per prevenire una nuova presa del potere da parte dell’esercito, ha reso il ruolo molto più cerimoniale. Si dice che il nuovo presidente abbia la fama del “deal maker”, perché gran parte degli accordi politici degli ultimi anni passano per le sue mani, compreso quello per la formazione del nuovo governo, al quale il PPP darà solo appoggio esterno per non finire risucchiato nelle tante sfide che dovrà affrontare l’esecutivo di Shehbaz. Crisi economica, terrorismo, problemi infrastrutturali, polarizzazione politica. Il Pakistan è tutt’altro che stabile.

Qui un’analisi sul lascito controverso del presidente uscente Arif Alvi, cofondatore del Movimento per la Giustizia del Pakistan (PTI) guidato da Imran Khan.

Un’altra cosa rilevante: Maryam Nawaz, figlia di Nawaz Sharif e già vicepresidente della Lega Musulmana del Pakistan-Nawaz (PML-N), è diventata primo ministro della provincia del Punjab in quella che sembra a tutti gli analisti un passaggio simbolico di testimone. Con suo zio Shehbaz primo ministro, gli Sharif hanno consolidato la propria eredità politica. Maryam è la prima donna a ricoprire la carica.

THAILANDIA – UN ALTRO PASSO VERSO IL RITORNO DI YINGLUCK SHINAWATRA

Il 4 marzo la corte suprema thailandese ha assolto Yingluck Shinawatra da un’altra delle accuse a suo carico, ritenendola non colpevole di abuso di potere per non aver rispettato delle regole di assegnazione di alcuni bandi pubblici durante il suo mandato da primo ministro (2011-2014). A dicembre la stessa corte l’aveva scagionata da un’accusa simile. Su di lei pende ancora una condanna a 5 anni, sempre riguardante alcune presunte irregolarità che avrebbe commesso nel suo periodo da premier, insieme a un altro caso ancora aperto. Difficile quindi capire se tornerà in Thailandia, che ha lasciato nel 2017 imponendosi un auto-esilio per evitare il carcere, esattamente come suo fratello Thaksin. Entrambi sono stati estromessi dal potere attraverso un colpo di Stato dell’esercito (2006 e 2014) e poi accusati, secondo molti pretestuosamente, di corruzione, abuso di potere e altri illeciti. Il presunto accordo dei Shinawatra con l’esercito ha permesso a Thaksin di rientrare a Bangkok ad agosto del 2023: da allora non ha scontato neanche un giorno della sua pena in carcere. Il fatto che l’ex premier sia già in libertà vigilata continua a suscitare molte polemiche nel paese.

Intanto, il primo ministro Srettha Thavisin, già impegnato in Australia dal 4 al 6 marzo, ha cominciato il suo viaggio in Europa, dove resterà fino al 14 marzo visitando Germania e Francia.

LINK DALL’ALTRA ASIA

Hun Sen è il nuovo presidente del Senato, in Cambogia. Ad agosto l’ex premier aveva lasciato il posto a suo figlio Hun Manet dopo 38 anni al potere, restando però presidente del Partito Popolare Cambogiano (CPP). Ora è di nuovo all’interno delle istituzioni e, per quanto cerimoniale, ricopre ufficialmente il ruolo di seconda carica dello Stato.

La nuova Indonesia di Prabowo Subianto preoccupa dal punto di vista della stabilità finanziaria. Il futuro presidente (entrerà in carica a ottobre) ha in mente un programma da 29 miliardi di dollari per fornire pranzi gratuiti a tutti gli studenti del paese, cioè 80 milioni di persone, e ha detto che non ci sarebbero problemi ad aumentare il rapporto debito-PIL dall’attuale 40% al 50%. Inoltre la rispettata ministra delle finanze del governo di Joko Widodo, Sri Mulyani Indrawati, verrà rimpiazzata.

Un articolo da leggere di Emanuele Giordana su Lettera 22, direttamente da Timor Leste (o Timor Est). Giordana ha intervistato il primo ministro Xanana Gusmão e raccontato alcuni degli aspetti centrali da tenere in considerazione quando si parla di questa piccola democrazia. Un paese giovane e soprattutto molto interessante.

In Malaysia c’è un po’ di fermento da settimane per la svalutazione della moneta locale, il ringgit. Il primo ministro Anwar Ibrahim ha detto che la situazione è «sotto controllo» e negli ultimi giorni le cose sembrano essere migliorate, ma il livello di attenzione sul tema resta alto.

Nelle Filippine è iniziato il dibattito parlamentare riguardo l’approvazione o meno dei cambiamenti da apportare alla costituzione.

A cura di Francesco Mattogno