elezioni Nepal

In Nepal insieme ai vecchi partiti resta anche l’instabilità politica

In Asia Meridionale, Economia, Politica e Società by Francesco Mattogno

Nonostante manchino ancora i risultati definitivi, le elezioni del 20 novembre in Nepal presentano già due dati certi: l’affluenza ai minimi storici e il protrarsi della fase di instabilità politica del paese, dovuta a vecchi partiti e a nuove (fragili) alleanze

A distanza di oltre due settimane dalle elezioni, in Nepal continua a regnare l’incertezza. Il 20 novembre, 18 milioni di nepalesi (su 30 milioni di cittadini totali) sono stati chiamati a rinnovare i 275 seggi della camera dei rappresentanti e le sette assemblee provinciali per la seconda volta sotto la nuova costituzione del 2015, ma non sono ancora arrivati i risultati definitivi del voto.

A rallentare il conteggio ci hanno pensato un po’ il sistema elettorale misto (il maggioritario semplice “First Past The Post” assegna 165 seggi, i restanti 110 vengono distribuiti col proporzionale), e un po’ le inefficienze logistiche, insieme ad alcuni episodi di violenza. Il voto è stato ostacolato in quattro distretti e a Bajura, a seguito di uno scontro con il personale di sicurezza, sono state uccise due persone. Un dato è stato chiaro fin da subito, però. Quello dell’affluenza.

Si è recato alle urne non più del 61% dei cittadini. Non solo rappresenta un calo rispetto al 68% registrato nel 2017, ma si tratta anche dell’affluenza più bassa registrata dal 1986. È una percentuale che riassume la disillusione che pervade larga parte dell’elettorato nepalese nei confronti dei vecchi partiti, rappresentanti di quella politica tradizionale e un tempo ideologica che ha promesso tanto, e ottenuto poco. Il cinismo elettorale ha fatto il resto, spingendo i leader a cercare alleanze di convenienza piuttosto che fondate su programmi e idee comuni. Una scelta le cui conseguenze stanno alla base dell’instabilità post-voto.

I RISULTATI (PARZIALI)

Il futuro del Nepal è stato messo in mano a due coalizioni. Quella di governo, formata dal Congresso nepalese (NC) dell’attuale premier Sher Bahadur Deuba, dal Partito comunista nepalese di centro maoista (CPN-MC) di “Prachanda” Dahal e dal Partito comunista nepalese socialista unificato (CPN-US) di Madhav Kumar Nepal, insieme ad altri due partiti minori. E quella di opposizione del Partito comunista nepalese marxista-leninista unificato (CPN-UML) di KP Sharma Oli, alleato con il Partito democratico nazionale (RPP), filo-monarchico, e con il Partito socialista popolare (JSP).

Dalle urne non è uscito nessun vero vincitore. Mentre ancora si calcolano i seggi portati dal proporzionale, il maggioritario ne ha garantiti 57 al NC contro i 44 del CPN-UML, ma il resto dell’alleanza di governo non ha raccolto quanto aveva previsto. Maoisti e socialisti unificati sono riusciti a far eleggere un totale di 28 deputati, rispettivamente 18 e 10. Un risultato che, sommato a quello del proporzionale (che per poco più di 100 mila voti premia il CPN-UML come primo partito davanti al NC), non permette a Deuba e i suoi di conquistare gli almeno 138 seggi necessari per la maggioranza. Anche perché i socialisti unificati non hanno raggiunto la soglia di sbarramento del 3%, perdendo così la propria quota di redistribuzione. Qui entrano in gioco le sorprese.

Sulla scia delle elezioni locali di maggio – che già avevano premiato i candidati indipendenti – anche in questa tornata nazionale molti nepalesi hanno abbandonato la vecchia leadership a favore di profili nuovi, più giovani. Il vero exploit è stato quello del Partito nazionale indipendente (RSP) dell’ex presentatore televisivo Rabi Lamichhane. L’RSP, creato a luglio, ha vinto in 7 collegi uninominali e raccolto 1 milione di voti al proporzionale, quarto partito dietro solo a NC, CPN-UML e di poco al CPN-MC.

Lamichhane è però accusato di aver usato dei documenti d’identità scaduti, con i quali si sarebbe candidato alle elezioni e avrebbe ottenuto il passaporto nepalese. Su di lui è stata aperta un’indagine, potrebbe rischiare il carcere e la revoca del suo posto alla camera. Questo, insieme alla vaghezza del programma dell’RSP, pone il partito in una posizione più defilata rispetto ad altri nel provare a determinare da quale coalizione sarà formato il nuovo governo.

IL MERCATO DEI SEGGI

Oltre alla vittoria di 5 candidati indipendenti, va registrato anche il buon risultato ottenuto dal monarchico RPP (7 seggi e quinto al proporzionale) e da due piccoli movimenti che correvano da soli: il Partito della libertà popolare (NUP) e il Partito dell’opinione pubblica (JPP), che insieme potrebbero garantire quella decina di deputati fondamentali a Congresso e maoisti per formare la maggioranza. È già iniziata la fase delle trattative, il mercato dei parlamentari. Complicato da tensioni interne alla coalizione – e agli stessi partiti – di governo.

Deuba si pone come legittimo futuro primo ministro, ma il partito del Congresso non è unito sulla questione. L’attuale premier viaggerebbe verso il suo sesto mandato e c’è chi chiede un rinnovamento (ci sono almeno sei profili interni che si sono proposti per prendere il suo posto). Inoltre, prima del voto Deuba e il leader maoista, Dahal, avevano un accordo per spartirsi il ruolo da primo ministro durante i cinque anni di legislatura. Ma se Dahal vuole che il patto sia rispettato, lo scarso risultato elettorale ottenuto dal suo partito sta facendo vacillare l’esponente del NC.

In mezzo a queste contese stanno provando a inserirsi i marxisti-leninisti di Oli. Il leader comunista si è praticamente offerto a tutti, dicendosi aperto sia alla possibilità di formare un esecutivo con Congresso o maoisti, sia a un eventuale appoggio esterno. Nonostante le ripetute promesse di mantenere intatta la coalizione, il 3 dicembre gli stessi maoisti hanno dichiarato di “non escludere nessuna opzione” in vista della formazione del futuro governo. Ma anche su questo il partito sembra diviso.

Dopo 13 governi diversi in 16 anni “qualsiasi tipo di matrimonio di convenienza è possibile”, ha dichiarato l’analista Anil Sigdel a Foreign Policy. Ed è di questo opportunismo politico, già evidente in passato, che paiono essersi stancati gli elettori nepalesi. Partiti tutti uguali (a cominciare dal nome) che si scindono e si ricompongono per poi scindersi di nuovo. Cambia poco anche in politica estera: a eccezione dei marxisti-leninisti, un po’ più spostati verso la Cina, domina da tradizione il non-allineamento. Le elezioni del 20 novembre hanno dimostrato che i candidati giovani possono sconfiggere la vecchia leadership, ma è presto per parlare di un cambiamento, vista anche la probabile scarsa rappresentanza parlamentare di donne e minoranze. Per ora il futuro del Nepal e la sua (in)stabilità politica restano nelle mani dei partiti tradizionali e dei loro giochi di potere.

A cura di Francesco Mattogno