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Africa rossa – Se i media cinesi parlano africano

In Africa Rossa, Relazioni Internazionali by Alessandra Colarizi

Dalla cooperazione mediatica a quella spaziale; dal commercio di prodotti agricoli all’estrazione di minerali; dalla costruzione di ferrovie a quella di basi militari. Le ultime sui rapporti Cina-Africa nella rubrica a cura di Alessandra Colarizi.

I temi nell’ultimo numero:

  • SE I MEDIA CINESI PARLANO AFRICANO
  • RAGGIUNTO ACCORDO SUL DEBITO DELLO ZAMBIA, IL FMI SEMPLIFICA LE PROCEDURE PER I PRESTITI
  • L’ANGOLA INVITA LA CINA A COSTRUIRE UNA BASE AEREA
  • “PROGETTI PICCOLI E BELLI”, ANZI UTILI
  • ALTRO CHE AVOCADI. IL COMMERCIO CON L’AFRICA CRESCE GRAZIE AI MINERALI
  • IL SENSO DI PECHINO PER L’EGITTO
  • OLEODOTTO UGANDESE: C’E’ L’ENDORMSEMENT DI XI
  • DALL’HARDWARE AL SOFTWARE
  • LA VITTORIA DEL CONGO SUI MINERALI
  • I CASCHI BLU CINESI LASCIANO LA RDC
  • “VIETATO L’INGRESSO AI CANI E AGLI AFRICANI”

37 sono gli uffici dell’agenzia Xinhua in Africa;  500 i giornalisti impiegati dai media cinesi in Kenya; 10.000 i villaggi africani dove la cinese StarTimes sta installando parabole satellitari per fornire il digitale terrestre. Da quando nel 2006 la Xinhua ha inaugurato il suo quartier generale africano a Nairobi nel 2006, la presenza mediatica della Cina nel continente è cresciuta a dismisura. CGTN, China Daily e China Radio International hanno aperto a loro volta uffici di corrispondenza. Nel frattempo la strategia mediatica cinese è cambiata: l’ingerenza è diventata più sofisticata. Se un tempo la maggior parte dei giornalisti impiegati in Africa era di nazionalità cinese, oggi gli organi di informazione di Pechino assumono prevalentemente professionisti locali. Ogni anno migliaia di reporter africani vengono formati in Cina, grazie alle borse di studio erogate, tra gli altri, dal China Africa Press Center e dal Belt and Road Journalists Network. Programmi simili tesi a trasferire know how interessano anche altri settori, a partire dalla cooperazione agricola. Trattandosi di giornalismo, tuttavia, il training in Cina non è escluso abbia finalità meno altruistiche della “rivitalizzazione rurale”.

Secondo Paul Nantulya, autore di una lunga analisi per l’Africa Center for Strategic Studies, servendosi di una faccia o di una firma africana la propaganda cinese punta a edulcorare la propria presenza nel continente. Diversi giornalisti al loro ritorno nel continente hanno dichiarato di aver ricevuto la richiesta – più o meno esplicita – di fornire una copertura positiva degli interessi cinesi in Africa. Per mettere in cattiva luce quelli altrui, i social media restano il canale più pratico per diffondere fake news. Il problema è ben noto anche alle nostre latitudini. Le difficoltà economiche del settore mediatico rendono difficile dire di no alle collaborazioni prezzolate: gli organi di informazione cinesi pagano profumatamente supplementi, forniscono attrezzature tecniche all’avanguardia, e acquistano partecipazioni nelle principali società mediatiche africane.

L’investimento è stato ben ripagato? Mica tanto. In Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro, spiego come la penetrazione dei media cinesi in Africa sia stata frenata dalla contestuale ascesa di un giornalismo locale di qualità. Di conseguenza, l’impatto dell’informazione “made in China” è stato notevolmente ridotto, anche se resta forte per quanto riguarda la reperibilità di notizie sugli altri paesi. La verità è che la propaganda cinese fa breccia prevalentemente tra l’establishment africano ma molto poco tra la popolazione. Lo dimostrano gli ultimi sondaggi di Afrobarometer, secondo i quali gli africani non sembrano per nulla persuasi dal modello politico cinese. L’esatto contrario:  il 71% dei rispondenti preferisce la democrazia, ritenuta la migliore forma di governo; circa l’80% rifiuta il governo monopartitico e l’autocrazia mentre l’82% è contrario ai regimi militari. Questo non vuol dire che l’influenza cinese sia in generale percepita negativamente. Il 63% degli intervistati dice di avere un giudizio positivo del paese asiatico. È un giudizio che però difficilmente risente della narrazione propagata dai media cinesi. Sono molto più probabilmente gli investimenti e il contributo economico allo sviluppo del continente il vero soft power cinese. 

RAGGIUNTO ACCORDO SUL DEBITO DELLO ZAMBIA, IL FMI SEMPLIFICA LE PROCEDURE PER I PRESTITI

“Lo stigma finanziario che vede lo Zambia inadempiente sta ora scomparendo. I cinesi hanno collaborato e hanno accettato di ristrutturare questi dati in modo da poter andare avanti”. In una recente al Wall Street Journal il ministro delle Finanze dello Zambia Situmbeko Musokotwane commentava così il raggiunto accordo con i creditori per ristrutturare il debito: quello “acquisito dalla Cina era davvero troppo alto” ha specificato l’economista aggiungendo che in futuro il paese africano – il primo ad aver dichiarato default all’inizio della pandemia – cercherà nuovi metodi di finanziamento, a partire dai Partenariati Pubblici Privati (PPP). 

La saga del debito zambiano è così forse (lo diciamo a denti stretti) giunta alla fine. Secondo i dati più recenti, il governo di Lusaka ha raggiunto accordi con i creditori ufficiali e gli investitori in eurobond per rinegoziare 10,1 miliardi di dollari delle sue passività. Dalle parole di Musokotwane sembra che il traguardo sia ormai vicino anche per i restanti 3,3 miliardi dovuti ai creditori commerciali, di cui 1,9 miliardi reclamati dagli istituti cinesi, quali China Development Bank (CDB) e Industrial and Commercial Bank of China. Ma a differenza degli obbligazionisti (gli investitori in eurobond), i creditori cinesi non concederanno tagli sull’importo del debito. Come in altre situazioni la ristrutturazione pare interesserà solo una revisione dei tassi di interesse e tempi più dilatati per ripagare quanto dovuto. Una pratica consolidata che in passato non ha mancato di far discutere. Va detto che il caso dello Zambia si distingue per complessità dal momento che la composizione delle passività (contratte con soggetti commerciali, bilaterali e privati) ha richiesto essere negoziati separati con ciascuno dei creditori. Motivo per cui il prolungamento dei negoziati può essere solo in parte attribuito alle richieste di Pechino, che ovviamente ha fatto di tutto per limitare le perdite. 

Che sia così lo dimostra il processo di ristrutturazione (rallentato dagli obbligazionisti)  condotto parallelamente dal Ghana, di cui la Cina detiene solo il 7% del debito estero, rispetto al 36% dello Zambia e il 25% dell’Etiopia. Pechino, dal canto suo, continua a dimostrarsi più generoso quando si tratta di cancellare prestiti senza interessi. Concessione ottenuta recentemente dallo Zimbabwe, che in tutto deve al gigante asiatico appena 2,1 miliardi di dollari. 

La buona notizia è che in futuro probabilmente non ci saranno più altri “casi Zambia”. Il 17 aprile il Fondo monetario internazionale ha approvato una nuove regole che semplificano l’erogazione di prestiti di emergenza a un paese membro in difficoltà. Se in precedenza era necessario prima ottenere garanzie di finanziamento dai creditori sovrani, adesso basta che il paese in questione sia in grado di provare che sono in corso trattative per una rinegoziazione delle passività, anche se sono ancora in corso.

L’ANGOLA INVITA LA CINA A COSTRUIRE UNA BASE AEREA

Dicevamo che la Cina raramente concede sconti. Una rimarchevole eccezione vedrà l’Angola (uno dei paesi africani più indebitati nei confronti della Repubblica popolare) pagare fino a 200 milioni di dollari in meno ogni mese per onorare i prestiti contratti con la CDB. L’accordo è stato concluso durante la visita del presidente João Lourenço a Pechino, uno dei pochi leader africani ad essere tornato a casa con una pesante borsa della spesa. Nell’ultima puntata di Africa rossa avevo accennato a come negli ultimi tempi le interlocuzioni tra i capi di Stato cinesi e africani siano sempre più inconcludenti in termini economici. La trasferta a Pechino di Lourenço è invece terminata con sostanziosi annunci: nonostante il tentativo di Luanda di diversificare le fonti di guadagno, gli idrocarburi continuano a costituire un’importante merce di scambio con il gigante asiatico. La compagnia petrolifera cinese CNOOC ha annunciato che invierà una delegazione di alto livello in Angola per discutere nuove “opportunità di esplorazione petrolifera”. Ma è indicativo che il presidente angolano abbia incluso nell’itinerario di viaggio lo Shandong, tappa inusuale che manifesta il crescente interesse per il settore manifatturiero. Pechino ha promesso che incoraggerà le imprese cinesi a promuovere “progetti di investimento che sostengono il potenziamento della catena industriale”. Appunto per diversificare

Contro ogni pronostico, tuttavia, sono state ancora una volta le infrastrutture a dominare i colloqui con i leader cinesi. Non che Pechino si sia ufficialmente impegnato a concedere nuovi finanziamenti. Ma va notato come i dispendiosi collegamenti di trasporto continuino a svettare sulla lista dei desiderata africani. Tra i progetti proposti da Lourenço figurano una nuova metrotranvia a Luanda, una raffineria nel porto di Lobito (dove stanno investendo Stati Uniti e Ue) e… una base aerea militare. Sì, proprio così. Il tentativo delle potenze occidentali di mettere le mani sui corridoi economici tra le miniere e gli scali marittimi africani deve fare i conti con la realtà: l’Angola, come la maggior parte dei paesi del continente, non concede esclusive. Ambisce piuttosto a strumentalizzare la competizione con la Cina per ottenere condizioni più vantaggiose da tutti gli interessati a prescindere dalla nazionalità. 

La richiesta della base militare aerea è ancora più rilevante. C’è chi ha sottolineato come l’aviazione civile sta diventando un’area rilevante per le relazioni Africa-Cina. Riferimenti in merito compaiono già nel piano d’azione (2022-2024) rilasciato durante l’ultimo FOCAC. Letteralmente: le imprese cinesi si sono impegnate a “investire nei porti africani, aeroporti e compagnie aeree” e ad aprire “più voli e servizi di trasporto marittimo tra la Cina e l’Africa”. L’aspetto più specificamente militare presenta diverse opportunità per Pechino che, dopo le indiscrezioni su colloqui segreti in Guinea, in questo caso non deve nemmeno chiedere; viene direttamente invitato a costruire la struttura. Secondo Lukas Fiala direttore di China Foresight presso LSE IDEAS, il vantaggio principale di un’operazione del genere consisterebbe nella possibilità di rafforzare la cooperazione militare, raccogliere intelligence, definire standard e ottenere un supporto logistico su scala regionale per un’eventuale evacuazione. Il tutto mentre il colosso delle armi cinesi NORINCO ha cominciato ad aprire nel continente i primi impianti per l’assemblaggio di droni. 

“PROGETTI PICCOLI E BELLI”, ANZI UTILI

Ma come? La Cina non aveva smesso di finanziare infrastrutture per privilegiare progetti “piccoli e belli”? Sì e no. Per cominciare non è detto che le richieste di Luanda verranno accolte. Ciononostante, è innegabile che quello delle grandi opere non sia un capitolo del tutto chiuso. Come mi diceva recentemente Li Anshan, consulente del governo cinese dagli anni ’90, (intervistato per Domani), “i dati in merito sono molto contraddittori” e gli anni del Covid hanno parzialmente inciso sul trend in calo. 

Secondo la China Africa Research Initiative (CARI) della Johns Hopkins University, nel 2022 la Cina ha guadagnato dai contratti di ingegneria e costruzione in Africa appena 37,84 miliardi di dollari pari a un calo del 31% rispetto ai 54,78 miliardi di dollari fatturati nel 2015, l’anno in cui i prestiti nel continente hanno raggiunto il loro massimo livello. I maggiori ricavi provengono da soli cinque paesi: Nigeria, Angola, Algeria, Egitto e Repubblica Democratica del Congo, che insieme rappresentano il 41% dei ricavi lordi per tutto il 2022. Il minimo comune denominatore sono le materie prime: per trasportarle servono nuove vie di comunicazione. Proprio recentemente in Algeria è stata avviata la costruzione di una linea ferroviaria che per quasi 600 chilometri collegherà Gara Djebilet, una delle miniere di minerale di ferro più grandi del mondo, con la zona industriale di Dumiat. La Cina importa il 70% del metallo dall’Australia e la nuova ferrovia permetterà di aumentare le forniture algerine aiutando al contempo il paese africano a ridurre il deficit commerciale nei confronti del gigante asiatico. Le infrastrutture sono ancora benvenute da entrambe le parti, purché siano necessarie. Per dirla con le parole di Li Anshan, “la storia e l’esperienza cinese dimostrano che per essere sostenibile un progetto deve essere vantaggioso per la vita di tutte le persone, non solo degli imprenditori o delle aziende”. Oppure deve servire cementare i rapporti politici. Questo non lo dice Li, bensì la realtà dei fatti. 

Ѐil caso degli stadi, fiore all’occhiello della diplomazia cinese in Africa. Pechino ne sta costruendo due: uno da 30.000 posti ad Arusha, nel nord della Tanzania, e un altro da 60.000 posti nella capitale del Kenya Nairobi. Entrambi ospiteranno le partite di calcio durante la Coppa d’Africa 2027. Spesso il governo cinese regala le strutture sportive nel quadro di accordi più sostanziosi che comprendono infrastrutture di trasporto. Ma è interessante notare come, con l’aumento del debito africano, anche questo settore stia adottando nuove strategie di finanziamento. Il Talanta Stadium ad esempio sarà costruito con un accordo di partenariato pubblico-privato, lo stesso modello utilizzato per finanziare e costruire la Nairobi Expressway. Cautela forse dovuta anche alla sorte sperimentata da alcuni stadi in Gabon e altri paesi, progettati in maniera discutibile e rimasti pressoché inutilizzati.  

La qualità delle infrastrutture cinesi resta una questione scivolosa. Il caso della metropolitana leggera di Addis Abeba è emblematico. Tra i 70 mega progetti che la Cina ha costruito in Etiopia con un prestito di 14,8 miliardi di dollari tra il 2006 e il 2018, la linea veloce non si può definire un successo: guasti frequenti, finanziamenti inadeguati per la manutenzione e vincoli operativi fanno sì che appena un terzo dei suoi 41 treni siano operativi. Qualcosa di simile sta avvenendo con la famigerata ferrovia Mombasa-Nairobi. Secondo un recente studio stilato da una lobby locale, le aziende manifatturiere keniote preferiscono ancora trasportare le merci in arrivo nel porto di Mombasa tramite camion piuttosto che con la ferrovia cinese. Il problema principale è rappresentato dai costi, oltre dalla scarsa funzionalità. Fattore quest’ultimo che il presidente William Ruto conta di risolvere convincendo Pechino ad estendere la linea fino al confine con l’Uganda. 

A proposito di prezzi, Zambia e Zimbabwe lanceranno una nuova gara per un progetto idroelettrico precedentemente assegnato nel 2019 a GE e alla cinese Power Construction Corp. La proposta economica cinese (5 miliardi di dollari) è stata giudicata troppo onerosa. È finita l’epoca delle infrastrutture cinesi a buon mercato? O semplicemente i governi africani hanno oggi una più ampia scelta di concorrenti?

Quello che è certo è che il problema del debito africano sta promuovendo opzioni alternative alla classica richiesta di prestiti cinesi. Per esempio il ponte di Biserta, in Tunisia, sarà costruito dalla Sichuan Road and Bridge Group (Srbg), ma finanziato dalla Banca europea per gli investimenti (Bei) che ha stanziato 123 milioni di euro (con tanto di garanzia dell’Unione europea) e . dalla Banca africana allo sviluppo (Afdb). 

Decisamente più controversa la soluzione accordata con la giunta del Niger. All’inizio di aprile la China National Petroleum Corp. ha accettato di effettuare un pagamento anticipato per l’acquisti di greggio dal giacimento nigeriano di Agadem. I militari utilizzeranno i proventi dalla vendita per saldare i debiti. Da quando a luglio Mohamed Bazoum ha preso il potere, il Niamey si è dimostrato insolvente per circa 600 milioni di dollari. L’accordo con CNPC coincide con il ritiro del contingente militare americano presente dal 2012 in Niger con l’obiettivo di contrastare la jihad islamica. La Francia aveva già ritirato i propri soldati dal paese alla fine dell’anno scorso.

Sul South China Morning Post, Alex Lo ha spiegato perché la strategia dell’Occidente in Africa continua a rivelarsi inefficace dando un vantaggio competitivo alla Cina. Il giornalista porta ad esempio il braccio di ferro di Washington con il Sudafrica, “colpevole” di aver chiesto alla corte internazionale di giustizia di perseguire Israele con l’accusa di genocidio. Sulla cosiddetta “nuova guerra fredda” tra le due superpotenze si è espresso recentemente anche l’ex ambasciatore del Ruanda negli Stati Uniti.  “Gli Stati Uniti sono nostri amici. Allo stesso modo, la Cina è nostra amica”, ha detto al SCMP James Kimonyo. “Non possiamo essere vittime di bullismo, non possiamo essere costretti [a fare una scelta]...a meno che voi [occidentali] non diate per scontato che siamo stupidi, che non possiamo pensare con la nostra testa e non possiamo stabilire da soli le priorità per i nostri paesi”.

ALTRO CHE AVOCADI. IL COMMERCIO BILATERALE CRESCE GRAZIE AI MINERALI

Nonostante le turbolenze del mercato immobiliare cinese, l’import di materie prime dall’Africa continua a rappresentare una fetta considerevole degli scambi commerciali tra la Repubblica popolare e il continente: secondo i dati delle dogane cinesi, nel primo trimestre del 2024 le transazioni bilaterali sono cresciute del 5,9% su base annua pari a 70,86 miliardi di dollari. Gli esperti attribuiscono l’incremento proprio all’acquisto di materiali utilizzati nella produzione di batterie per veicoli elettrici (EV). A confermarlo la classifica dei principali partner commerciali africani: Sud Africa, Angola, Repubblica Democratica del Congo (RDC), Nigeria, Egitto, Liberia, Algeria, Guinea e Marocco. Tutti paesi ricchi di materie prime critiche. 

Al contempo, l’export dalla Cina verso il continente – che consiste perlopiù in prodotti finiti – è aumentato del 4,4%, raggiungendo i 41,4 miliardi di dollari.

Da tempo Pechino promette di rendere l’interscambio (282 miliardi di dollari) più equilibrato. Nel 2023, le importazioni dal continente sono diminuite, facendo lievitare il deficit commerciale africano da 46,9 miliardi a 64 miliardi di dollari. Sono numeri che disattendono i piani di Xi Jinping, che nel 2021 in occasione dell’ultimo FOCAC aveva espresso l’intenzione di aumentare le spedizioni dall’Africa verso la Repubblica popolare a 300 miliardi di dollari entro tre anni. Per centrare l’obiettivo negli ultimi due anni Pechino ha rimosso a più riprese le tariffe su varie merci agricole. 

Eppure, a pochi mesi dal prossimo vertice, il traguardo non è lontano è lontanissimo: l’anno scorso la Cina ha importato appena 109 miliardi di dollari di prodotti africani. Come dicevamo, sono ancora metalli e minerali a riempire la busta della spesa cinese, mentre i prodotti agricoli – pur crescendo del 6,1% su base annua a i 9,35 miliardi di dollari nel 2023 – hanno rappresentato solo il 3,3% dell’interscambio complessivo. La Tanzania – che era al quarto posto – ha registrato l’aumento annuo più significativo delle esportazioni verso la Cina, pari a un+ il 73,8%. La maggior parte delle importazioni cinesi dal continente ha riguardato semi oleosi e prodotti associati, soprattutto semi di sesamo (40%), mentre frutta e derivati hanno contato solo per il 7,1% del totale. Ecco che l’enfasi attribuita a Pechino dall’arrivo degli avocadi da Kenya e Tanzania, e più recentemente del Sud Africa, forse è un po’ tanto sovrastimata.  

IL SENSO DI PECHINO PER L’EGITTO

Pechino creerà una zona industriale cinese integrata in Egitto, sul versante del Mediterraneo. Lo ha dichiarato a marzo l’ambasciatore cinese al Cairo, Liao Liqiang, in un’intervista all’emittente panaraba di proprietà saudita Al Arabiya, senza specificare la località precisa (pochi giorni fa è stato ribadito l’interesse per il progetto di New Alamein City). La Cina “si sta preparando a trasferire le sue competenze in Egitto, realizzando un enorme progetto industriale, commerciale e logistico”, ha aggiunto il diplomatico. Secondo Liao, si tratta del “più grande investimento cinese nella regione araba”. Come spiega Liao, “gli investimenti cinesi in Egitto “sono quelli in più rapida crescita perché la Cina è il principale partner commerciale dell’Egitto”. In realtà, non è una cosa così scontata. Per Panda Paw Dragon Claw, infatti, l’inflazione alle stelle, e il rapido deprezzamento della valuta locale – per non parlare della crisi del Mar Rosso – rendono il paese africano un partner ad alto rischio. Non per la Cina che, da una prospettiva di lungo periodo, vede nell’Egitto un potenziale economico oltre che politico, trattandosi di un interlocutore chiave in Medio Oriente nonché di un importante alleato americano nella regione. 

Solo pochi giorni fa, la Zona economica del Canale di Suez (lanciata nel 2015) ha firmato 14 accordi con aziende private cinesi. Il volume degli investimenti nel progetto ha finora raggiunto circa 3 miliardi di dollari attraverso la presenza di 150 società in molteplici settori industriali e logistici. Il 40% degli investimenti arriva dalla Cina. Sì sa, Pechino ha un debole per le zes, che in patria hanno rivestito un ruolo cruciale nella transizione dall’economia pianificata al “socialismo con caratteristiche cinesi”. Mutatis mutandis, in Africa si spera serviranno a emancipare le economie locali da esportatrici di materie prime a esportatrici di prodotti a più alto valore aggiunto. Secondo statistiche del governo cinese, la Cina investe ogni anno 400 milioni di dollari nel manifatturiero africano. 

OLEODOTTO UGANDESE: C’E’ L’ENDORMSEMENT DI XI

La Cina ha invitato il ministro dell’Energia dell’Uganda a Pechino per discutere del controverso oleodotto da 5 miliardi di dollari che, una volta completato, dovrebbe trasformare il paese dell’Africa orientale in un esportatore di greggio. Pochi giorni fa il governo di Kampala ha ricevuto una lettera da Xi Jinping in merito. Segno che forse si è vicini a un accordo dopo che le banche occidentali si sono rifiutate di concedere all’Uganda i finanziamenti necessari allo sviluppo delle condotte a causa dell’impatto ambientale che il progetto avrebbe sulle riserve naturali lungo il percorso. Negli ultimi anni l’interesse del gigante asiatico per il petrolio africano era andato calando, ma la guerra in Medio Oriente sembra aver indotto la Cina a un ripensamento. 

LA VITTORIA DEL CONGO SUI MINERALI

Il 14 marzo è stata completata l’ultima revisione del controverso accordo sugli interessi minerari della Cina nella Repubblica Democratica del Congo. Secondo i termini aggiornati, l’importo da destinare al finanziamento delle infrastrutture locali è stato aumentato da 3 a 7 miliardi di dollari, con un esborso iniziale di oltre 700 milioni di dollari per lavori stradali di emergenza. Si tratta di una bella vittoria per Felix Tshisekedi, che lo scorso anno era stato a Pechino proprio per chiedere a Xi Jinping condizioni più eque. Secondo il presidente congolese, l’accordo (siglato dal suo predecessore) ha sottostimato il valore del rame e del cobalto che i partner cinesi si sono impegnati a estrarre in cambio della costruzione di infrastrutture. 

La Cina, d’altronde, potrebbe avere sempre meno bisogno dei metalli congolesi. Il colosso cinese dell’automotive BYD ha annunciato che ad agosto lancerà la Blade Battery di prossima generazione con una densità di energia superiore del 27% rispetto all’attuale batteria. Le batterie Blade utilizzano litio ferro fosfato (LFP), una miscela di minerali e metalli che sono molto più sostenibili dal punto di vista ambientale rispetto alle tradizionali batterie al nichel cobalto manganese (NCM), ma anche più facilmente reperibili. È troppo presto per fare previsioni, ma se questo nuovo tipo di batterie dovesse affermarsi su larga scala, paesi produttori di cobalto e nichel, come la RDC e l’Indonesia, potrebbero perdere il loro vantaggio competitivo. La Cina, d’altro canto, ha segnalato da tempo di fiutare la nuova tecnologia, come dimostra il rapido rafforzamento dei rapporti economici con lo Zimbabwe, tra i maggiori fornitori di litio.

L’occidente, come sempre, rincorre Pechino:

  • Al momento, “i nostri sforzi sono troppo sparsi su troppi fronti, privi di focus strategico”. A lanciare l’allarme è la Direzione generale per i partenariati internazionali della Commissione Ue (DG INTPA), che recentemente in un documento riservato ha espresso preoccupazione per l’inefficacia della Global Gateway, il surrogato europeo della BRI cinese. La prossima tornata di investimenti – suggerisce la DG INTPA– dovrebbe concentrarsi su “corridoi” geografici e settori come le rinnovabili, le materie prime e le infrastrutture di trasporto. Nello specifico vengono menzionate l’estrazione di rame e cobalto in Zambia e RDC.

DALL’HARDWARE AL SOFTWARE

A inizio aprile si è tenuto a Xiamen il China-Africa Internet Development and Cooperation Forum, a cui hanno partecipato i rappresentanti di 20 paesi africani. Secondo il comunicato rilasciato al termine dell’evento (organizzato dalla Cyberspace Administration of China), le parti si sono impegnate “a rafforzare il coordinamento e la cooperazione all’interno di quadri multilaterali come le Nazioni Unite e a sostenere le Nazioni Unite nella creazione di un’istituzione internazionale per la governance dell’intelligenza artificiale” che aumenti la rappresentanza dei paesi in via di sviluppo nello sviluppo globale della nuova tecnologia. Secondo un’analisi pubblicata il mese scorso dal think tank americano Brookings Institution, solo sette nazioni africane hanno finora elaborato strategie nazionali sull’intelligenza artificiale. È qui che si inserisce la Cina. Il perché lo ha spiegato a The China Global South Project Benjamin Dada, fondatore del popolare sito di notizie tecnologiche africano BenDada.com. Secondo Dada, è finita l’epoca dell’hardware: “Ormai chiaramente c’è una spinta da parte della Cina verso la definizione di norme su Internet, sulla tecnologia più in generale, ma anche ora sempre di più sull’intelligenza artificiale, per promuovere la propria versione. E questo è un aspetto molto interessante perché finora l’intelligenza artificiale non è stata molto discussa nell’ambito Africa-Cina”.

 

Altre notizie tecnologiche:

 

  • C’è sempre più Africa nel programma lunare cinese. L’Istituto di scienza spaziale e geospaziale dell’Etiopia (SSGI) e il Kenya Advanced Institute of Science and Technology (KAIST) hanno firmato memorandum d’intesa per cooperare con l’International Lunar Research Station (ILRS), la base lunare attualmente in fase di sviluppo a cui partecipano la China National Space Administration insieme alla russa Roscosmos. 
I CASCHI BLU CINESI LASCIANO LA RDC

I militari del contingente cinese integrato nella Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione della Repubblica Democratica del Congo (Monusco) hanno avviato il processo di ritiro dal paese, come richiesto dal governo di Kinshasa, che ha giudicato l’operazione inefficace. Il disimpegno avverrà in tre fasi, di cui la prima – conclusa ad aprile – ha interessato la provincia del Sud Kivu. Il contingente cinese conta 220 persone ed è composto principalmente da ingegneri civili e medici che in questi anni hanno lavorato a progetti di riparazione di strade e ammodernamento di ponti. Kivu, una delle aree minerarie in cui la presenza cinese è più massiccia, è non a caso teatro di frequenti attacchi violenti. 

“VIETATO L’INGRESSO AI CANI E AGLI AFRICANI”

Le autorità nigeriane stanno conducendo indagini per fare chiarezza sul caso di discriminazione che ha coinvolto il supermercato Royal Choice, che giorni fa diversi residenti locali hanno dichiarato di essersi visti precludere l’accesso al negozio in quanto africani. Un video ha reso l’incidente virale, tanto da aver indotto a intervenire la Commissione per la protezione dei consumatori. L’episodio, avvenuto nella capitale Abuja, ha riacceso i riflettori sul problema del razzismo di cui vengono spesso tacciati gli immigrati cinesi in Africa. Soprattutto dopo le poco credibili smentite della Camera di commercio cinese. Va detto tuttavia che, come spiega The China Global South Project, in realtà il caso di Royal Choice rappresenta ormai un’eccezione: frequenti nei primi anni Duemila, col passare del tempo comportamenti discriminatori simili sono diventati piuttosto rari se rapportati ai numeri della diaspora cinese. Anche per via di una maggiore attenzione delle autorità. Proprio questa settimana diplomatici cinesi e dell’Unione africana si sono incontrati per discutere di diritti umani, in particolare sul posto di lavoro.

A cura di Alessandra Colarizi

Per chi volesse una panoramica d’insieme, in libreria trovate “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro” (L’Asino d’Oro, 14,00 euro). Partendo dal racconto dei primi contatti nella storia, il testo cerca di restituire un’immagine a tutto tondo dei rapporti sino-africani, superando la dimensione puramente economica. Mentre la narrazione dei mass media ci bombarda quasi ogni giorno con le statistiche del debito africano e degli investimenti cinesi, “Africa rossa” cerca di riportare al centro della narrazione gli scambi politici e socio-culturali tra i rispettivi popoli.