Africa rossa – Il debutto di Qin Gang

In Africa Rossa, Relazioni Internazionali by Alessandra Colarizi

L’Africa prima meta oltremare del nuovo ministro degli Esteri Qin Gang. Cosa è emerso? Record di scambi commerciali nel 2022. La Cina continuerà a investire nelle infrastrutture africane? Nonostante le critiche degli ambientalisti, l’Uganda ha avviato i lavori di un controverso progetto petrolifero. Intanto la Cina consolida la propria presenza militare nel continente. Di questo e molto altro nell’ultimo numero di Africa Rossa, la rubrica su Cina e Africa a cura di Alessandra Colarizi.

Nuovo anno, vecchie tradizioni. Come usanze vuole, anche quest’anno l’Africa è stata scelta come prima destinazione oltremare del ministro degli Esteri cinese.  La trasferta si inserisce in una tradizione trentennale che dal 1992 vede il capo della diplomazia cinese raggiungere il continente come prima meta dell’anno. Stavolta però la visita è particolarmente interessante perché segue il vertice Usa-Africa di Biden e coincide con il crescente attivismo russo nella regione. Si tratta inoltre del debutto da ministro di Qin Gang – un fedelissimo di Xi Jinping – che fino a pochi giorni fa ricopriva il ruolo di ambasciatore a Washington. 

Qin viene considerato un “europeista” con scarsa esperienza nel Sud globale. Ragione per cui il suo tour (dal 9 al 16 gennaio) ha svolto perlopiù un ruolo simbolico. Obiettivo: ribadire l’interesse cinese per il continente in un momento in cui la concorrenza si fa più pressante. E calibrare meglio l’impegno economico nella regione gravata dai debiti e minacciata dal terrorismo islamico. 

Con 282 miliardi di dollari di scambi, nel 2022 il gigante asiatico si è confermato il primo partner commerciale dell’Africa nonché la principale fonte di investimenti infrastrutturali. Ma tra il Covid e l’insolvenza dei governi africani, sono almeno cinque anni che Pechino prova a deviare i propri capitali in settori più sostenibili, dall’innovazione digitale allo sviluppo dell’agricoltura e del comparto sanitario. Non stupisce quindi la varietà delle mete scelte da Qin: Etiopia, Gabon, Angola, Benin, ed Egitto. In confronto, il predecessore Wang Yi, da poco promosso a capo della diplomazia del Pcc, nel gennaio 2022 si era trattenuto esclusivamente nel Corno d’Africa, quadrante strategico per i flussi commerciali attraverso l’Oceano Indiano. Secondo Paul Nantulya, l’assortimento dei paesi visitati sembra voler riflettere un equilibrio tra Africa orientale, centrale, occidentale, settentrionale e meridionale, nonché tra Oceano Indiano e Atlantico. Un mix che armonizza interessi economici, rapporti politici e sicurezza.

L’Angola simboleggia i legami storici tra la Cina maoista e i movimenti di liberazione africani, nonché il crescente interesse di Pechino per la costa occidentale del continente. Ma è anche e soprattutto il paese che più di ogni altro incarna la vecchia strategia cinese a base di finanziamenti in cambio di risorse naturali, tanto popolare nei primi anni 2000. Non a caso l’Angola è anche il primo debitore africano della Cina, che da sola conta per il 40% delle passività di Luanda.  Secondo Chatham House la Cina conta per il 12% del debito esterno dell’Africa, con prestiti che tra il 2020 e il 2020 hanno raggiunto i 160 miliardi di dollari. Dall’inizio della pandemia, Zambia e Ghana sono state costrette a dichiarare default. Qin tuttavia ha ricordato come la Cina abbia raggiunto accordi di sospensione del debito con 19 paesi africani, il numero più elevato tra i paesi membri del G20: “We don’t accept the unreasonable label of debt trap”.

Il Gabon e il Benin riflettono la continua espansione dell’impegno militare ed economico cinese nell’Africa occidentale – inclusi la costruzione della nuova sede centrale dell’ECOWAS ad Abuja e una serie di nuovi accordi difensivi, che tanto agitano Washington. L’Egitto, oltre ad essere un importante partner per il mantenimento della sicurezza nell’area MENA, è uno snodo cruciale della Belt and Road grazie all’affaccio sul Mediterraneo. Qui, a est del Cairo, la Cina sta collaborando alla costruzione di una nuovo centro amministrativo per decongestionare la capitale egiziana che sarà collegato alla Zona di cooperazione economica e commerciale di Suez così da diventare – nei piani del presidente egiziano Al Sisi – un ponte fra Europa, Nord Africa e Medio Oriente.

E poi c’è l’Etiopia. La nazione del Corno si conferma in cima alle proprietà di Pechino. Il paese ospita 400 progetti BRI ed è da tempo motivo di preoccupazione per via dell’annoso conflitto tra esercito etiope e ribelli del Tigré. Tanto da aver spinto Pechino a farsi promotore di una conferenza di pace che a nulla è servita se non a rilanciare il soft power cinese, nonostante il malcelato debole di Pechino per il premier Abiy Ahmed. Qin ha comunicato la disponibilità delle aziende cinesi a partecipare alla ricostruzione nazionale fintanto che dura la tregua con i tigrini.

“In quanto principali paesi in via di sviluppo che condividono visioni e si uniscono per la ricerca della modernizzazione, la Cina e l’Etiopia devono essere partner che si sostengono fermamente a vicenda, perseguono uno sviluppo comune e sostengono l’equità e la giustizia internazionali”, ha detto Qin ad Abiy Ahmed. Ad Addis Abeba il ministro ha visitato la sede dell’Unione africana e partecipato all’inaugurazione del nuovo Centro per la prevenzione delle malattie. Entrambi progetti finanziati e costruiti dalla Cina. 

La chiamano la diplomazia dei dollari; serve a conquistare la fedeltà di chi detiene il potere. Presiedendo al taglio del nastro Qin ha parlato di “sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà” Sud-Sud in opposizione “all’egemonia, al bullismo, all’arroganza e alla discriminazione razziale” dell’Occidente. In Gabon, il titolare della diplomazia cinese ha aggiunto che Pechino continuerà a sostenere il paese “nella ricerca d’un percorso di sviluppo consono alle sue condizioni nazionali”. Chiaro tentativo di smentire l’imposizione di un “modello cinese” ai partner africani.

La tournée di Qin segue di circa un mese il vertice africano di Biden (il primo organizzato da Washington dal 2014). Non preoccupa meno la Russia sempre più attiva al fianco dei golpisti, informalmente anche grazie alle scorribande di Wagner Group in Mali, Repubblica Centrafricana, Mozambico, Libia e Sudan.

La Cina ci tiene a prendere le distanze tanto dall’ingerenza politica americana, quanto dal paternalismo europeo e dal militarismo dei mercenari del Cremlino. A Qin l’onere di diffondere il messaggio nelle capitali africane. “L’Africa dovrebbe essere un grande palcoscenico per la cooperazione internazionale, non un’arena per la competizione tra i principali paesi”, ha sentenziato il diplomatico cinese incontrando il presidente della Commissione dell’Unione Africana Moussa Faki. 

 

Da notare:

 

  • Non si è parlato granché di debito, fatta eccezione per l’annuncio molto vago di un alleggerimento delle passività di Etiopia e Benin. Al 90% si tratta di prestiti  a interessi zero. 
  • Mentre Pechino sostiene da anni l’ingresso dell’UA nel G20, la posizione cinese in merito all’acquisizione di un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è molto più vaga. 
  • Resta confermata l’intenzione di adottare un approccio multilaterale: oltre ad aver incontrato il segretario dell’UA, in Egitto Qin ha anche avuto uno scambio con il segretario della Lega araba. 
  • Non solo non sono stati annunciati nuovi progetti infrastrutturali (fatta eccezione per un progetto di banda larga in Angola da 250 milioni di dollari). In questi stessi giorni è stato persino ufficializzato il ritiro della Cina dalla costruzione dell’attesa ferrovia Malaba-Kampala (vedi sotto). 
  • Come durante l’8° FOCAC, Pechino ha manifestato la volontà di risparmiare sulle grandi opere con profitti incerti e di lungo termine. Nei vari comunicati congiunti si parla soprattutto di rapporti people-to-people, rinnovabili, e agricoltura. 
  • Non sono stati annunciati accordi militari (vedi sotto). 

Qin ha formulato una proposta in 4 punti per migliorare i rapporti tra Cina e paesi africani.

China Digital Times ha riscontrato come, durante la visita del ministro, su Twitter account cinesi ed etiopi abbiano commentato positivamente la presenza cinese nel paese africano in maniera stranamente concertata. I post – di contenuto spesso identico – sono stati pubblicati con gli hashtag  #Ethio_China e #Africa_China. Al coro di cinguettii si è unito anche l’ambasciatore etiope in Sudan. Come in altre circostanze, non è chiaro se si tratta di una campagna pilotata da Pechino. 

 

Come trasformare le relazioni Cina-Africa in relazioni Africa-Cina

La fondatrice dell’Ong con base a Pechino, Development Reimagined, ha pubblicato un’interessante analisi che si pone l’obbiettivo di capire come correggere l’asimmetria dei rapporti bilaterali: ovvero come trasformare le relazioni Cina-Africa in relazioni Africa-Cina. La soluzione proposta da Hannah Ryder parte dall’osservazione di quanto messo in pratica dai paesi asiatici: “Even low-income countries can get a great deal substantively from the China relationship – from outsourced Chinese factories providing thousands of jobs in Vietnam and Bangladesh, to Chinese tourists in Thailand, to transparent Chinese aid in Cambodia. Taking the metric of shares of non-agriculture or mining product imports for instance. Africa’s 16% compares to Asia’s 79%.

I rapporti commerciali tra Cina e Africa valgono 282 miliardi di dollari

Nuovo record per gli scambi commerciali tra Cina e Africa. Secondo i dati delle dogane cinesi, nel 2022 l’interscambio ha raggiunto i 282 miliardi di dollari, in aumento dell’11% su base annua. Dal 2009 la Repubblica popolare si conferma il primo partner commerciale bilaterale. Ma, come fa osservare il portale The China Global South Project, il 54% dell’export africano proviene da soli cinque paesi.

 

“Debt trap”: Il Ghana diventa il quarto paese ad avviare negoziati all’interno del G20 Common Framework

 

Secondo fonti Reuters, il Ghana è diventato il quarto paese a fare domanda per una ristrutturazione del debito nell’ambito dell’iniziativa del G20. Il ministero delle Finanze chiederà di includere nei colloqui anche la Cina, il primo creditore bilaterale del Ghana con 1,7 miliardi di dollari di debito. In confronto ammontano a 1,9 miliardi di dollari i prestiti dovuti ai membri del club di Parigi.

 

Il FMI accusa lo Zambia di “corruzione istituzionalizzata”

In Zambia la diffusione della corruzione ha gonfiato il costo degli appalti e dei progetti di infrastrutture, indebolendo la governance del Paese e diventando pratica “istituzionalizzata”, in particolare fra il 2016 ed il 2021, anni che corrispondono al mandato dell’ex presidente Edgar Lungu. Lo scrive il Fondo monetario internazionale (Fmi) in una nota pubblicata al termine di una missione tenuta a fine anno in Zambia per valutare l’attuazione dei progetti e le difficoltà nella governance locale. Secondo il presidente Hichilema, il problema non è la Cina, bensì la sprovvedutezza dei suoi predecessori che hanno chiesto prestiti per progetti poco profittevoli. Così ora il suo governo sta collaborando con la Cina alla “fornitura di energia sostenibile che assicurerà una doppia fonte di reddito” (“now we’ve moved to a combination of what we can support financially through our balance sheet but also through public-private partnerships which really is off balance sheet”).

 

Ripartono i lavori a Simandou, il giacimento di minerale di ferro più grande d’Africa

Il 22 dicembre il colosso metallurgico cinese Baowu ha raggiunto un accordo per dotare il giacimento di Simandou, in Guinea, delle necessarie infrastrutture ferroviarie. Da tempo le autorità locali (compresa la giunta golpista) facevano ostruzionismo per spingere gli investitori a finanziare il collegamento di trasporto, lo sviluppo di un porto e tutto quanto necessario a massimizzare il potenziale del progetto. Si tratta del giacimento di minerale di ferro più grande dell’Africa e il terzo al mondo, con riserve stimate attorno ai 2,4 miliardi di tonnellate. Casomai l’appeasement con l’Australia non dovesse andare a buon fine…

Al via controverso progetto petrolifero in Uganda

Due società statali cinesi – la Offshore Oil Engineering Co. e la China Petroleum Engineering & Construction Corp – hanno iniziato i lavori in un giacimento petrolifero dell’Uganda occidentale, nonostante le preoccupazioni degli ambientalisti. Come scritto la scorsa volta, persino il parlamento europeo si era espresso a sfavore. Niente da fare. Il progetto è già entrato in fase di costruzione.  Cobus van Staden ricorda, tuttavia, come siano coinvolti anche la francese TotalEnergies e i governi africani, attratti dall’aumento dei prezzi degli idrocarburi a causa della guerra in Ucraina. 

Le ferrovie e il cuore dell’Africa 

Dopo otto anni di tira e molla, il governo dell’Uganda ha rescisso il contratto stipulato con la China Harbor Engineering Company (CHEC) per la costruzione della prima ferrovia a scartamento normale (SGR) del paese. Secondo The EastAfrican, la linea, lunga 273 km, che collegherà Malaba a Kampala, potrebbe essere affidata all’azienda turca Yapi Merkezi, già impegnata in un progetto simile in Tanzania, che ha sottoscritto un MoU e nelle prossime settimane risponderà alla richiesta del governo. La Turchia sembra ben posizionata a subentrare là dove la Cina non è più intenzionata a investire. 

 

“Le linee ferroviarie sono fondamentali per aprire il cuore dell’Africa, dove c’è un immenso potenziale agricolo ed economico. Le linee ferroviarie non devono semplicemente collegare i porti alle miniere”, ha recentemente affermato il presidente del gruppo AfDB, Akinwumi Adesina commentando il finanziamento per il rinnovamento di una vecchia ferrovia. La linea ferroviaria fa parte del corridoio settentrionale della Comunità dell’Africa orientale (EAC) e collega la capitale ugandese Kampala alla città costiera del Kenya Mombasa. Il corridoio ha anche collegamenti marittimi con le vie navigabili interne del Lago Vittoria. Tuttavia al momento oltre il 90% del traffico lungo il corridoio settentrionale è su strada e solo il 7% avviene su rotaia a causa delle scarse infrastrutture. Ciò significa che i costi di trasporto lungo il corridoio sono relativamente alti. 

Le autorità della Tanzania hanno firmato con due società cinesi un contratto da 2,2 miliardi di dollari per completare l’ultima sezione del progetto ferroviario che dal 2026 collegherà Dar es Salaam alla Repubblica democratica del Congo (Rdc). L’operazione dovrebbe valorizzare il posizionamento dello scalo tanzaniano rispetto al vicino Kenya, avversario di peso nei progetti che mirano a creare una porta d’ingresso commerciale per l’Africa orientale. La linea ferroviaria, che dovrà essere completata entro il 2026, collegherà la Tanzania al Burundi e alla Rdc per oltre 2.500 chilometri e costerà alla Tanzania 10 miliardi di dollari. 

Lo Zimbabwe vieta l’export di litio grezzo

A inizio gennaio lo Zimbabwe ha vietato l’export di litio grezzo. Questo vuol dire che il metallo andrà raffinato localmente prima di essere spedito all’estero. Come abbiamo raccontato su queste colonne, lo scopo è mantenere nel paese la fase di lavorazione affinché i profitti finiscano alla popolazione locale anziché a nazioni come la Cina, che negli ultimi anni ha acquisito diverse miniere proprio per assicurarsi le forniture necessarie ad alimentare la transizione energetica. C’è però un problema. Secondo Lauren Johnston dell’Istituto sudafricano di affari internazionali, “se un numero maggiore di paesi africani vieterà l’esportazione di minerali chiave per l’energia rinnovabili, ma senza essere ancora pronti a lavorarli in patria a causa di problemi di governance, infrastrutture, energia e manodopera, questo potrebbe ostacolare lo sviluppo delle rinnovabili a livello globale”.

 

Il Marocco vieta l’ingresso ai cinesi

Il Marocco è diventato il primo (e finora l’unico) paese africano ad aver vietato l’ingresso ai cinesi dopo la rimozione della politica Zero Covid. Mentre Pechino ha prontamente introdotto misure punitive contro Giappone e Corea del Sud, molti analisti hanno notato come alcun provvedimento sia stato preso contro il governo di Rabat. 

Davvero i cinesi portano via il lavoro agli africani?

Andrea Ghiselli della Fudan University e Pippa Morgan della Duke Kunshan University hanno realizzato uno studio sull’immigrazione cinese in Africa. La ricerca, che copre 195 paesi, ha esplorato la propensione dei vari governi locali a lasciare che le aziende cinesi assumano lavoratori cinesi anziché la gente del posto. Secondo i due ricercatori, i paesi democratici sono “molto più inclini a limitare il numero di lavoratori cinesi nel settore delle infrastrutture”. Il motivo sembra quello di voler prevenire la nascita di un’opposizione interna con molteplici implicazioni, sia per i governi in carica, sia per la sicurezza degli immigrati cinesi così come per la stabilità delle relazioni diplomatiche con la Cina. Lo studio conclude che i paesi africani hanno le capacità di far valere i propri diritti (nonché le leggi necessarie), semplicemente troppe volte scelgono di non farlo. 

Sullo stesso tema si sono espressi Sylvanus Kwaku Afesorgbor (Guelph University), Ruby Acquah e Yohannes Ayele (Sussex University), che hanno analizzato nello specifico il caso dell’Etiopia. Stando all’indagine, “le donne sopportano un peso sproporzionato. Le aziende manifatturiere esposte all’aumento della concorrenza cinese impiegano meno operaie rispetto agli uomini”.

Il tempio di Shaolin accoglie i bambini poveri di Lusaka

Il tempio di Shaolin ha una sede in Zambia. E non insegna solo arti marziali. Secondo Xinhua, attualmente la struttura accoglie 27 ragazzi tra i sei e i 16 anni provenienti da contesti molto vulnerabili di Lusaka. I coordinatori del programma offrono sostegno educativo, cibo e riparo presso il Tempio.

Le ultime dalla Digital Silk Road 

Gibuti ha affidato alla multinazionale cinese Hong Kong Aero Tech la costruzione di infrastrutture utili al lancio di satelliti e razzi. Il contratto – da 1 miliardo di dollari – pone le basi per il collaudo in territorio africano del primo satellite di fabbricazione africana. 

La Tech war si disputa in Africa

Telecom Egypt ha avviato una partnership con Huawei per costruire la prima torre eco-friendly del paese, realizzata con materiali meno inquinanti rispetto all’acciaio. L’ accordo conferma come il colosso di Shenzhen – nonostante le difficoltà incontrate negli Stati Uniti e in Europa – continui a svolgere un ruolo da protagonista in Africa. Non a caso, mentre si trovava a Luanda, in Angola, Qin Gang ha visitato un parco tecnologico di Huawei. Una mossa che The China Global South associa alla visita di Wendy Sherman a maggio presso gli uffici locali di Africell, l’azienda che Washington vuole trasformare in un competitor di Huawei. Segno di come l’Angola stia finendo al centro della tech war tra Pechino e Washington.

Vola l’export di armi “made in China”

Nel nostro ebook dedicato a Cina e Russia spiegavo come gli interessi dei due “amici senza limiti” in Africa comincino a entrare in collisione. Nel settore della Difesa rischiano letteralmente di “fare il botto”: secondo la nonprofit RAND, la guerra in Ucraina sta erodendo l’export militare della Russia e la Cina è pronta ad approfittarne. I contractor privati (PMSC) cinesi operano (sebbene disarmati) ormai in 15 paesi africani, mentre sono 17 nazioni del continente a importare armi “made in China”. Mosca è ancora in vantaggio, ma la distanza si sta assottigliando rapidamente. Cinque sono i paesi che si riforniscono sia dalla Cina che dalla Russia: Angola, Repubblica Centrafricana, Etiopia, Mali e Sudan. Stati Uniti e Russia si attestano ancora i principali esportatori nel Nord Africa, sebbene la Cina sia ormai molto presente in Algeria e Marocco. 

Secondo un precedente report di Jane, quasi il 70% dei 54 paesi africani possiede veicoli militari corazzati cinesi e quasi il 20% di tutti i veicoli militari in Africa sono importati dalla Cina. La Tanzania, storico partner di Pechino, deve il 50% del proprio arsenale alle forniture cinesi.

Nuove operazioni navali tra Cina, Russia e Sudafrica 

Gli interessi conflittuali in termini di export, non comprometteranno il crescente allineamento sul piano della Difesa. Secondo Defence Web, la marina cinese, russa e sudafricana condurranno esercitazioni navali congiunte dal 17 al 24 febbraio nelle acque tra Durban e Richards Bay. L’operazione Mosi, era stata inaugurata per la prima volta nel 2019. Questa seconda edizione va analizzata alla luce del recente attivismo sino-russa nel Mar cinese orientale, nonché dell’ampliamento dei BRICS (l’Algeria potrebbe diventare il secondo paese africano ad aderire in un futuro – pare – piuttosto lontano). Ma, prima di saltare a conclusioni affrettate. va anche notato come Pretoria sia ancora molto legata alla NATO in termini di equipaggiamenti e dottrina strategica,

Perché l’Africa sostiene Putin?

Domanda che si pongono in molti. Come ricorda Africa24, Per molti Paesi africani, la volontà di sostenere la Russia risale alla Guerra Fredda, quando l’Unione Sovietica forniva assistenza militare ed economica ai movimenti di liberazione in tutto il continente. Molti leader africani condividono l’opposizione di Putin alla NATO. Questo risentimento si è sviluppato per un decennio dal rovesciamento del Presidente libico Muammar Gheddafi nel 2012, che ha poi portato alla destabilizzazione della Libia, del Nord Africa e del Sahel.

Crosetto: “L’Europa faccia di più”

In un’intervista a Formiche il ministro della Difesa Crosetto ha ricordato che “l’Europa investe sette volte quello che investe la Cina in Africa e 25 volte la Russia, ma con risultati estremamente diversi. La Cina ha una presenza significativa, in Africa, la Russia anche, mentre l’Europa no”.

La Germania è quella a muoversi meglio. Recentemente Berlino ha annunciato che aumentarà le garanzie statali per gli investimenti commerciali nei Paesi africani, una mossa ampiamente interpretata come finalizzata a diversificare le relazioni commerciali e a renderla più indipendente dalla Cina.

Draghi zar della Global Gateway?

Dal lancio della Global Gateway, l’Ue ha promesso 150 miliardi di euro per investimenti in progetti digitali, verdi e sostenibili in Africa. Ma, secondo Vincent Grimaud, direttore ad interim del dipartimento per i partenariati internazionali della Commissione europea, come gli altri impegni presi nel Sudest asiatico, si tratta di fondi già stanziati in precedenza: “Does not bring new financial means – there is no additional money when it comes to the EU level”. Sul tema ha scritto anche Michele Barbero per Foreign Policy. Citando Stefano Sonnino, Barbero spiega che la Global Gateway rappresenta un nuovo approccio non più solo focalizzato sugli aiuti, ma che tiene anche conto degli interessi europei. Per sbloccare l’impasse, secondo Noah Barkin del Marshall Fund, Bruxelles starebbe pensando di nominare Super Mario Draghi “zar della Global Gateway”. 

Yellen in Africa

Confermando il rinnovato interesse degli Stati Uniti per l’Africa, la segretaria al Tesoro Janet Yellen è partita quest’oggi per un tour che la porterà in Senegal, Zambia e Sudafrica. Il viaggio di Yellen – che probabilmente verterà sulla crisi debitoria – è il primo di una lunga serie che entro l’anno vedrà recarsi nel continente anche Biden, la vicepresidente Kamala Harris, la rappresentante per il Commercio Katherine Tai e la segretaria al Commercio Gina Raimondo.

A cura di Alessandra Colarizi

Per chi volesse una panoramica d’insieme, il 2 settembre è uscito in libreria “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro” (L’Asino d’Oro, 14,00 euro). Partendo dal racconto dei primi contatti nella storia, il testo cerca di restituire un’immagine a tutto tondo dei rapporti sino-africani, superando la dimensione puramente economica. Mentre la narrazione dei mass media ci bombarda quasi ogni giorno con le statistiche del debito africano e degli investimenti cinesi, “Africa rossa” cerca di riportare al centro della narrazione gli scambi politici e socio-culturali tra i rispettivi popoli.