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Africa rossa – America is back (in Africa)

In Africa Rossa by Alessandra Colarizi

Il U.S.-Africa Leaders Summit e la risposta cinese. Poi ancora le ultime dalla COP15 e sul debito africano. Di questo e molto altro nell’ultima puntata di Africa rossa, la rubrica a cura di Alessandra Colarizi

“America is back” (in Africa). Al netto delle critiche di rito, l’amministrazione Biden sembra aver riportato il continente al centro dell’agenda a stelle e strisce dopo anni di disinteresse. Dal 13 al 15 dicembre si è tenuto a Washington il U.S.-Africa Leaders Summit, vertice introdotto nel 2014 da Obama e che Trump ha archiviato. Sintomo di un disinteresse che è andato ben oltre le ben note scurrilità: The Donald è stato il primo presidente americano dai tempi di Ronald Reagan a non aver mai visitato l’Africa sub-sahariana. Vero è che, come rimarca Axios, le responsabilità del disimpegno precedono l’arrivo del biondo imprenditore alla Casa Bianca. 

Subito prima del summit il presidente senegalese Macky Sall, che ricopre la presidenza di turno all’Unione Africana, lo aveva detto chiaramente: “Let no one tell us ‘no, don’t work with so-and-so, just work with us.’ We want to work and trade with everyone.” Riferimento non troppo velato ai rapporti privilegiati con la Cina. Ed è rilevante che proprio la Cina sia stata la grande assente. Biden si è ben guardato dal nominarla, così come il resto dell’entourage, fatta eccezione per Lloyd Austin che ha parlato con preoccupazione di influenza cinese e russa nel continente. 

Lo scopo dell’omissione è facilmente intuibile: dimostrare che quello per l’Africa è un interesse “genuino”, scevro da dietrologismi geopolitici. Assunto che Washington ha sostanziato con l’annuncio di oltre 15 miliardi di dollari in impegni, accordi e partnership commerciali nonché di investimenti bilaterali che riguardano energia sostenibile, sistemi sanitari, agroalimentare, connettività digitale, infrastrutture e finanza. Protagoniste saranno le aziende private, mentre il budget verrà dispiegato attraverso Prosper Africa: il vecchio progetto che Trump lanciò – con scarsissimo successo – per “mobilitare servizi e risorse da tutto il governo degli Stati Uniti per fornire alle imprese e agli investitori approfondimenti sul mercato, supporto per le trattative e opportunità di finanziamento.” In tutto gli Stati Uniti investiranno in Africa un totale di 55 miliardi di dollari nei prossimi tre anni per sostenere il continente. Tra gli accordi conclusi spicca un’intesa da 800 milioni tra Cisco Systems Inc., e Cybastion, per proteggere i paesi africani dalle minacce informatiche. Anche in questo caso nessun riferimento esplicito alla Cina ma è chiaro che i negoziatori americani avessero in mente Huawei & Co.

Mentre, a un primo sguardo, la cifra degli accordi parrebbe elevata (persino superiore a quanto promesso da Pechino durante l’ultimo FOCAC), secondo gli esperti è probabile che nel conteggio sia incluso parte del budget destinato a Banca Mondiale e Fmi, di cui Washington è il principale azionista con il 17,25% delle quote. Non per nulla il portale specialistico The China Global South Project definisce il summit “leggermente deludente”. Giudizio condiviso anche nel continente, dove l’evento pare abbia ricevuto scarsa attenzione mediatica.

Su The Diplomat, Chensi Li e Sena Voncujovi evidenziano tuttavia alcuni aspetti realmente rimarchevoli: l’endorsement di Biden all’ingresso dell’Africa nel G20 come membro permanente – al momento ne fa parte solo il Sudafrica. E l’MoU con il Segretariato dell’African Continental Free Trade Area, l’area di libero scambio più grande al mondo per numero di paesi coinvolti. “L’integrazione dell’Africa nei mercati globali, il boom demografico e lo spirito di imprenditorialità e innovazione in tutto il continente rappresentano una straordinaria opportunità per gli Stati Uniti di investire nel futuro dell’Africa”, spiega la Casa Bianca. 

In generale traspare il tentativo di abbandonare il vecchio approccio paternalistico a base di aiuti allo sviluppo e democrazia per ricalcare l’approccio “business-oriented” della Cina con la finalizzazione di cooperazioni commerciali e nuovi investimenti. Resta il pallino per i diritti umani, per quanto sempre più stemperato dalla realpolitik. Ché fare troppo affidamento sui “like-minded countries” in Africa rischia di diventare un boomerang. 

Così, se non stupisce il mancato invito ai regimi di Burkina Faso, Sudan, Mali, Eritrea e Guinea, in compenso sbalordisce la presenza del presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi, del tunisino Kais Saied – alle prese con una forte protesta interna -, così come del presidente della Guinea Equatoriale, Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, a pochi giorni da una rielezione fortemente contestata dagli Stati Uniti. Secondo voci di corridoio, serviva adularlo per prevenire la presunta costruzione di una base militare cinese sull’Atlantico.

Per dimostrare che non si tratta di un’infatuazione estemporanea, Biden ha annunciato che si recherà nel continente in un prossimo futuro. La segretaria al Tesoro J. Yellen invece è già lì. Proprio in questi giorni si trova nel continente schiacciato dal debito estero. E lo Zambia – di cui la Cina è il principale creditore bilaterale –  è tra le tappe del tour.

Come l’ha presa la Cina? Non ha mangiato la foglia. Commentando il summit, il ministero degli Esteri cinese ha dichiarato che Pechino è “lieto di vedere che tutte le parti della comunità internazionale prestano maggiore attenzione all’Africa”. Ma si “oppone fermamente all’utilizzo dell’Africa come arena per una grande rivalità di potere e all’utilizzo della strategia africana come strumento per limitare e attaccare la cooperazione di altri paesi con l’Africa.”

africa Che di rivalità si tratti lo dimostra l’intesa siglata dall’Agenzia per lo sviluppo internazionale, il dipartimento del Commercio e l’Agenzia per il commercio e lo sviluppo americani per fornire assistenza tecnica e rafforzare il settore dei veicoli elettrici in Zambia e Repubblica Democratica del Congo. Ovvero gli Stati Uniti aiuteranno i principali produttori locali di cobalto e nichel ad ascendere la catena del valore, passando dalla semplice estrazione alla fase di raffinazione. Ci vorrà molto tempo ma l’obiettivo è chiaro: affrancare le nazioni africane dalla Cina che al momento controlla i processi downstream (vedi sotto). 

La strada è lunga. Secondo Statista, tra il 2013 e il 2020, gli Stati Uniti hanno investito nel continente appena 2,1 miliardi di dollari, circa la metà di quanto speso dal gigante asiatico. E il gap sul piano commerciale è anche più evidente: lo scorso anno gli scambi con la Cina, primo partner commerciale dell’Africa, hanno raggiunto il livello record di 254 miliardi di dollari laddove gli States sono fermi a 64 miliardi.

COP15: la Cina tradisce l’Africa 

Dopo giorni di duri negoziati, la COP15 di Montreal, co-presieduta dalla Cina, ha partorito un accordo per la protezione del 30% del pianeta e il ripristino del 30% delle aree marine e terrestri degradate entro il 2030. Il trattato – che  riconosce anche i diritti delle popolazioni indigene – è stato definito “una grande vittoria” dal ministro cinese dell’Ecologia e dell’Ambiente, Huang Runqiu. Ma i paesi africani non la pensano così: se per il Camerun si è trattato di una forzatura, il rappresentante dell’Uganda ha chiesto addirittura di mettere a verbale che non appoggiava la procedura, parlando di frode.

Il pomo della discordia sono come sempre i maledetti, maledettissimi soldi. Le nazioni africane speravano nella creazione di un fondo dedicato alla tutela della biodiversità rispetto a quanto già stanziato dalle Nazioni Unite e di cui beneficiano principalmente Cina, Brasile, Indonesia, India e Messico. La querelle ha un certo peso considerato che Pechino si presenta a tutti i vertici internazionali come portavoce dei paesi emergenti. Appena un mese fa, alla COP27 in Egitto, la Cina aveva affiancato il Sud globale nella richiesta di sovvenzioni da parte delle economie pienamente sviluppate, categoria a cui ritiene di non appartenere. Sempre più chiaramente il caro e vecchio leitmotiv della fratellanza Sud-Sud resta retorica vuota quando gli interessi contingenti richiedono un allineamento con il Nord. D’altronde la Cina può far leva su quel doppio status di superpotenza e paese nella “fase iniziale del socialismo”. 

Debt trap: aggiungi un posto a tavola

Nessuna nuova sui negoziati tra lo Zambia e i suoi creditori. Ma pochi giorni fa Kristalina Georgieva, direttrice del Fondo monetario internazionale, ha fatto sapere che la Cina ha accettato di partecipare a una “tavola rotonda” sul debito sovrano globale che includerebbe varie parti interessate, compresi i creditori del settore privato. Georgieva – che ha definito lo scambio con i funzionari cinesi “molto costruttivo” – si è definita “un po’ più ottimista” riguardo alla possibilità di gestire la crisi debitoria che attanaglia i paesi a basso e medio reddito. La Cina detiene il 12% del debito estero privato e pubblico dell’Africa, pari a oltre cinque volte il valore registrato nel 2000.  Come ricorda un recente studio di Chatham House, “la Cina nella maggior parte dei casi non ha causato crisi del debito africano, ma è la chiave per trovare una soluzione.”

Notizia di ieri il Ghana sospenderà i pagamenti della maggior parte del suo debito estero, andando di fatto in default. L’esposizione nei confronti della Cina ammonta a meno del 10% del totale.

Fonte: Development Reimagened

Gli Stati Uniti non sono i soli a corteggiare l’Africa. Il mese scorso l’Unione Europea ha presentato un pacchetto di finanziamenti infrastrutturali da 776 milioni di dollari per l’Africa resuscitando la Global Gateway. Stando Ursula von der Leyen gli investimenti interesseranno i trasporti, la digitalizzazione e la connettività energetica. “La differenza tra Global Gateway rispetto ad altri progetti infrastrutturali è che c’è trasparenza, c’è una buona governance e c’è l’obiettivo assoluto di dare un valore aggiunto e competenze a livello locale”, ha spiegato la presidente della Commissione europea. Anche in questo caso le allusioni si sprecano. 

Gibuti consegna medaglia a comandante cinese

L’8 dicembre il primo comandante della base cinese di Gibuti è stato insignito della medaglia di più alto livello del paese. È la prima volta che un’onorificenza di così alto livello viene assegnata a un comandante di una guarnigione straniera.

La Nigeria seconda per import di armi cinesi

Secondo il SIPRI, circa il 60% delle armi esportate dalla Cina tra il 2016 e il 2020 è andato in Pakistan, Algeria e Bangladesh. Mentre l’anno scorso quasi il 70% delle vendite di armi cinesi sono state effettuate in Pakistan, la Nigeria è salita al secondo posto nella lista dei clienti di Pechino.

In questi giorni si è parlato molto del caso delle misteriose stazioni di polizia cinesi in Italia e altri paesi occidentali. Da noi fa notizia, ma secondo la CNN, in realtà la  Cina ha iniziato a coltivare rapporti con le forze dell’ordine sudafricane quasi vent’anni fa, arrivando a creare una rete di “Centri servizi cinesi d’oltremare” in collaborazione con il governo locale attraverso trattati bilaterali di sicurezza. Certo, c’è una bella differenza: da noi non è stato mai firmato alcun accordo. 

Il soft power cinese in Africa è troppo soft

Secondo un sondaggio di DoubleThink Labs, il Pakistan è il paese in cui l’influsso cinese è più forte in termini di ascendente economico, politico nonché di influenza culturale e mediatica. Il primo paese africano è il Sudafrica, solo in quinta posizione. Un dato controintuitivo se si considerano i fiumi di inchiostro sul soft power cinese nel continente fin dai primi investimenti della TV statale cinese CCTV. 

La Cina diffonderà la propria propaganda in Africa grazie a satelliti europei. E lo farà dal Xinjiang per giunta. Secondo il SCMP, l’intenzione è quella di inviare segnali TV ad alta definizione da una stazione di terra collocata nella regione cinese occidentale dello Xinjiang a E7C, un satellite per comunicazioni di fabbricazione statunitense e di proprietà della società parigina Eutelsat. Molto candidamente l’ingegnere capo del progetto Liu Ming ha affermato che il progetto fa parte di una campagna strategica lanciata dal Comitato centrale del Partito comunista “per rafforzare la capacità di comunicazione internazionale e promuovere la cultura cinese all’estero”.

Controllare le miniere congolesi con un’app

Le aziende minerarie cinesi hanno cominciato a gestire la produzione di cobalto nella Repubblica Democratica del Congo da remoto con smartphone e laptop. Un sistema estremamente vantaggioso considerata la dislocazione dei giacimenti in aree remote e turbolente del paese. A differenza di quanto avviene in Cina, dove le operazioni sono automatizzate, in Africa la maggior parte dei dati viene tradizionalmente raccolta dai dipendenti locali ed elaborata manualmente prima di essere inviata in Cina. La RDC produce il 70% del cobalto mondiale e più dell’80% delle miniere locali sono di proprietà cinese. 

A cura di Alessandra Colarizi

Per chi volesse una panoramica d’insieme, il 2 settembre è uscito in libreria “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro” (L’Asino d’Oro, 14,00 euro). Partendo dal racconto dei primi contatti nella storia, il testo cerca di restituire un’immagine a tutto tondo dei rapporti sino-africani, superando la dimensione puramente economica. Mentre la narrazione dei mass media ci bombarda quasi ogni giorno con le statistiche del debito africano e degli investimenti cinesi, “Africa rossa” cerca di riportare al centro della narrazione gli scambi politici e socio-culturali tra i rispettivi popoli.