BRI

Africa rossa – Il terzo Belt and Road forum e la risposta dell’Occidente

In Africa Rossa, Relazioni Internazionali by Alessandra Colarizi

L’Ue corteggia l’Africa all’indomani del Belt and Road Forum. Il debito africano aumenta e gli investimenti cinesi calano. L’ideologia torna al centro dell’agenda estera cinese, mentre Pechino punta a sviluppare settori più sostenibili e a minore intensità di capitale – non senza incappare in qualche incidente di percorso. Un bilancio delle relazioni tra la Cina e il continente africano nell’ultima puntata di Africa rossa a cura di Alessandra Colarizi.

Lo avevamo anticipato nella nostra rassegna quotidiana: il nuovo corso della Nuova via della seta, (definito durante il terzo Belt and Road Forum) sarà caratterizzato da progetti “piccoli e smart”. Ma piccoli fino a un certo punto. Dopo anni di ristrettezze, Xi Jinping ha annunciato l’immissione nella BRI di circa 100 miliardi di dollari, tra nuovo credito bancario e rabbocco del Silk Road Fund. Contestualmente, la rinnovata attenzione per i corridoi logistici rievoca la missione originaria del piano, accantonata nell’ultimo quinquennio per dare maggiore spazio alla cooperazione sanitaria e digitale. Più che un ritorno alle spese imprudenti della fase di lancio, la promessa di nuovi finanziamenti a nove zeri e collegamenti di trasporto sembra soprattutto voler smentire la morte prematura della Nuova via della seta, che in Occidente viene spesso superficialmente associata alla cosiddetta “trappola del debito”.  

Mentre la partecipazione al forum è stata più limitata che in passato, l’Africa non ha mancato di fare numero: Xi ha incontrato il primo ministro etiope, Abiy Ahmed, nonché i leader di Nigeria, Kenya, Mozambico e Repubblica del Congo. La Cina si è impegnata ad aumentare le importazioni di prodotti agricoli africani, e a investire nell’industrializzazione, nello sviluppo verde e nell’economia digitale del continente. Tra gli accordi più rilevanti spiccano:

 

  • In Etiopia Shirshir Addis Business Group e China Sinoma International Engineering hanno siglato un accordo da 1 miliardo di dollari tra per la costruzione di una fabbrica di cemento, un impianto di lavorazione alimentare e un impianto di assemblaggio di automobili. Abiy ha inoltre discusso il congelamento del debito (1,3 miliardi di dollari in scadenza nell’anno fiscale fino al 7 luglio 2024) annunciato precedentemente da Pechino.
  • In Egitto, diverse aziende cinesi si sono impegnate a stabilirsi nella zona economica del Canale di Suez per condurre progetti nei settori tessile e dell’abbigliamento per un valore di 100 milioni di dollari. Quanto prodotto sarà in buona parte spedito in Europa. Tra le altre cose, Il Cairo ha anche siglato un MoU per lo swap del debito per progetti di sviluppo.
  • La China Exim Bank invece ha firmato un accordo di prestito da 600 milioni di dollari con Afreximbank, istituzione multilaterale panafricana, per finanziare il commercio tra i paesi africani e la Cina.

Torna invece a casa a mani vuote William Ruto. Il presidente keniota si era recato a Pechino per il forum BRI con la conclamata speranza di ottenere dal governo cinese 1 miliardo di dollari per ripagare quanto preso in prestito per la costruzione della ferrovia Mombasa-Nairobi. Il progetto infrastrutturale più costoso della storia del Kenya, dal 2017 ha incassato 619 milioni di dollari. Cifre “senza dubbio impressionanti” – dicono gli esperti di The China-Global South Project – ma non sufficienti a coprire i costi operativi giornalieri. Pare che Ruto stia pensando di replicare il modello della public-private partnership utilizzato per finanziare la superstrada costruita a Nairobi dalla China Road and Bridge Corporation. Un recente studio della Peking University (“A Study on the Effectiveness of China’s Sovereign Financing in Africa”) mette in luce alcuni benefici dell’opera ad esempio nella riduzione delle emissioni. 

E infatti, come scritto spesso su queste colonne, i numeri giustificano sempre meno l’interesse di Pechino, che è invece chiaramente sempre più politico ed ideologico. Per Wang Yiwei, docente della Renmin University, la BRI era stata creata per risolvere i problemi economici della Cina. Ora invece la sua missione è salvare la globalizzazione dal populismo e da quelle voci che chiedono divisione e disaccoppiamento, spiega l’esperto. La Nuova via della seta va quindi a creare una relazione sinergica con le più nuove Global Development Initiative, Global Security Initiative e Global Civilization Initiative. Dello stesso parere Fan Hongda, esperto di Medio Oriente, che ho intervistato per Domani. 

Per questo mi sento di non condividere l’analisi di David Shinn, docente presso la Elliott School of International Affairs della George Washington University, secondo il quale dal punto di vista geografico la BRI si concentrerà più sull’Asia Centrale e la creazione di corridoi logistici verso l’Europa e meno su aree periferiche come l’Africa e l’America Latina. L’ex Terzo Mondo – oggi Sud globale – torna in cima all’agenda estera cinese, come ai tempi di Mao, per controbilanciare l’isolamento a Occidente. In quest’ottica va interpretata la decisione di elevare le relazioni con l’Etiopia a  “partenariato strategico per tutte le stagioni”. Una concessione non da poco considerando che tra gli altri paesi ad aver ottenuto lo stesso status figurano amici storici quali Pakistan e Venezuela. 

PECHINO APRE ALLA GLOBAL GATEWAY EUROPEA (E VICEVERSA)

Nell’ottica di dimostrare l’inclusività della BRI, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha espresso la volontà di collegare il progetto cinese alla Global Gateway, la strategia concorrenziale lanciata dall’UE, e che ha proprio in Africa ha avviato 36 dei 70 progetti annunciati nel primo anno di vita. Porta chiusa invece per la Partnership for Global Infrastructure and Investment, proposta dagli Stati Uniti. Pechino la ritiene un “mezzo per politicizzare le questioni economiche”. La prima ha stanziato 300 miliardi di dollari entro il 2027, la seconda 600 miliardi. In confronto, dal 2013 a oggi, la BRI ha già concluso progetti per mille miliardi di dollari. Gli esperti sono abbastanza concordi nel ritenere i surrogati occidentali un’arma spuntata. Tanto più che, secondo il SCMP, l’efficacia della Global Gateway è stata compromessa dalle crescenti divergenze all’interno dell’Ue tra chi interpreta il progetto come uno strumento geopolitico e chi invece ragiona ancora in termini di aiuto allo sviluppo. Senza contare che – sempre stando alla testata hongkonghese – società statali cinesi – persino il fondo sovrano CIC – sarebbero per vie traverse presenti nell’advisory board creato per studiare l’implementazione del piano. Vedremo se qualcosa di concreto emergerà dal summit che a partire da oggi riunirà a Bruxelles 16 leader del Sud globale per discutere il futuro della nuova via della seta “con caratteristiche europee”. Spoiler di Politico: nessuno dei BRICS sarà presente. 

Con analoga perplessità è stata accolta la notizia che gli Stati Uniti e l’Ue si sono impegnati a potenziare il corridoio ferroviario di Lobito, che percorrendo 1.300 chilometri collega le cinture di rame e cobalto in Zambia e nella Repubblica Democratica del Congo con il porto di Lobito, in Angola. Perplessità motivata anche dal fatto che nella costruzione è coinvolta un’azienda portoghese partecipata dal colosso cinese  China Communications Construction Co. (CCCC). 

Ciononostante, dopo dieci anni di sperimentazione, è indubbio ci siano alcuni nodi da sciogliere. “Non posso negare le sfide o le difficoltà che Cina e Africa hanno incontrato nel finanziare la cooperazione”, ha affermato recentemente Wu Peng, direttore del dipartimento africano presso il Ministero degli Affari Esteri. Queste “sfide” e queste “difficoltà” sono quantificabili grazie ad alcuni studi cinesi e stranieri.  

Radiografia del debito africano

Secondo il Fondo monetario internazionale, la proporzione dei paesi partecipanti alla BRI che ora soffrono di difficoltà debitorie è raddoppiata negli ultimi otto anni. Nell’Africa sub-sahariana, che ospita la maggior parte dei principali mutuatari, diversi paesi hanno subito un declassamento del debito sovrano. Oltre un terzo di tutti i progetti BRI sono incappati in vari problemi durante la fase di implementazione, come accuse di danni ambientali, pratiche corruttive e violazioni delle norme sul lavoro. Ma secondo l’istituto guidato da Kristalina Georgieva non è la Cina la principale causa dell’indebitamento dei paesi africani. L’esposizione debitoria verso il gigante asiatico è cresciuta rapidamente ma ad oggi rappresenta solo il 6% del totale.

Un nuovo rapporto del Global Development Policy Center dell’Università di Boston – attingendo al database Chinese Loans to Africa (CLA) – fornisce un’analisi granulare dello stato dei prestiti cinesi nel continente: dal 2000 al 2022, 39 istituti di credito cinesi abbiano fornito 1.243 prestiti per un importo di 170,08 miliardi di dollari a 49 governi africani e sette istituzioni regionali. I finanziamenti della Cina all’Africa sono aumentati rapidamente intorno al 2006, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008. Dove è finita la maggioranza dei prestiti cinesi? Nei paesi africani a reddito basso e medio-basso, che hanno ricevuto il 90% del totale. Motivo per cui negli ultimi tempi sulla stampa anglofona spesso si tende a equiparare la Cina al Fmi e agli altri istituti multilaterali internazionali, soprattutto dopo l’aumento esponenziale dei prestiti di ultima istanza concessi dalle banche cinesi. Il CLA permette di fare un paragone più preciso. Con 170,08 miliardi di dollari, secondo il database, il totale stimato dei prestiti cinesi nel periodo 2000-2022 si è attestato al 64% dei 264,15 miliardi di dollari erogati dalla Banca Mondiale. Quasi cinque volte i 36,85 miliardi di dollari distribuiti dalla Banca Africana di Sviluppo (AfDB).

Restringendo il focus al più recente periodo 2021- il 2022, il database CLA ha registrato 16 nuovi prestiti nel continente per un valore di 2,22 miliardi di dollari. Per il secondo anno consecutivo l’importo è stato inferiore a 2 miliardi di dollari. La China Exim Bank ha continuato a essere il principale creditore, contando per il 64% di tutto il credito concesso nel biennio preso in esame.

Tra i nuovi trend più interessanti, figura un inusuale interesse per l’Africa occidentale, un tempo di pertinenza francese: nel periodo 2021-2022 i prestiti cinesi sono finiti in Senegal, Benin, Costa d’Avorio, Angola, Uganda, Ghana, Ruanda e Repubblica Democratica del Congo. Un’inversione rispetto al ventennio 2000-2022, contraddistinto da un’attenzione molto marcata per l’Africa meridionale e l’Africa orientale, con in testa paesi come Zambia, Sud Africa, Etiopia e Kenya. Gli analisti evidenziano una deviazione dai paesi più ricchi di materie prime verso gli Stati rivieraschi con affaccio strategico verso importanti rotte commerciali o – dicono alcuni – con rilevanza strategica nell’ottica dell’apertura di nuove basi militari. 

In termini settoriali, i finanziamenti nel periodo 2021-2022 si sono concentrati in trasporti, ambiente, ICT (Information and Communication Technologies), istruzione, difesa, servizi igienico-sanitari/rifiuti/risorse idriche, nonché comparto industriale, commercio e servizi. Complessivamente emerge un graduale spostamento verso quei segmenti che possono esercitare maggiormente un impatto sociale e ambientale positivo.

I numeri della Boston University sono in linea con le stime dell’’Istituto di Nuova Economia Strutturale dell’Università di Pechino, secondo il quale dal 2000 al 2020 la Cina ha prestato 160 miliardi di dollari ai paesi africani. Più interessante è invece la parte dedicata ai benefici del progetto. Tra le altre cose, lo studio sostiene che a ogni aumento dell’1% dei prestiti cinesi abbia corrisposto un incremento dello 0,176% nella crescita economica africana.

Rigettando il mito della “trappola del debito”, L’autorevole docente dell’Università di Tsinghua, Tang Xiaoyang,  spiega perché in realtà sono gli Stati Uniti – o più precisamente il dollaro americano – la vera causa della crisi finanziaria che tormenta alcuni paesi africani. Secondo Tang, i prestiti bilaterali dalla Cina rappresentano generalmente una quota piuttosto piccola del portafoglio debito dei paesi in via di sviluppo, mentre i prestiti denominati in dollari sono molto più diffusi. Questo – secondo Tang – espone i paesi mutuatari ai rischi derivanti dai frequenti aumenti dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve: 11 solo dal marzo 2022. A questo proposito, il South China Morning Post evidenzia come la BRI stia favorendo l’internazionalizzazione dello yuan/renminbi. L’Egitto –  nuovo membro dei Brics – con accesso limitato ai mercati internazionali dei capitali, è diventato a maggio la prima economia africana a emettere panda bond (obbligazione denominata in renminbi) per finanziare progetti verdi e sociali. Oltre il 5% del debito estero di Camerun, Kenya e Tanzania è già denominato in yuan.

“Why hide? Africa’s unreported debt to China” di Kathleen Brown, ricercatrice della Leiden University, spiega perché i governi africani nascondono intenzionalmente i propri debiti alle istituzioni finanziarie internazionali (IFI). Ovviamente per poter continuare a ottenere prestiti dalla Cina senza venire penalizzate dagli IFI a causa dell’elevata esposizione debitoria.

A proposito di istituti multilaterali, l’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) – la superbanca lanciata da Pechino per sostenere la BRI –  sta finanziando un grande progetto per ammodernare migliaia di chilometri di strade nella Costa d’Avorio settentrionale con l’obiettivo di aprire la regione, ancora prevalentemente agricola, al commercio con l’Asia. In tutto la membership dell’istituto conta 13 Stati africani a pieno titolo e otto potenziali membri. 

Una decina di giorni fa, lo Zambia – il primo paese africano ad aver dichiarato default all’inizio della pandemia –  ha annunciato di aver finalmente concordato un memorandum d’intesa (MoU) con i suoi creditori bilaterali per avviare la tanto attesa ristrutturazione del debito. Gli accordi – che andranno definiti con i singoli creditori – prevedranno un’estensione media delle scadenze del debito di oltre 12 anni, con tassi di interesse fissati all’1% durante i prossimi 14 anni e a seguire fino al 2,5%. La Cina è il primo creditore bilaterale di Lusaka contando per 4,1 miliardi di dollari di debiti su un totale di 6,3 miliardi. 

LA CINA ADDESTRA I “LUBAN” AFRICANI

In occasione del 16th Senior Officials Meeting del Forum Cina-Africa (FOCAC ), lunedì Pechino ha tirato un bilancio del piano annunciato nel 2021 a Dakar per ravvivare le relazioni con il continente in nove settori di interesse reciproco (medico e sanitario; della riduzione della povertà e lo sviluppo agricolo; promozione del commercio, promozione degli investimenti; innovazione digitale; sviluppo delle fonti energetiche verdi, capacity building; scambio culturale e interpersonale; pace e sulla sicurezza). Apprendiamo così che finora “la Cina ha inviato in Africa un totale di 23.000 membri di équipe mediche, per un totale di 230 milioni di pazienti curati. Negli ultimi dieci anni, 7.456 tirocinanti africani hanno ricevuto una formazione agricola in Cina. Attraverso progetti come l’invio di esperti cinesi in Africa, sono stati formati più di 50.000 africani e costruiti 23 centri dimostrativi agricoli.”

A questo proposito l’Economist ha dedicato un interessante articolo al programma formativo “Luban”, dal nome di un leggendario falegname cinese vissuto nel V secolo a.C. Dal 2016 la Cina ha creato circa 27 istituti professionali in una ventina di paesi (almeno dieci officine sono in Africa), formando migliaia di studenti in settori che spaziano dall’intelligenza artificiale, ai veicoli elettrici, fino alla robotica. Uno dei workshop più recenti è stato inaugurato il 4 settembre presso la Meru University of Science and Technology, in Kenya. Come spiega il settimanale economico, il progetto non nasce solo con l’intento di promuovere l’emancipazione africana nel nome dell”’amicizia sud-sud”: “I workshop di Luban promuovono la tecnologia e gli standard che la Cina vuole esportare nei paesi in via di sviluppo. L’attrezzatura per il nuovo laboratorio in Kenya verrà fornita da Huawei, che ha contribuito a costruire la rete mobile del paese e ora sta lavorando con il principale provider di telecomunicazioni per implementare i servizi 5G.” 

Nell’attesa che l’Africa allevi i suoi “Luban”, l’export cinese conserva una certa (im)popolarità. Le autorità fiscali keniote hanno avviato un’ispezione su larga scala per verificare se il valore delle importazioni cinesi di molti prodotti sarebbe sottostimato per evitare le tasse. Secondo un’inchiesta del locale Business Daily, mancano dai registri prodotti per 2,9 miliardi di dollari. Da mesi è in corso un braccio di ferro tra e commercianti locali e consumatori, questi ultimi ben lieti di risparmiare comprando il made in China.

LA TRANSIZIONE ENERGETICA PASSA PER IL MAROCCO. NON PER L’UGANDA

La cinese CNGR Advanced Material ha reso noto che costruirà un impianto di materiali catodici in Marocco per rifornire i mercati statunitensi ed europei. Ne ha scritto anche Alberto Magnani sul Sole24Ore, spiegando che il paese nordafricano fa gola per via “dell’affaccio strategico sull’Europa e la ricchezza naturale di fosfato, un ingrediente cruciale nella strategia produttiva del Dragone”. Il tempismo gioca a favore della Cina considerato che i materiali catodici sono centrali nella produzione delle batterie per i veicoli elettrici (VE) e che proprio di recente l’Ue ha avviato indagini anti-dumping sui VE cinesi.

Le rinnovabili stanno ricoprendo un ruolo centrale nel nuovo corso della BRI. Secondo Caixin a fare la parte del leone è il fotovoltaico, triplicato in termini di megawatt rispetto al 2020. Ma non tutti i nuovi progetti cinesi sono “verdi” e virtuosi. Non ha mancato di fare discutere la notizia che la Cina fornirà più della metà dei 3 miliardi di dollari di cui l’Uganda ha bisogno per costruire un controverso oleodotto che i finanziatori occidentali si sono rifiutati di sovvenzionare in seguito alla forte opposizione dei gruppi ambientalisti.

Qualche problema anche nel settore minerario. Il governo della Namibia ha ordinato alla polizia di impedire a Xinfeng Investments di trasportare il litio estratto all’interno del paese e di esportarlo. La società mineraria cinese è accusata di aver violato il divieto sull’export di minerali grezzi critici. Sono sempre di più i paese africani – e dell’America Latina – ad aver introdotto misure per trattenere la fase più redditizia di lavorazione delle materie prime entro i confini nazionali. Non è la prima volta che Xinfeng viene accusata di irregolarità, anche se in passato le autorità giudiziarie le hanno dato ragione.

SOFT POWER, PROPAGANDA E DISINFORMAZIONE

Sulla scia del successo di Ebola Fighters e Wolf Warrior 2, una nuova produzione cinese celebra l’eroismo cinese in Africa. Si tratta della serie TV “Welcome to Milele Village” incentrata sul lavoro condotto da medici e infermieri cinesi in un paese africano immaginario. La fiction è probabilmente stata realizzata per commemorare il 60° anniversario dell’arrivo in Africa della prima squadra medica cinese. Ai tempi di Mao la diplomazia sanitaria aveva connotazioni ideologiche nell’ambito della guerra fredda. Oggi pure ma non solo. Su Sixth Tone Jodie Yuzhou Sun, senior lecturer della Fudan University, racconta la sua esperienza in Zambia e Kenya, dove ha condotto quattro anni di studi per capire cosa ha spinto tanti medici cinesi a restare in Africa e a optare per il settore privato una volta finita la missione. In sintesi, la possibilità di trovare nel continente condizioni di vita migliori.

Nel recente rapporto del dipartimento di Stato americano sulla propaganda/disinformazione cinese all’estero, figura l’operazione di CIC, fondo sovrano cinese, per l’acquisto di una partecipazione del 7% in Eutelsat, operatore francese di flotte satellitari. Secondo le autorità statunitensi, l’investimento permette ai media statali cinesi di raggiungere regioni, come l’Africa, grazie all’impiego di satelliti geostazionari che coprono i due terzi della popolazione mondiale.

Lee Xin, capo del dipartimento dell’agenzia di stampa cinese Xinhua per l’Africa sub-sahariana, ha proposto una nuova partnership con la statale Kenya News Agency (KNA) per “contrastare le notizie false e la propaganda”. La cooperazione mediatica è stata anche oggetto di nuovi accordi durante il forum BRI: una cinquantina le organizzazioni coinvolte, compresa la African Union of Broadcasting.

Mentre negli Stati Uniti gli istituti Confucio continuano a chiudere – 111 hanno già chiuso o sono in fase di chiusura – al contrario restano popolari in molti paesi del Sud del mondo, dove spesso sono l’unico canale attraverso cui poter studiare il mandarino. A marzo Gibuti – uno dei paesi più piccoli dell’Africa – ha aperto una seconda sede. 

GLI USA RINCORRONO LA CINA, GLI EMIRATI AVANZANO

Il Sud Africa ospiterà un vertice commerciale USA-Africa a novembre, nonostante le resistenze del Congresso americano alla luce dell’intensificazione delle relazioni militari tra Pretoria e la Russia. Durante l’incontro, tra le altre cose, verrà deciso il futuro dell’AGOA (“Atto di crescita e opportunità per l’Africa” che scadrà il 30 settembre 2025), il programma commerciale che garantisce l’accesso senza tariffe al mercato statunitense.

Il governo della Tanzania ha siglato un accordo trentennale con la Dubai Port World (Dp World), società emiratina leader nella gestione delle infrastrutture portuali, consegnandole l’uso di diversi ormeggi e banchine nel porto di Dar es Salaam in cambio di investimenti per l’ammodernamento dello scalo. Un’intesa che vale complessivamente 250 milioni di dollari. Il governo punta da tempo a far diventare lo scalo marittimo un hub regionale, e l’accordo concluso tramite la Tanzania Ports Authority dovrebbe consentire al paese africano di aggiornare gli impianti in vista di un riposizionamento commerciale. Per approfondire la penetrazione degli Emirati nel continente consiglio l’analisi di Eleonora Ardemagni per ISPI

A cura di Alessandra Colarizi

Per chi volesse una panoramica d’insieme, il 2 settembre è uscito in libreria “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro” (L’Asino d’Oro, 14,00 euro). Partendo dal racconto dei primi contatti nella storia, il testo cerca di restituire un’immagine a tutto tondo dei rapporti sino-africani, superando la dimensione puramente economica. Mentre la narrazione dei mass media ci bombarda quasi ogni giorno con le statistiche del debito africano e degli investimenti cinesi, “Africa rossa” cerca di riportare al centro della narrazione gli scambi politici e socio-culturali tra i rispettivi popoli.