Usa, Cina, Taiwan e la stabilizzazione del disaccordo

In Relazioni Internazionali by Lorenzo Lamperti

Tra Shangri-La Dialogue, la collisione sfiorata sullo Stretto e i richiami ai lati positivi della guerra fredda, Biden manda in missione due figure chiave a Pechino. Obiettivo realistico? Non un vero “disgelo”

Laura Rosenberger a Taiwan. Daniel Kritenbrink a Pechino. Il giorno dopo la conclusione dello Shangri-La Dialogue a Singapore, gli Stati uniti muovono le pedine su entrambe le sponde dello Stretto, mandando in missione la presidente dell’American Institute in Taiwan e l’assistente del segretario di Stato per gli affari di Asia orientale e Pacifico. Obiettivo: riavviare i canali di comunicazione e scongiurare un ipotetico conflitto che sarebbe “devastante”. È questa l’unica cosa su cui sono sembrati d’accordo Lloyd Austin e Li Shangfu, rispettivamente capo del Pentagono e ministro della Difesa cinese, protagonisti di tre giorni di manovre contrapposte al summit sulla sicurezza asiatica. Tanto che, dopo aver seguito i lavori dello Shangri-La Dialogue, viene da pensare che il massimo risultato nei rapporti tra le due potenze non sia tanto quello di arrivare al disgelo previsto da Joe Biden, ma semmai di evitare che il confronto si trasformi in conflitto.

“In fondo, la guerra fredda ha fatto anche cose buone”, si è sentito d’altronde ripetere due volte a Singapore, come se fosse diventato ora un modello di riferimento. Sia Bill Chipman, a capo dell’istituto che organizza il vertice (IISS), sia il ministro della Difesa della città-stato, Ng Eng Hen, fanno riferimento all’accordo firmato da Usa e Urss sul controllo delle armi nucleari.

Ora sembra che non si possa dare nulla per scontato. Non certo la pace, come sottolineato anche dal premier australiano Anthony Albanese nel suo discorso di apertura in cui ha comunque provato a scrollare di dosso il fatalismo di una “guerra inevitabile” dalla regione: “Il futuro dell’Indo-Pacifico non è preordinato e possiamo scriverlo tutti noi, non farcelo imporre”.

La preoccupazione risuona però soprattutto nelle parole dei paesi di Sud-Est asiatico e Pacifico meridionale. Ng Eng Hen ha sciorinato i dati dell’aumento esponenziale della spesa militare a livello globale e regionale, sottolineando che in assenza di dialogo e pratiche condivise si rischia una nuova corsa al riarmo. Per poi ricordare, sulla falsariga di quanto fatto anche dall’indonesiano Prabowo Subianto: “Questa regione ha subito conseguenze devastanti dallo scontro tra potenze”, ammonisce. Tra i corridoi dello Shangri-La c’è chi abbozza una possibile nuova cortina di ferro, o meglio d’acqua: “Il Pacifico a ovest di Guam agli Usa, il Pacifico a est di Guam alla Cina”. Il padrone di casa di Singapore non ci crede: “Usa e Cina qui per rimanere, devono trovare il modo di convivere in questa regione”.

Da Singapore non arrivano segnali positivi in tal senso. Austin ha criticato i “tentativi di cambiare lo status quo” di Pechino sui territori e i mari contesi. Li ha accusato gli Usa di portare instabilità e caos con una “mentalità da guerra fredda” di divisione tra blocchi. Ancora una volta, al centro della discordia c’è Taiwan. Dopo la collisione sfiorata tra le navi delle due parti sullo Stretto, Li ha giustificato la manovra cinese: “Gli Usa usano la libertà di navigazione come pretesto per esercitare egemonia. Come evitare nuovi incidenti? Non si navighi con imbarcazioni militari troppo vicino al territorio cinese”. Parole che lasciano presagire altri rischi in caso di nuovi transiti. C’è chi sembra dargli ragione, tra le fila del cosiddetto Sud globale. Per esempio José Ramos-Horta. Il presidente di Timor Est prima giustifica l’avvicinamento di diversi paesi asiatici o africani alla Cina: “In tanti erano stati lasciati soli, con Pechino non lo sono più”. E poi chiede a “soggetti esterni” di “evitare azioni provocatorie” su Taiwan. Più cauti del previsto i rappresentanti di Giappone e Corea del sud, così come il Vietnam. Molto assertive le Filippine, con un delegato di Manila che critica il discorso di Li sostenendo che tra le parole (suadenti verso i “fratelli asiatici”) e le azioni (con le manovre intorno alle isole contese) di Pechino c’è “discrepanza”. Le Filippine hanno peraltro partecipato per la prima volta a un quadrilaterale con Usa, Giappone e Australia, facendo un altro passo verso i meccanismi di piattaforme di sicurezza come il Quad.

A Singapore l’unico dialogo tra Usa e Cina è stato quello tra i capi dell’intelligence, che hanno partecipato a quello che Reuters ha definito “conclave segreto”. Segnale che i canali diplomatici ufficiali sono seriamente deteriorati. I delegati cinesi spiegano d’altronde che senza la rimozione delle sanzioni a Li, imposte nel 2018 per l’acquisto di componenti militari da Mosca, sarà molto complicato riaprire i colloqui militari e di difesa. La recente nomina di Li a ministro è funzionale proprio per convincere Washington ad accettare gli ufficiali scelti da Pechino, dunque il suo modello di sviluppo. Li ha non a caso insistito molto sul concetto di “mutuo rispetto”. Entrambe le parti sembrano comunque provare a capire come continuare a parlarsi. Del viaggio di Kritenbrink si sa poco, se non che è accompagnato da Sarah Beran, direttrice del Consiglio di sicurezza nazionale per gli affari della Cina e Taiwan. Obiettivo: “Discutere di questioni chiave nelle relazioni bilaterali”. Il ruolo di Beran e la contemporanea visita di Rosenberger a Taipei fanno capire che molto probabilmente lo Stretto sarà molto in alto in agenda. Non con la pretesa di trovare un accordo, ma magari di “sistematizzare” il disaccordo.

Di Lorenzo Lamperti

[Versione estesa di un articolo pubblicato su il Manifesto]