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Banbiantian – Matrimoni e uguaglianza in Giappone

In Economia, Politica e Società by Agnese Ranaldi

A chi appartiene l’altra “metà del cielo”? Su Banbiantian (半边天 “metà del cielo”) raccontiamo le storie di chi in Asia orientale lotta per la giustizia di genere in tutte le sue declinazioni. In questa puntata affrontiamo il tema dei matrimoni egualitari nel Giappone di Fumio Kishida. 

Negli ultimi mesi le comunità LGBTQ+ hanno dato del filo da torcere al governo conservatore di Fumio Kishida sul tema dei matrimoni egualitari, da anni oggetto di dibattito in Giappone. La resistenza del leader del Partito liberaldemocratico (PLD) e dei suoi colleghi, però, si sta rivelando funzionale a tenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica su un tema che cambierebbe le condizioni materiali di coloro che reclamano lo stesso diritto di sposarsi delle persone eterosessuali. Per il premier giapponese è necessario adottare “estrema cautela” sull’argomento, mentre un sondaggio d’opinione dell’agenzia di stampa Kyodo News ha rivelato che per il 64% degli intervistati le unioni queer dovrebbero essere riconosciute in Giappone. Il 4 febbraio un collaboratore del premier, Masayoshi Arai, è stato licenziato per aver affermato che “non vorrebbe mai vivere nella porta accanto” a quella di una coppia LGBTQ+. Si sarebbe trattato di commenti “incoerenti con la politica del governo”, secondo il leader liberaldemocratico.

Ruoli di genere e “valori tradizionali”

Il primo ministro Kishida ha affermato, in una sessione della Dieta a gennaio, che il riconoscimento legale delle coppie LGBTQ+ è una decisione che potrebbe sovvertire “la struttura della vita familiare in Giappone”. Secondo Kyodo News, infatti, l’argomentazione più diffusa tra gli esponenti del PLD è quella per cui un’evoluzione progressista in tal senso minerebbe alcuni “valori tradizionali della società giapponese.

A questo proposito, è bene partire dalla differenza tra “il concetto di tatemae (建前), che significa apparenza, quello che mostriamo all’esterno” e “honne (本音) – quello che pensiamo veramente e che siamo veramente”, dice Asuka Ozumi, docente di Lingua e cultura giapponese presso l’Università di Torino e presidente del Centro di Studi sull’Asia Orientale (CeSAO). L’omosessualità in Giappone è scandalosa “nella sua dimensione pubblica, non nella dimensione privata”. Secondo Ozumi durante il periodo Edo (1603-1868) era abbastanza normale anche per i samurai, e in generale per le persone che ricoprivano ruoli importanti nella società, “frequentare bordelli con prostituti mentre a casa li aspettava la loro famiglia” basata sulla coppia eterosessuale.

“La repressione, in realtà, non riguarda solamente l’omosessualità ma la libertà sessuale”, dice la docente. Di per sé il Giappone ha una storia di tolleranza dell’omosessualità nella sfera privata. “Tuttora accade che i ‘colletti bianchi’ vadano in ufficio durante il giorno e la sera si trasformano in drag queen”, afferma. Ma il problema si pone nel momento in cui la comunità LGBTQ+ rivendica visibilità. Non solo: pretende riconoscimento giuridico. “Agli occhi del Giappone conservatore queste istanze vanno a sovvertire il concetto tradizionale di famiglia: la mamma-donna da una parte, il papà-uomo dall’altra. Oggi le cose stanno cambiando, ma il ruolo tradizionale del padre resta quello di lavorare fuori casa e quello della madre di occuparsi della famiglia e di crescere i figli.”

Tra i “valori tradizionali” della società giapponese, quindi, c’è anche una concezione di famiglia fondata su un rigido binarismo di genere a cui si aggiunge l’idealtipo della “buona moglie e saggia madre” ryōsai kenbo, celebre durante tutto il ventesimo secolo. Come sottolinea Asuka Ozumi, si tratta della rappresentazione della “donna da sposare, quella che rimane a casa ad accudire la famiglia”, e a svolgere quel lavoro di cura non retribuito su cui si fonda la struttura familiare di buona parte delle società contemporanee.

Il governo conservatore resta ambiguo

Sembra che il destino delle donne giapponesi e quello della comunità LGBTQ+ siano legati a doppio filo. Al vertice dello scorso anno il governo si era impegnato a dare una svolta alla parità di genere nel Paese con un’agenda che includeva la promozione dei diritti LGBTQ+, anche perché quest’anno la presidenza di turno del G7 tocca proprio a Tokyo: unica democrazia del gruppo a non prevedere una legislazione inclusiva sulle unioni omosessuali.

Il governo, infatti, non ha una posizione esplicitamente contro la comunità LGBTQ+. Il deputato di PLD Koizumi Shinjiro della Camera dei rappresentanti della Dieta giapponese, ad esempio, si è interrogato sull’intreccio tra il calo della natalità in Giappone e il matrimonio omosessuale. “Guardando i notiziari su queste dichiarazioni”, ha affermato, “ancora una volta ho l’impressione che gli sforzi del governo per affrontare il declino del tasso di natalità in una dimensione diversa non arriveranno mai a compimento se la loro politica si basa sulla negazione di valori e modi di vita diversi”. Il Giappone, infatti, condivide con l’Italia il podio dei paesi con più del 20% della popolazione al di sopra dei 65 anni (insieme alla Germania).

Secondo Human Rights Watch, il Giappone è tra i paesi sviluppati che registrano le performance peggiori in fatto di leggi sull’inclusione nonostante sia stata lanciata anche la campagna che richiedeva l’introduzione di un “Equality Act” per il riconoscimento legale delle unioni tra persone dello stesso sesso. Ma “il Giappone è un paese dove la partecipazione alla vita politica è esigua, così come l’affluenza alle urne e l’interesse dei giovani rispetto alla politica”, osserva Ozumi. Per il PLD il bacino elettorale è composto principalmente da chi abita nelle campagne. È un elettorato “rurale, legato anche a una mentalità più tradizionalista, e a una fascia di popolazione di età più avanzata”.

A novembre un tribunale di Tokyo si è espresso su una causa di risarcimento intentata da quattro coppie che ritenevano che il divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso fosse discriminatoria. La sentenza del tribunale ha definito il divieto costituzionale, ma il giudice ha affermato che la legge costituisce una violazione dei diritti umani. Per questo gruppi di attivisti e attiviste hanno accolto la sentenza come un “segnale di speranza”.

“Per anni, un disegno di legge sulla promozione della ‘comprensione’ delle persone LGBTQ+ e sulla prevenzione della discriminazione continua a subire ritardi nel parlamento giapponese”, aveva affermato il ricercatore di Amnesty International Boram Jang, “il governo deve mettere in atto misure concrete che pongano fine alla discriminazione che le coppie dello stesso sesso (…) devono affrontare in tutti i ceti sociali”.

Movimenti bottom-up e intersezionalità

Come sottolinea Asuka Ozumi, le rivendicazioni delle comunità LGBTQ+ in Giappone come in altri paesi nascono da una forte spinta dal basso. Si tratta dell’esigenza di “vedersi riconosciuto un diritto” che non ha a che fare con mere questioni di principio ma con la condizione materiale delle persone LGBTQ+. “I giapponesi riescono sempre a trovare una scappatoia”, aggiunge. “Una delle pratiche che è stata più utilizzata in passato [per ovviare al divieto del matrimonio omosessuale, ndr] era quella dell’adozione: uno dei due partner, il più grande, adottava quello più giovane. Creava un legame parentale. Questo tutela le coppie queer nei casi più drammatici: ad esempio quando una delle due persone si trova in ospedale”.

Senza un riconoscimento legale dei matrimoni omosessuali qualsiasi tipo di legge per la “comprensione delle persone LGBTQ+“, come quella promossa per la prima volta dal PLD nel 2021, non ha una reale funzione di cambiamento. Sembra che in Giappone come altrove sbloccare l’impasse sui matrimoni egualitari non possa prescindere da una battaglia intersezionale. Per ora accade che i movimenti per le donne spesso finiscano per appoggiare quelli della comunità LGBTQ+ e viceversa, ma come osserva Asuka Ozumi “non è così chiaro quanto queste battaglie siano portate avanti parallelamente” e quanto invece riescano volutamente a darsi manforte.

A cura di Agnese Ranaldi