Socialismo è grande

In by Simone

E’ uscito in italiano, edito dalla Cooper, il libro della scrittrice cinese Zhang Li Jia, Socialismo è grande. Il libro, proibito in Cina, è stato tradotto in molti paesi. In occasione della pubblicazione italiana, riproponiamo un’intervista alla scrittrice cinese.

Socialism is great è il titolo del libro di Zhang Li Jia, scrittrice e giornalista cinese. Nata a Nanjing, oggi vive a Pechino dopo alcuni anni trascorsi in Inghilterra. Zhang Li Jia rappresenta una delle più gradite sorprese del panorama letterario cinese, o quasi, perché il suo libro, pubblicato in India, Gran Bretagna e Stati Uniti, è scritto in inglese ma è proibito in Cina (ad eccezione di alcune librerie in cui si può comprare).
In Socialism is great, c’è la sua storia, fatta di ribellione e voglia di determinare il proprio futuro. A 16 anni Li Jia è spedita a lavorare nella fabbrica di missili di Nanjing. Una fabbrica militare, con molti segreti e una ferrea disciplina. Cina fine anni 70 e inizio anni 80: quella della riforma, del passaggio, del cambiamento totale per milioni di cinesi. Lei non si taglia i capelli e viene rimbrottata, legge libri inglesi durante i comizi propagandistici e viene ostacolata nei suoi sogni. Una continua lotta, tra disciplina, amori e passione politica. In Socialism is Great la sua esperienza è una cartina di tornasole di un periodo storico che per la Cina non si è ancora concluso.

Li Jia aveva un sogno principale: imparare l’inglese e diventare una giornalista. Imperterrita. Nel 1989 organizza una dimostrazione in solidarietà con gli studenti cinesi. Viene fermata, le sue impronte digitali vanno a fare compagnia a quelle di tante altre. Lei, alle accuse di polizia e capi, risponde con le citazioni di Mao: ribellarsi è giusto, ma anche, dove c’è repressione, c’è ribellione, lasciando in silenzio i solerti funzionari dell’ordine del Partito. Il libro finisce lì, in quell’anno, durante quegli eventi, ancora oggi tabù innominabile nella Cina che avanza, che compra, che impera. Lei invece ha proseguito la sua storia, diventando una giornalista che scrive su giornali stranieri e riceve interviste dai media di tutto il mondo. Invitata a tanti incontri, festival letterari e speech, l’ultimo all’ambasciata statunitense di Pechino, celebra il suo ruolo, quello che voleva essere quando lavorava in fabbrica: un ponte tra Cina e Occidente.

E’ solare, gira per Pechino in bicicletta, sfrecciando con i suoi vestiti colorati, a testimonianza di una vitalità e determinazione forte. Su alcuni periodici stranieri pubblicati in Cina, le sue recensioni o interviste vengono letteralmente stracciate dalla censura cinese, ma il suo scopo si racchiude proprio in questa bizzarra considerazione: raccontare le contraddizioni del suo paese. Che ama, rispetta e vorrebbe semplicemente, più vicino al suo modo di pensare. E di cui sfrutta quel lento e impercettibile cambiamento, anche in tema di libertà di opinione.

Nel suo libro di memorie, si incontrano spesso dialoghi molto serrati sulle questioni politiche di allora. Come mai quando c’era più controllo si parlava di politica e oggi invece non se ne parla, nonostante le aperture?
La Cina negli anni 80 era un paese molto diverso. Quegli anni credo siano stati i più interessanti, un periodo molto vitale, affascinante. Il paese cominciava a cambiare, perché prima, durante la rivoluzione culturale, la Cina era completamente isolata dal mondo, c’eravamo imposti un auto isolamento. Prima degli anni 80 pensavamo di vivere una vita felice, mentre negli Usa o a Taiwan ad esempio pensavamo vivessero una vita di sofferenze, terribile. Quando ci siamo aperti abbiamo scoperto un mondo diverso, differente da come lo conoscevamo. Abbiamo cominciato a parlare di tante cose, diritti, democrazia e a Nanjing ad esempio, nell’università, tutto le lezioni erano stimolanti, si parlava di Freud, Nietsche, era un continuo dibattito riguardo il futuro del nostro paese. Oggi tutto questo è considerato pericoloso. Dopo il 1989 il governo cinese ha trasformato le teste delle persone, indicandogli la strada: i soldi. Così che tutte le energie vadano a finire lì, a fare soldi, pensare ai soldi, come gestirli come farne di più. In questo senso oggi ci sono anche moltissime libertà che prima non c’erano. Oggi un cinese, almeno nelle grandi città, può scegliere che tipo di vita fare. Prima non era possibile. Certo, parlare di riforme o politica, oggi è proibito, off limits. Per questo ai giovani oggi la politica non interessa. Godetevi le libertà, ma non parlate di politica…

Qual è la causa secondo lei?
Soldi, solo i soldi.

Cosa pensa della “vita nel presente” dei cinesi e la mancanza di una memoria storica riguardo a eventi anche recenti, come la rivoluzione culturale?
Il motivo è che non se ne sa abbastanza. Non ci sono musei, non abbiamo mai affrontato realmente quell’evento, perché il governo non ne vuole parlare, come il 1989 del resto. Della rivoluzione culturale ricordo la mia infanzia piacevole e mia madre, accusata di essere controrivoluzionaria e interrogata, presa e anche picchiata. Poco altro. Una pazzia. Ho chiesto alcune cose a mia madre per scrivere il mio libro, ma nessuno vuole ricordare, perché fu un periodo di sofferenze costanti. Dimenticate il passato, dicono i cinesi e anche il governo. Mao ebbe le sue parti di responsabilità, ma era il sistema ad essere sbagliato. Lui fu autorizzato a diventare un mostro. Ancora oggi però è impossibile avere un’idea precisa di cosa accadde.

In una articolo sull’Observer, pubblicato un anno fa, rimproverava i media occidentali di ergersi a giudici, invitando ad una conoscenza più approfondita della Cina. In un anno, dopo le Olimpiadi, è cambiato qualcosa?
Un giornalista inglese che ho incontrato tempo fa, era rimasto sorpreso dal fatto che la Cina sia oggi un paese così avanzato, moderno. E invece siamo famosi solo per altre cose…Invece di essere open minded, spesso si preferisce avere un’idea preconfezionata della Cina. Pensa solo a quanto successo in Tibet. Una cosa veramente complicata, ma non penso che i media occidentali abbiano fatto un buon lavoro. Certo il governo cinese avrebbe fatto meglio a fare arrivare là i giornalisti, così da vedere realmente cosa accadeva. Ma tutti hanno parlato di rivolte, mentre non fu una rivolta politica, voluta dai monaci, fu una lotta razziale, contro gli han. Chiaro che molti tibetani non sono contenti, ma i cinesi hanno fatto tanto per loro.

Perché secondo lei il Tibet ha così successo, specie nell’ambito dei media stranieri?
Perché il Dalai Lama è un personaggio esotico, perché il Tibet molti lo immaginano in modo fantasioso, non sanno cosa sia meglio per risolvere la questione. Prima del 1951 il Tibet era un posto terribile. La causa tibetana ha successo anche perché il governo cinese non ha idea di come si gestiscano le pubbliche relazioni, al contrario del Dalai Lama.

Quindi uno straniero cosa dovrebbe fare per capire meglio il suo paese?
Essere aperti, girare la Cina, perché Pechino è solo una parte della Cina. E poi farsi degli amici cinesi, semplice.

Nel suo libro riguardo Tien’anmen ci sono molte considerazioni. Ancora oggi tanti ritengono che una delle cause principali fosse la corruzione del Partito. E’ cambiato qualcosa in vent’anni?
C’è ancora corruzione, è un prodotto dello sviluppo. Qualcosa però è cambiato. Non abbiamo un sistema politico e dei media trasparenti, ma rispetto a prima la corruzione non è il problema più importante.

Qual è il più importante?
La povertà e la disparità sociale, tra ricchi e poveri. E’ un conflitto che costituisce un problema. Penso che sia per quello che il nostro governo parla di armonia, ma la nostra non è una società armonica. La vera domanda è quanto sia sostenibile questa crescita, senza un aumento degli spazi democratici. Ma in Cina si stanno giocando tante sfide importanti, ambiente, democrazia, corruzione. Io credo sarà un passaggio lento e graduale, quando ci si accorgerà che le aperture faranno andare meglio le cose.

Cosa intende per democrazia?
Elezioni, il voto, diritti, separazione dei poteri, sistema dei media trasparente.

Chi può essere il soggetto che guida questa trasformazione?
Io credo sia la classe media e intendo i professionisti, persone che hanno studiato, imprenditori e intellettuali, quelli che sono stati all’estero e che sono tornati indietro. Per fare un esempio, la gente da tempo ha cominciato a chiedere la possibilità di discutere come concepire il proprio quartiere, le strade, la vita. Vorrebbero solo dire la propria. Non vogliono andare in giro a protestare, creare problemi. Vogliono solo premere sul Governo, dire la propria idea, facendo le cose, collaborando. Il governo cinese è veramente elastico e penso che la middle class insieme al governo cinese possano essere i driver del cambiamento. Loro per sopravvivere devono aprirsi. Ho incontrato Peter Mandelsson (politico laburista britannico, indicato da molti come principale artefice del concetto di New Labour, ndr) era stupito dalla conoscenza dei cinesi della politica inglese. E la sua impressione è che il Partito Comunista non voglia lasciare il potere, ma diventare in qualche modo più popolare. E in effetti lo sta facendo, togliendo tante cose stupide che prima erano la regola, come l’esame per la verginità prima di sposarsi, è un esempio naturalmente. Devono rinnovarsi, per rimanere al potere. La società cinese è molto materialista, ma le persone hanno diversi livelli di vita, quando hai fame non ti interessa la democrazia, ma quando elimini i problemi materiali, ritorna il bisogno di spiritualità, di ideali.

Lei ha lavorato in una fabbrica, cosa pensa delle condizioni di lavoro attuali nelle fabbriche cinesi?
La mia fabbrica era militare, la vita era tutta controllata, nei minimi dettagli, ma le condizioni di lavoro non erano male. Non lavoravamo così tanto, oggi invece, sono andata a vedere, le condizioni di lavoro delle donne sono terribili. Il mio prossimo libro sarà sulla prostituzione delle ragazze che lavorano nelle fabbriche. E’ un grosso problema, realmente doloroso. Le donne non godono di nessuna protezione. La mia fabbrica provvedeva a tutto: casa, spese sanitarie, libreria, cinema. Ti controllavano anche la vita, ma lavoravamo meno.

Le manca qualcosa di quel periodo?
Penso l’idealismo. Abbiamo perso molta innocenza. Incontro ancora alcuni amici dell’epoca, ma mi manca la passione di quel tempo: l’amicizia e l’innocenza che ci voleva desiderosi di fare della Cina un posto migliore.

[Pubblicato da Il Manifesto del 9 maggio 2009]