L’impatto globale del «vino del Drago»

In by Gabriele Battaglia

Yantai Changyu Pioneer Wine si sta espandendo oltremare. Ha comprato di recente la cantina spagnola Marques del Atrio, ma sta pensando di espandersi in Australia, Cile e Francia, dove già possiede un vigneto di cognac e una cantina di Bordeaux. Un’espansione che potrebbe cambiare il modo di bere vino in tutto il mondo.  «Che vuoi che ti dica? Un castello semi-medievale appena fuori Pechino e vino quasi imbevibile».
Così, John Salamini, titolare della cantina Luretta, sintetizza la «qualità» di Yantai Changyu Pioneer Wine, il più antico brand cinese, che sta spendendo e spandendo in giro per il mondo per ampliare il proprio business.
Eppure la compagnia esiste fin dal 1892 quando – dice la letteratura agiografica – il signor Zhang Bishi, «un patriottico cinese d’oltremare che voleva promuovere l’industria nella propria terra», aprì l’attività a Yantai, Shandong, dove fu piantata la prima vigna e costruito il primo castello simil-Bordeaux o simil-Loira. Come quello nei pressi di Pechino, nel quale un’armatura medievale ti accoglie all’ingresso della cantina. Ma ce ne è uno anche in Nuova Zelanda. Il signor Zhang, poveretto, lui morì di «mal di denti non diagnosticato».

Nel 2015, l’azienda dello Shandong ha comprato per 40 milioni di dollari il 75 per cento della cantina spagnola Marques del Atrio e il suo general manager, Sun Jian, dice ora a Reuters che è in trattativa per acquistare produttori di vino di medie dimensioni in Australia, Cile e anche Francia, dove già possiede un vigneto di cognac e una cantina nel Bordeaux.

Una strategia a tutto campo di cui beneficia anche l’Italia, visto che la varesotta Ilva – quella dell’Amaretto di Saronno, non dell’acciaio – possiede un pacchetto di minoranza di Changyu, che fa il 90 per cento del proprio fatturato in Cina e che vorrebbe ampliare le proprie vendite all’estero fino al 30 per cento almeno. L’azienda dichiara di controllare ben il 50 per cento del mercato cinese e di valere 500 milioni di euro di capitalizzazione.
Oggi, il mercato vinicolo cinese è quello più velocemente in crescita e tra il 1995 e il 2010 il consumo pro capite è raddoppiato. Tuttavia, resta del 40 per cento inferiore a quello della piccola Francia. Questo, più che scoraggiare, indica incredibili margini d’espansione.

Il modello di business è piuttosto chiaro se si prende a esempio l’acquisizione di Marques del Atrio. Ora, Changyu vorrebbe che il prodotto della sua controllata diventasse «il vino spagnolo numero uno sul mercato cinese, il vino di riferimento», dichiara lo speranzoso general manager. Al tempo stesso, si propone di conquistare una fetta del mercato spagnolo con il proprio prodotto di massa, il «Noble Dragon», un vino sia bianco sia rosso fatto in Cina con uve Cabernet Gernischt e Cabernet Sauvignon: 400 milioni di bottiglie prodotte nel mondo.

Fin qui tutto bene, una gloriosa storia imprenditoriale che si fa forza dell’economia di scala. Ma proprio perché «vino» ed «economia di scala» spesso non coincidono, la vicenda Changyu diventa forse metafora di un certo modo di intendere il business, alla cinese, che fa sollevare il sopracciglio a parecchi.

Davide Orbolato è China Country manager di Cavit. «Sarebbe meglio che i cinesi facessero meno operazioni commerciali e lavorassero di più sulla qualità del vino», dice. «Dovrebbero consolidare il proprio brand per vendere sempre più e sempre meglio sia in Cina sia all’estero, non comprare il vino da altri».
«Sai che c’è? Non credono nel prodotto, per loro è un investimento che si accompagna alla proprietà immobiliare», aggiunge Salamini. «Diventano delle finanziarie. Trovano che in Spagna qualcuno vende la cantina per due lire, si fanno forza del renminbi forte – finché dura – e convertono la moneta in bene. Ma i driver sono il guadagno immediato nell’arco di cinque anni, mentre sappiamo benissimo che il vino richiede altri modi e altri tempi. Se poi il renmimbi scende, hanno sempre il bene immobile in Spagna o il castello della Loira alla periferia di Pechino».

Senza voler fare rischiose recensioni sull’effettiva qualità del vino di Changyu – ché non ne siamo capaci, ma la vox populi (occidentale) non appare troppo convinta – il problema qui appare quello della sostituzione di una filosofia di cura del prodotto con una di commercializzazione spinta. Si possono immaginare scenari apocalittici, con quei 400 milioni di bottigli che invadono il mercato spagnolo e poi, forse, quello europeo. Che impatto può avere il «vino del Drago» sulle nostre abitudini al bere?
La domanda è la stessa che rimbalza ogni volta che la Cina si lancia nella corsa globale: saremo noi a cambiarla o sarà lei a cambiare noi?