Da un lato il governo cinese, con la voce del premier Li Keqiang, assicura che la crescita ci sarà e che tutto andrà bene. Dall’altra i lavoratori cinesi, con le proteste, gli scioperi, sottolineano che questa fase dell’economia nazionale è a rischio soprattutto per loro. Ristrutturazioni e rallentamenti stanno creando due paesi sempre più paralleli: quello dei funzionari e quello dei lavoratori.Come ha sottolineato il New York Times in un ampio reportage, nelle scorse settimane sono stati centinaia «se non migliaia» i dipendenti «arrabbiati» della statale Longmay Mining Group, la più grande azienda di carbone nel nord-est della Cina, ad avere messo in scena «una delle proteste più politicamente audaci sugli stipendi non ancora pagati, denunciando il governatore della provincia, mentre lui e altri alti dirigenti erano riuniti per un meeting annuale a Pechino».
Il China Labor Bulletin, organizzazione che si occupa dei diritti del lavoro e che ha sede a Hong Kong, ma non per questo è da ritenersi inaffidabile, anzi compie un ottimo lavoro sul campo specie nel sud della Cina continentale, ha registrato più di 2.700 scioperi e proteste lo scorso anno, più del doppio rispetto al numero nel 2014.
Le contestazioni sembrano essersi «intensificate negli ultimi mesi, con più di 500 proteste nel solo mese di gennaio».
La maggior parte delle manifestazioni «si sono astenute da attacchi politici e si sono focalizzate sulle rimostranze in termini di salari arretrati, i benefit non pagati, come i contributi pensionistici e le condizioni di lavoro insicure».
Secondo il quotidiano americano, «la marea di proteste sembra aver subito un’impennata da quando Xi ha contemplato un enorme ridimensionamento della sovra-produzione delle industrie statali cinesi», che producono molto più in acciaio (i dati al riguardo sono clamorosi, perché la Cina produce più di svariati paesi messi insieme), cemento e altri beni rispetto alle esigenze del mercato.
Secondo un recente studio, più di 3 milioni di lavoratori potrebbero perdere il posto di lavoro nei prossimi due anni, mentre l governo ha già annunciato l’intenzione di licenziare 1,8 milioni di lavoratori del carbone e dell’acciaio. E secondo Reuters, che avrebbe consultato fonti affidabili, il numero sarebbe addirittura superiore (sei milioni).
La Cina «ha spuntato il settore statale di oltre 30 milioni di lavoratori nel corso di un’ondata di privatizzazione e di ristrutturazione alla fine del 1990 e nei primi anni 2000. Ma l’economia era in piena espansione, allora, si creavano milioni di posti di lavoro in nuovi settori. Si è ancora in crescita oggi, ma al suo ritmo più lento da un quarto di secolo».
Crescita che la dirigenza dice sarà garantita, ma i dubbi non sono pochi. Il premier Li Keqiang ha specificato e rassicurato: la Cina è in condizioni di raggiungere il suo obiettivo annuale di crescita economica mentre spingerà in avanti le riforme dal lato dell’offerta.
Il paese ha gli strumenti politici per ancorare l’economia se «dovesse scivolare al di sotto della gamma appropriata», ha detto Li nel corso di una conferenza stampa, sottolineando «l’ampio margine per gli investimenti che rilancino l’economia – nelle regioni centrali e occidentali sottosviluppate, ad esempio. Nuovi motori di crescita saranno coltivati per compensare il ruolo indebolito dei settori tradizionali a contribuire alla crescita economica. Svilupperemo la nuova economia – vale a dire, che favoriremo nuovi motori di crescita per contribuire a promuovere la ristrutturazione economica».
[Scritto per Eastonline]