Giappone, a qualcuno piace la campagna

In by Gabriele Battaglia

Le migrazioni interne al Giappone si possono riassumere in due lettere: "U" e "I". Si tratta di due schemi di fuoriuscita dalle grandi metropoli dell’arcipelago. Da una parte c’è chi va e dopo gli studi ritorna in campagna. E c’è chi in maniera più radicale, esce dalla metropoli per andare in campagna. Un tratto in comune: la ricerca di una vita più sostenibile e di una dimensione più umana. Un reportage da Nagano. La prima cosa che Mariko Yumoto mi mostra quando si accende la spia della webcam sono casse e casse di mele riposte in quello che sembra un piccolo garage. Sono tutte di un rosso vivo, della stessa grandezza e della stessa perfetta rotondità. Poi mi mostra altri chili e chili di pesche. Yukino Suzuki, che ha risposto alla mia videochiamata dal suo cellulare, mi mostra un’anticamera dove ha già sistemato le borse piene di frutta che manderà a casa dei suoi genitori, a Morioka, nel Nordest del Giappone. Quest’anno cos’è venuto meglio, le mele o le pesche?, chiedo. «Le pesche sono buonissime quest’anno. Merito del bel tempo», mi rispondono in coro dall’altra parte.

Da cinque anni, Suzuki viene da una grande città, Sendai, nel Nordest del paese, e lavora come curatrice allo Shiga Kogen Roman Museum, un piccolo museo a Yamanouchi, piccolo borgo termale tra le montagne della prefettura di Nagano, poche centinaia di chilometri a nordovest di Tokyo. Roman perché sono custoditi anche reperti archeologici romani — «Sai com’è: con la bolla economica i ricchi della zona avevano scoperto la loro passione per l’archeologia…» — e perché ai fondatori ricordava l’aggettivo «romantico». Yumoto, invece è nata e cresciuta qui, a Yamanouchi, ma dopo le scuole è andata a Yokohama, la seconda città più grande del Giappone. Da pochi anni è tornata a casa per dare una mano alla sua famiglia con l’azienda agricola. Ha anche preso il patentino di caccia, e, nel tempo libero, ha iniziato a partecipare a incontri di degustazione di carne di orso, che qui, come in poche altre zone del Giappone, si mangia ancora.

In modo diverso, Suzuki e Yumoto sono parte di un moto migratorio interno, in molti casi di ritorno, che da quasi trent’anni contribuisce alla sopravvivenza delle comunità di provincia. Li chiamano I- o U-turners. I primi sono appunto coloro che da una grande città decidono di spostarsi in provincia. Gli altri sono quelli che, nati in provincia, vanno a studiare o lavorare in una grande città, per poi fare il percorso inverso. Qualche studioso aggiunge a queste due categorie anche i J-turners, quelli che nati in provincia, si trasferiscono in una grande città e poi scelgono di spostarsi in una città di seconda fascia. Il loro è un movimento che sfugge, in tutto o solo in parte, alle logiche del tokyocentrismo — cioè la concentrazione delle principali istituzioni, in campo educativo e amministrativo, e attività produttive nell’area della capitale — e fa parlare di «rivitalizzazione» delle province. L’attuale governo e le amministrazioni locali sono da tempo impegnate per alleggerire la pressione demografica sulla capitale: così, da una parte si discute di decentrare l’amministrazione statale fuori Tokyo e dall’altra si cerca di investire in pubblicità e place branding per attirare turisti e nuovi residenti. Il governo della provincia di Nagano ha deciso ad esempio di affittare uno spazio su tre piani nel pieno di Ginza, uno dei quartieri più di classe di Tokyo, per sponsorizzare le bellezze naturalistiche del suo territorio, promuovere la gastronomia e i prodotti tipici, e offrire assistenza a quanti volessero trasferirsi e cercare un lavoro.

È passato un anno da quando, con Suzuki, un’amica di lunga data, ho visitato la casa della famiglia Yumoto, proprio nella provincia di Nagano. Le due si erano conosciute qualche tempo prima. Avendo la stessa età — circa trent’anni — e diverse conoscenze in comune avevano iniziato a frequentarsi. Era però la prima volta che Suzuki riceveva un invito a casa Yumoto. «Qui in montagna, alla fine ci conosciamo un po’ tutti, ma resta comunque un po’ difficile entrare in confidenza».

Per arrivare a casa Yumoto, da Yamanouchi ci avevamo messo quasi un’ora in macchina. Dopo un pezzo di autostrada, avevamo preso una strada provinciale tutta salita e curve. La casa era al termine di questa a un chilometro da una struttura che funzionava da “casa del quartiere”, una struttura dove i pochi abitanti del luogo potevano ritrovarsi. Quel giorno, quella specie di container solitario nel buio sembrava piuttosto animato.

Superata l’edificio sulla sinistra, la strada continuava nell’oscurità. I fari dell’auto riuscivano a malapena a illuminare la strada a distanza di pochi metri. A un certo punto, avevo scorto un’altra casa con un grande cortile. La macchina aveva iniziato a rallentare e con un cenno, Yukino mi aveva fatto capire che eravamo arrivati.
Solo una luce che proveniva da un salone e filtrava attraverso i vetri di una porta finestra illuminava un cortile sterrato. A poca distanza si intravedeva un garage e un’auto parcheggiata fuori. Oltrepassato di poco il cortile, Suzuki aveva fermato l’auto su una piccola salita.

Dopo mesi di Tokyo avevo perso l’abitudine all’oscurità. Sceso dalla macchina non sapevo bene dove mettere i piedi. Intorno sentivo un frusciare di vegetazione, ma non riuscivo a distinguere chiaramente i contorno delle piante. Poi pian piano iniziavo a distinguere il profilo di una montagna coperta di sempreverdi e, più a valle, scorgevo quelli che parevano filari. Più in alto, un cielo nero illuminato da milioni di stelle, tante come mai ne avevo viste da quando qualche mese prima ero arrivato in Asia.
Alle nostre spalle c’è una casa costruita in stile tradizionale di cui intravedevo una grande porta finestra. Ne usciva una luce bianca che illumina un tratto di cortile. Yumoto ci era venuta incontro per salutarci e ci aveva allungato delle torce elettriche. Dopodiché ci aveva invitati a vedere il suo «ufficio»: una collina coltivata ai piedi di un bosco. Un breve tour in cui, nonostante le torce, avevamo brancolato nel buio.

«Dal bosco spesso escono le scimmie e vengono a mangiarci la frutta. Pomodori, mele, pesche, cetrioli. Mangiano tutto», mi avvisa Yumoto. «Qui intorno, ci sono anche altri animali: soprattutto cinghiali e orsi». Il ramo che si spezza un secondo dopo mi aveva fatto sussultare.

Poco dopo eravamo tornati verso il cortile della casa. Yumoto aveva iniziato a preparare la cena: un barbecue di verdure, tutte naturalmente di produzione propria: pannocchie, melanzane, peperoni e pomodori; poi cetrioli freschi e miso, una pasta a base di soia e amido di riso fermentati onnipresente sulle tavole giapponesi: anche quello, rigorosamente, fatto in casa. «Sugoi», letteralmente «Fantastico», avevo ripetuto usando un’espressione fin troppo inflazionata.

Quel barbecue mi aveva dato un piacere sovversivo: stavo nel mio piccolo sabotando quella catena di produzione alimentare iper-regolamentata e iper-controllata che fa arrivare sul mercato di verdura e frutta dalla forma perfetta e dal colore uniforme, prevedibile nel gusto e imballata allo sfinimento. Qui lo sghembo e il disomogeneo, preso dal campo il giorno stesso, era stato messo sulla carbonella senza passare dal via. Un risveglio per le papille gustative. Sfiorata l’indigestione, ero tornato in albergo con una borsa da cinque chili di cetrioli e pesche, più un vasetto di miso fatto in casa. Il giorno seguente avevo poi riportato tutto in treno a Tokyo, destando la curiosità di qualche passeggero.

Chiedo loro come procede la loro vita di provincia e se, per caso, non sentono la mancanza della comodità della città. Mi rispondono con in mano una lattina di tè biologico fatto da un loro amico a Shizuoka, alle pendici del monte Fuji. «Volevo provare ad andare in campagna», mi dice Suzuki. «Non appena ho visto il bando per curatori qui al museo locale ho fatto subito domanda». «Quando ero in Italia per il mio programma di scambio studentesco, la gente mi chiedeva come fosse il Giappone. Io non sapevo cosa rispondere. Spiegavo loro come era fatta la mia città. Ma non mi pareva interessante. A differenza dell’Italia, dove ogni città ha un suo tratto caratteristico, una sua specialità, le grandi città giapponesi, a parte alcune, sembrano tutte uguali. In pochi conoscono le città più piccole e più particolari del Giappone. Le città come Yamanouchi, insomma. Qui ci sono gli onsen — le terme in giapponese, ndr — e le case tradizionali. Quando lo dico in giro, mi prendono per pazza, ma a me, l’atmosfera che c’è qui a Yamanouchi ricorda quella che c’è nelle cittadine italiane».

Intanto, un’ombra passa sulla webcam. «Una lumaca!» «È vero, è una lumachina!» «Wow! Che veloce!». Yumoto prende l’animale su un dito e lo mostra alla webcam: nell’eccitazione mista a sorpresa, chiede se riesco a vederla anche io.

«Per me la città era divertente», mi spiega Yumoto, mentre poggia la lumaca sul palchetto in legno fuori dall’ampia porta finestra che dalla casa dà sul cortile. «Ma non ho mai pensato che la campagna fosse noiosa. Sono cresciuta qui, ho fatto le scuole qui. Poi mi sono spostata verso la città. La campagna aveva iniziato a starmi stretta. Dopo qualche anno però, anche la città è diventata insopportabile. Ovunque tu vada, qualsiasi cosa tu faccia, è sempre questione di soldi. Certo, ci sono tantissime cose da fare, da vedere, eccetera. Però non so: forse sono giunta a quella fase della mia vita in cui il divertimento non è tutto», spiega, con un sorriso. «Ora mi diverto con altro: mi basta, ad esempio, andare a camminare in montagna». «Fuori città sono proprio lo spazio e la percezione del tempo che cambiano una volta che ci si allontana dalla città», aggiunge Yumoto.

A loro detta, sono sempre di più i giovani tra i trent’anni e i quarant’anni che decidono di lasciare la frenesia cittadina per abbracciare ritmi più sostenibili: città come Nagano stanno vivendo una sorta di rinascimento, quasi vent’anni dopo le Olimpiadi invernali del 1998. Decine di lavoratori autonomi si stanno spostando, soprattutto da Tokyo e dalle grandi città della regione del Kanto, verso la provincia. Molti sono originari di qui e ritornano dopo un’esperienza nella megalopoli. I dati del governo confermano la tendenza: secondo l’ultimo studio dell’istituto nazionale di ricerche demografiche e previdenziali, gli U-turners sono in aumento rispetto al 2006 dello 0,8 per cento. In crescita, rispetto al passato, tra l’altro, il numero delle donne tra i 25 e i 34 anni.

Altri si spostano con la prospettiva di una vita diversa da quella della città. A Nagano ad esempio, c’è chi ha aperto degli studi di fotografia video e design, o chi ha preso in affitto kominka, vecchie case in stile tradizionale, le ha ristrutturate e ci ha aperto dei bar o addirittura degli asili. C’è poi chi come, Daisuke Ishizaka, originario del distretto di Meguro, a Tokyo, in provincia ha visto potenzialità di business. «Le sorgenti naturali offrono un’attrazione unica per i turisti», mi spiega. «A poca distanza da qui si trova il parco di Jigokudani — l’attrazione principale dell’area, famosa per i macachi che si bagnano nelle fonti termali, ndr; e poi la cittadina ha mantenuto un’atmosfera unica da resort termale di una volta». Il centro storico è infatti costellato di ryokan — gli alberghi in stile tradizionale giapponese — con il bagno termale interno riservato per i clienti.

Dopo aver acquistato uno di questi vecchi edifici, Ishizaka lo ha ristrutturato e ci ha fatto un ostello con annesso bar. Oggi il Koishiya è diventato uno dei punti di ritrovo per i giovani della zona, compresi molti U-turners. Anche a Ishizaka, che contatto grazie a Suzuki, chiedo se non si sia pentito di aver lasciato la capitale per venire in provincia.
«Ho la doppia residenza. Vivo sia a Yamanouchi che a Tokyo. La mia famiglia è ancora lì», mi spiega. «Il paesaggio naturale di Yamanouchi è stupendo, ma ogni tanto anche a me viene voglia di andare a fare shopping a Ginza». Gli chiedo a quel punto come riesca a combinare la sua vita nella grande metropoli con la vita di provincia. «Ciò che cambia qui è l’importanza dei rapporti sociali», risponde. «In città spesso vivi vicino a persone che neanche conosci. Qui invece si conoscono tutti. All’inizio ho dovuto fare tutto il giro del paese per spiegare chi fossi e cosa facessi. Ci è voluto un po’ di tempo ma adesso tutti mi conoscono e il mio lavoro è più facile».

D’altra parte, al giorno d’oggi sembra impossibile tagliare tutti i ponti con la città. Per chi vive in provincia, tornare anche temporaneamente in città è come uscire da una bolla temporale e riabbracciare la contemporaneità. «Di tanto in tanto vado a Nagano per svago. Lì c’è una comunità di giovani che organizzano eventi artistici e come curatrice del museo cerco di partecipare», spiega Suzuki. «Per me poi è necessario andare a Tokyo. Devo tenermi aggiornata sulle novità nel mondo dell’arte giapponese e non andare a Tokyo vorrebbe dire essere completamente tagliata fuori. Se ci fossero più possibilità in provincia, però, mi risparmierei di andare, dato che ci vogliono comunque molti soldi per spostarsi».

Per Yumoto le cose sono diverse. «Qui in campagna sono soddisfatta. Qui posso concentrarmi sul mio lavoro, badare alle piante e avere raccolti sempre migliori», dice soddisfatta Yumoto. A un certo punto, però si incupisce. «Certo ogni tanto mi prende un senso di solitudine che non so spiegare bene a parole». Le chiedo di farmi un esempio. «È difficile. L’altro giorno, per esempio, ho visto su un notiziario che uscirà un nuovo iPhone. Wow, ho pensato, ne è hanno già fatto un altro. Ecco: è in queste situazioni che mi prende come un senso di sconforto. E mi sento estraniata dalla realtà contemporanea». 

[Scritto per The Towner]