Dragonomics – Shanghai sfida Hong Kong

In by Gabriele Battaglia

Una zona free, ma free per davvero. Le ultimissime che arrivano dall’area di libero scambio in costruzione all’interno di Shanghai – la Free Trade Zone che è stata inaugurata il 29 settembre – ci dicono che il premier Li Keqiang non ha presenziato all’inaugurazione e smentiscono la possibilità di un internet libero.
La creazione della zona liberoscambista speciale è stata annunciata dal governo cinese a inizio luglio: sarà un porto franco dove saranno liberalizzati i flussi di capitali e lo scambio di merci transfrontaliere. Lo scopo è quello di trasformare la metropoli sullo Huangpu in uno dei principali centri finanziari del mondo. È un esperimento che ricorda le “zone economiche speciali” create da Deng Xiaoping a suo tempo: ma a quell’epoca si trattava di manifattura, oggi soprattutto di finanza e tecnologia.

Fonti anonime vicine al governo cinese hanno dunque rivelato al South China Morning Post che “al fine di favorire gli investimenti delle imprese straniere e fare in modo che i lavoratori ospiti vivano e operino felicemente nella zona di libero scambio, dobbiamo impegnarci a farli sentire come a casa loro. Se non possono andare su Facebook o leggere il New York Times possono chiedersi a ragion veduta in che cosa sia speciale la zona di libero scambio in confronto al resto della Cina”.

Dunque, lì si potrà navigare liberamente. Non che ora non lo si faccia, nella Cina continentale, ma per entrare nei sospirati social network occidentali – che in Cina sono “alternativi” ai dominanti weibo di Sina, Tencent e NetEase – bisogna dotarsi di una VPN (virtual private network): l’accesso a una rete privata che, con un gioco di sponda, ti permette di aggirare il Grande Firewall cinese. Oltre ai social network, anche il New York Times – reo di avere messo a nudo i molteplici interessi economici della famiglia dell’ex premier Wen Jiabao – è da tempo oscurato oltre Muraglia; Google è lentino e di pornografia non se ne parla neppure.

Insomma, chi va a Shanghai a portare tecnologia, competenze, innovazione e investimenti, avrà un benefit particolare: la navigazione illimitata.
E gli statalissimi operatori cinesi di telecomunicazioni – nella fattispecie China Mobile, China Unicom e China Telecom – sono già stati avvertiti che dal 29 settembre si compete. Ma si sono guardati bene dal protestare, visto che la nuova direttiva cala direttamente dal numero due della leadership cinese, il premier Li Keqiang.

Ora, capita che il South China Morning Post, che lancia lo scoop della “libera Rete in libera zona”, sia il maggiore quotidiano di Hong Kong. E lo stesso giornale, qualche giorno fa, aveva riportato le parole dell’hongkongese Li Ka-shing – l’uomo più ricco d’Asia – sotto un titolo che non lascia nulla all’immaginazione: “La zona di libero scambio di Shanghai colpirà Hong Kong più velocemente del previsto”. Insomma, nell’ex colonia britannica tutto questo dinamismo shanghaiese crea parecchia agitazione. Di più: irrequietezza, quasi panico.

Li Ka-shing, che è l’ottavo Paperone mondiale nella speciale classifica di Forbes, presiede Cheung Kong (Holdings) e Hutchison Whampoa, e ha una rete di interessi e di asset vastissima che va dai terminal per container alla speculazione edilizia, passando per la grande distribuzione. Come un Marchionne qualsiasi, il vecchio pirata ha fatto sapere agli hongkonghesi che se proprio proprio non lo costringono, lui da Hong Kong non se ne va. “Se”.

Ha esortato quindi la cittadinanza a unirsi per “migliorare” la metropoli e ha smentito le indiscrezioni secondo cui starebbe per spostare sul continente attività per un valore di circa 40 miliardi di dollari locali (oltre 3,8 miliardi di euro). Sì d’accordo – ammette – sta vendendo la catena di supermercati ParknShop; ma valgono una bazzecola – 3-4 miliardi di dollari Usa – e l’operazione è puramente “commerciale”, non strategica. Per inciso, tra i potenziali compratori c’è anche la cinese Sun Art, che ha sede proprio a Shanghai.

Certo, a Li non piace che nell’ex colonia britannica la gente si agiti, come è successo con i portuali dei suoi stessi terminal, che la primavera scorsa sono scesi in sciopero per quaranta giorni facendogli “perdere la faccia” in perfetto stile cinese. Chiedevano un salario più alto e migliori condizioni di lavoro e, alla fine, Li ha dovuto scendere a compromessi.

Oppure come nel caso del movimento Occupy Central, che si propone di occupare la zona nevralgica della Hong Kong Island a luglio 2014 per chiedere il suffragio universale (il governo della “zona amministrativa speciale” è ora composto da una cerchia di notabili vicino al governo di Pechino, in perfetta continuità – va detto – con il regime coloniale britannico): “[Il movimento] influenzerà negativamente l’immagine di Hong Kong come hub finanziario e avrà un impatto negativo sull’economia della città”, dice oggi Li.

Non gli piacciono neppure le politiche del governo locale per raffreddare la speculazione immobiliare, come l’inasprimento dei requisiti per ottenere un mutuo. Hanno ridotto drasticamente le transazioni (solo 39mila nel primo semestre dell’anno, quasi al livello del 2003, durante l’emergenza Sars). C’è il rischio che i prezzi più inaccessibili del pianeta calino.

Lui lo sa bene, visto che quando nel 2000 fu sospeso il progetto Cyberport – la Silicon Valley hongkonghese evaporata al momento del crollo della new economy – i terreni nella zona centralissima di Hong Kong Island che vi erano destinati furono di fatto “regalati” a Richard Li, suo figlio, leader del colosso dell’information technology Pccw, che li utilizzò per una grande speculazione immobiliare.

Insomma, lui da Hong Kong non vuole andarsene. Certo che però nella Cina del capitalismo “deregolato dall’alto”, magari proprio a Shanghai e dintorni, funziona tutto molto meglio. Questo incombere della Cina, questo rischio che la ricchezza di Hong Kong se ne vada sul continente e magari proprio a Shanghai, rientra in una rivalità lunga quanto la storia delle due città: entrambe così coloniali, così commerciali e così aperte sul mondo. È come se Hong Kong arrivasse prima e poi Shanghai le soffiasse l’eccellenza sotto al naso.

Prendiamo il grattacielo come metafora: “Il modello nasce a Hong Kong per ragioni di spazio: troppa gente in poco spazio, bisogna costruire verso l’alto”, ci ha raccontato Gregory Bracken, che è Research Fellow all’International Institute of Asian Studies di Amsterdam. Poi l’oggetto funzionale diventa icona, come le torri dei comuni medievali italiani. “E le nuove città cinesi lo prendono proprio in quanto icona, a prescindere dal fatto che abbiano magari abbastanza spazio a disposizione per costruire in altro modo. Da architettura funzionale, il grattacielo diventa simbolo di prestigio e potenza. È una specie di postmoderno secondo caratteristiche cinesi”. E quando si associa “grattacielo” a “Cina”, non può che venire in mente Shanghai.

Come nel caso dei suoi grattacieli, Hong Kong teme oggi di essere derubata da Shanghai come hub finanziario, metropoli per eccellenza del capitalismo asiatico. Teme di perdere la propria ricchezza e anche la propria identità. Il governo cinese dice che le due città non sono in competizione e sostiene che “Shanghai è la città globale per la zona del fiume Yangtze mentre Hong Kong lo è per il Sud-Est asiatico”, ci ha spiegato Huang Zongyi, ricercatrice taiwanese. Tuttavia, “la Cina cercherà inevitabilmente di spostare gradualmente il baricentro da Hong Kong, Macao e Taiwan, verso le città dell’interno, come Shanghai – dice ancora Gregory Bracken – perché sono completamente cinesi, mentre le altre mantengono una propria identità non completamente omologata”. Cominceremo a capirlo presto.

[Scritto per Linkiesta]