“I monologhi della vagina” a Wuhan: l’emancipazione femminile con caratteristiche cinesi.

In by Simone

Non è la prima volta che “I monologhi della vagina” viene interpretato e messo in scena in Cina, ma è la prima volta che viene realizzato, autonomamente e senza supporto economico o mediatico, da un gruppo di studentesse e attrici amatoriali di Wuhan, metropoli da dieci milioni di persone nella Cina centrale. Nobile soprattutto il fine: far conoscere l’opera ad un pubblico cinese più vasto possibile e diffondere una cultura (occidentale) di emancipazione femminile.
“The Vagina’s Monologue” è un’opera teatrale del 1996 della drammaturga e attivista per i diritti delle donne Eve Ensler. Una sorta di “Sessualità: parlano le vagine”. L’opera ha avuto sin da subito un grande successo, è stata tradotta in più di quarantacinque lingue e messa in scena in centoventi paesi. Yu Rongjun è stato il primo traduttore autorizzato a scrivere la versione cinese de “I monologhi della vagina”.  

Xin Ying, per gli amici Xiaotie, ha 24 anni ed è una delle ragazze della compagnia teatrale amatoriale di Wuhan. Segue un programma di Master in pubblica amministrazione alla “Zhongnan University of Economics and Law” e studia giapponese autonomamente. Non si definisce una femminista ma piuttosto “molto interessata al femminismo”.  
Innanzitutto, perché proprio quest’opera? “Vogliamo portare l’attenzione della gente sulle tematiche che riguardano il mondo femminile – ci spiega Xiaotie – Vogliamo che le donne cinesi imparino finalmente a valorizzarsi. E che gli uomini la smettano di relegarci sempre ad un gradino più basso. Come donne, vogliamo gridare a squarciagola e assicurarci che gli altri ci sentano bene”. 

“L’opera – continua Xiaotie – è stata messa in scena per la prima volta a Canton, presso il Museo di Belli Arti del Guangdong, da Ai Xiaoming, regista e professore al dipartimento di Cinese della Zhongshan University”. Negli ultimi mesi sono stati organizzati spettacoli teatrali de “I monologhi della vagina” in diverse località di Pechino, Shanghai, Nanchino, Chengdu. “Ma in pochi hanno assistito alla rappresentazione. Perché i media non pubblicizzano l’evento. E le compagnie teatrali hanno in programma una sola data. Qui è la nostra particolarità, noi vogliamo supportare l’opera e i messaggi che lancia, per questo abbiamo in programma un tour di quattro serate”.
Il cast di Xiaotie è formato da tredici persone, tutte ragazze e tutte studentesse, tra attrici e regia. Più tre ragazzi che le aiutano con luci, suoni e altri aspetti tecnici. La prima serata, all’Università di Wuhan lo scorso 7 novembre, è stata un successo: “Finito lo spettacolo la gente non se ne voleva andare. Applaudivano e ci pregavano di andare avanti. Un medico americano mi ha stretto la mano dicendomi ‘Grazie! Siete davvero in gamba! Non pensavo di assistere ad uno spettacolo del genere in Cina!’ Tutto questo ci ha riempito di soddisfazione e sicurezza per la prossima performance”. Le altre date saranno presso il Teatro della Gioventù della Normale, al Museo della Sessualità di Wuhan e infine al Vox, locale dove spesso si esibiscono i gruppi rock di mezza Cina. Sperano di andare in scena anche alla Fabbrica d’Arte di Wuhan, ma la data non è ancora stata fissata.

Niente grandi teatri né troppa visibilità. D’altronde non sono attori professionisti. E il tema resta comunque molto sensibile in Cina. “I monologhi della vagina” è andato in scena nel 2001 in Cina in inglese, nel 2004 in cinese e ora di nuovo vengono rappresentati da compagnie teatrali e gruppi di studenti. Ma il fine di Xiaotie e delle ragazze della compagnia è diverso dagli altri. È l’impegno sociale che ci mette questo gruppo di studentesse a rendere il loro spettacolo unico nella Cina del ventunesimo secolo. “Popolare”, “organizzato da studentesse”, “persistente”, “tour”. Questi i quattro ingredienti, le quattro espressioni chiave che, agli occhi di Xiaotie e delle altre, danno il tocco non solo di originalità ma anche di spessore alla loro performance. “Questa è Wuhan, non Pechino o Shanghai. Qua non ci sono i mezzi o le strutture della capitale. Non girano soldi né personaggi in cerca di fama. Non ci esibiamo tanto per metterci in mostra. Vogliamo portare le tematiche dei monologhi ad un pubblico più vasto possibile. Per questo faremo più date. Anche se i media non ci pubblicizzano affatto”.

Sembrano avere le idee molte chiare anche dal punto di vista di aspettative sul pubblico: “Che la gente ci ascolti parlare di donne. E di vagina. Che ci osservi muoverci come neanche un uomo in Cina oserebbe fare. Che apprezzino il nostro coraggio e si abituino ad esso”.  Programmi per il futuro? “Abbiamo intenzione di ripetere il tour una volta l’anno. Vogliamo che la gente conosca quest’opera e che la apprezzi”. E il loro andare in scena solo nei dintorni di Wuhan è più che altro legato ad un problema economico: “Se avessimo un supporto finanziario andremmo volentieri ad esibirci altrove”. Infine, non pensate che quest’opera abbia una forte connotazione culturale e politica occidentale? Come riuscite a ritrovarvi in essa e a farne filtrare le idee e i messaggi? Insomma, non pensate che sia l’ennesima importazione ‘made in the U.S.’?

“Pensiamo che il messaggio chiave sia la lotta contro la violenza sulle donne. Questo è un tema molto importante anche in Cina. Pensiamo che molte donne cinesi, ascoltandoci, si ritrovino nei testi dell’opera. E anche in tutto ciò che riguarda la propria sessualità. Ovviamente le divergenze col pensiero occidentale sono molte. Non cerchiamo di convincere il pubblico sui temi della rivoluzione sessuale dei paesi occidentali, ma ci sta a cuore parlarne, farla conoscere. In ogni caso, il fattore tempo è molto importante: è di tempo che abbiamo bisogno per cambiare le cose”.