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Elefanti a parte – Una campagna elettorale sulla pelle dei musulmani

In Asia Meridionale, Elefanti a parte by Matteo Miavaldi

Elefanti a parte è la nuova rubrica sull’India di China Files a cura di Matteo Miavaldi. La prima puntata è dedicata alle elezioni in corso nel subcontinente, più qualche consiglio cinematografico. Rigorosamente “senza elefanti”.

Da qualche settimana in India sono iniziate le elezioni. Sette giorni di voto spalmati su 44 giorni, dal 19 aprile al 1 giugno, per eleggere 543 deputati e (poche) deputate alla camera bassa del parlamento federale di New Delhi. Le persone che, a loro volta, nomineranno il prossimo primo ministro dell’India: cioè, opinione quasi unanime di chi segue le cose indiane, Narendra Modi.

Modi, col suo Bharatiya Janata Party (BJP), governa il Paese da dieci anni esatti, ed è ormai un veterano delle campagne elettorali nazionali. Questa è la sua terza consecutiva e fino ad ora, rispetto a quelle del 2014 e del 2019, l’elemento di novità e per certi versi di sorpresa è sicuramente la retorica anti-musulmana esplicita utilizzata da Modi in prima persona.

Nelle ultime settimane Modi ha detto: che in un vecchio manifesto elettorale dell’Indian National Congress (INC) – oggi il principale partito di opposizione in India – c’è scritto che i musulmani avevano un «diritto primario» per le proprietà e il denaro del Paese, e che se andranno al governo le opposizioni requisiranno tutti gli averi delle famiglie indiane e li redistribuiranno a «quelli che fanno più figli» e agli «infiltrati», due sinonimi di musulmani; che se le opposizioni vinceranno, decideranno la formazione della nazionale indiana di cricket in base alle religioni, favorendo i giocatori musulmani; che le opposizioni non risparmieranno nemmeno i gioielli delle famiglie indiane, li sequestreranno e li daranno ai musulmani; che il Pakistan fa il tifo per l’INC.

Sono tutte sparate elettorali, cose completamente inventate che però vengono lanciate nel grande calderone della campagna elettorale e vengono riprese dai media mainstream, dai gruppi Whatsapp della propaganda della destra induista, rimbalzano sui profili Youtube e Instagram di influencer pro governo e – vere o false che siano – ottengono l’effetto desiderato: demonizzare la minoranza musulmana e polarizzare il voto in chiave ultrainduista.

Chi si oppone a Narendra Modi e al BJP in India dice che queste frasi non solo incitano all’odio contro la minoranza musulmana, ma violano anche il codice di condotta elettorale e quindi dovrebbero venir sanzionate dalla Election Commission, l’autorità super partes che in India sovrintende tutti gli aspetti logistici delle elezioni e, in teoria, dovrebbe intervenire per mantenere una dialettica politica degna di una democrazia.

Nonostante numerosi appelli alla EC, ad oggi l’organo non è ancora intervenuto per sanzionare le dichiarazioni pubbliche di Modi. Queste sono cose che negli ultimi dieci anni Narendra Modi non ha mai detto in prima persona, lasciando che messaggi del genere fossero veicolati da una schiera di seconde e terze file del BJP, seguendo una strategia di comunicazione molto chiara: i pesci piccoli alimentavano l’odio intercomunitario, mentre la figura di Modi veniva tutelata e modellata attorno a un ideale di Grande Statista, Vecchio Saggio, o più precisamente di Vishwaguru, il «maestro del mondo», in sanscrito. Cioè una persona di una levatura morale tale per cui tutto il resto del mondo avrebbe solo di che imparare.

Oggi, evidentemente, la strategia è cambiata, ed è importante chiedersi perché. Qui possiamo avanzare due ragioni speculari. La prima è che il BJP si sia reso conto che forse queste elezioni non saranno una passeggiata come aveva preventivato, e che quindi sia necessario alzare i toni per convincere l’elettorato ad andare alle urne e votare «di pancia». Piano che il BJP è solito usare sistematicamente nelle tornate elettorali locali, raccogliendo spesso ottimi risultati.

La seconda ipotesi è uguale e contraria: il BJP ritiene di vincere a mani basse e quindi si sta portando avanti col lavoro, cioè sta promettendo alla base più estremista del proprio elettorato un atteggiamento ancora più settario nei prossimi cinque anni di governo. In questo caso, in linea con la retorica religiosa dell’inaugurazione del tempio di Ram ad Ayodhya, che di fatto ha aperto la campagna elettorale di Narendra Modi. 

In quella sede, affiancato da due simboli dell’estremismo induista (il capo della Rahstriya Swayamsevak Sangh (RSS) Mohan Bhagwat e il chief minister dell’Uttar Pradesh Aditiyanath), Modi aveva promesso la creazione di una «New India» nel segno del dio Ram. 

Stando alle parole pronunciate finora da Modi in campagna elettorale, che cosa sarà davvero questa «New India» è un quesito che inquieta chiunque non sia in linea con l’ultrainduismo di governo. A partire da più di 210 milioni di indiane e indiani di fede musulmana.

Il numero magico è 400

Se il tema non è tanto chi vincerà le elezioni, ma con quanto distacco dagli altri le vincerà il BJP, il numero spartiacque tra successo e (parziale) fallimento lo ha dato lo stesso partito di Modi. È 400.Sono i seggi alla camera bassa che il ministro degli interni e grande stratega del BJP Amit Shah ha annunciato come l’obiettivo della coalizione di governo per queste elezioni.

Non è solo un numero tondo, ma è un numero che permetterebbe al BJP di modificare la costituzione indiana, cosa che le opposizioni temono e che il BJP dice di non aver intenzione di fare, ma tra le righe lascia intendere che non gli dispiacerebbe affatto.

Ne è prova l’insistenza con cui lo stesso Modi ripete questo numero abbastanza spesso nei suoi comizi, sempre condito dalla retorica di cui sopra, tipo «votate e fateci vincere 400 seggi perché sennò il Congress ridarà l’autonomia al Kashmir e metterà i lucchetti al tempio di Ram».

Candidati contro il BJP cercasi

I risultati delle elezioni saranno annunciati il 4 giugno, ma il BJP ha già iniziato a vincere dei seggi. Ad esempio quello di Surat, circoscrizione dello Stato del Gujarat, è già stato assegnato a Mukesh Dalal, il candidato del BJP, perché tutte le altre candidature o sono state respinte dalla Election Commission o sono state direttamente ritirate dai candidati in questione. 

Per la precisione, pur di non scontrarsi col BJP a Surat, si sono ritirate dalle liste ben otto persone, in circostanze ancora poco chiare. Sulla stessa scia, in una delle poche gioie pop di questa campagna elettorale, uno stand-up comedian ha annunciato la propria candidatura da indipendente per il seggio di Varanasi, lo stesso per cui correrà Narendra Modi. Si chiama Shyam Rangeela, ha 29 anni, e correrà per il seggio di Varanasi perché «chiunque deve avere la possibilità di votare contro un candidato».

In realtà i candidati a Varanasi non mancano – l’INC corre col responsabile del partito per l’Uttar Pradesh, Ajay Rai – ma Rangeela si è infilato bene in una controversia nazionale per portare un po’ d’acqua al suo mulino. Furbetto, ma ad ogni modo le sue imitazioni di Modi sono clamorose. 

Consigli senza elefanti

All India Rank è il primo film da regista di Varun Grover. Grover è famoso in India come stand-up comedian e sceneggiatore e maneggia temi politici e sociali con una delicatezza e precisione ammirevole. In All India Rank racconta mette in scena i tormenti adolescenziali di un’intera generazione di indiane e di indiani, cioè di chi agli inizi degli anni Novanta si ritrova schiacciato dall’entusiasmo collettivo per le riforme economiche, per l’India che si stava arricchendo. E per milioni di indiane e indiani arricchirsi, in quegli anni, la speranza di arricchirsi passava per l’ammissione a uno degli Indian Institutes of Technology (IIT), gli istituti pubblici di ingegneria e tecnologia d’élite sparsi un po’ in tutto il Paese da dove sono uscite molte delle migliori menti dell’India moderna.

Il film segue la vicenda di Vivek, che a 17 anni viene spedito dai suoi genitori in un collegio specializzato nella preparazione per l’esame di ammissione all’IIT. Lì conoscerà coetanee e coetanei che cercano di fare i conti con le proprie ambizioni, con quelle delle loro famiglie, ma soprattutto con i sacrifici emotivi e sociali enormi che la società indiana ha chiesto e continua a chiedere a generazioni di IITians che devono rinunciare a molto per «i soldi» e «il successo».

Ne vale la pena?

A cura di Matteo Miavaldi