Automazione

Sviluppi e percezioni dell’automazione industriale in Cina

In Dialoghi: Confucio e China Files by Vittoria Mazzieri

Da ormai quasi un decennio l’automazione dell’industria beneficia in Cina di investimenti consistenti e di un interesse costante da parte dei media nazionali. Ma gli ostacoli non mancano, come dimostrano le minacce di disoccupazione su larga scala, le difficoltà della produzione interna e la mancanza di talenti qualificati. “Dialoghi: Confucio e China Files” è una rubrica curata in collaborazione con l’Istituto Confucio di Milano

La spinta del governo

Dal 2013 la Cina è diventata il mercato più grande al mondo per i robot industriali e, secondo i dati dell’International Federation of Robotics (IFR), nel 2017 sono stati venduti nel paese un record di 87 mila robot. Con il lancio del piano “Made in China 2025”, che ha segnato la strategia del governo per rafforzare il settore tecnologico, Pechino ha investito con nuova enfasi nella robotizzazione dell’industria. Lo dimostra il “Piano di sviluppo per la manifattura intelligente della provincia del Guangdong” (广东省智能制造发展规划2015-25 Guăngdōng shĕng zhìnéng zhìzào fāzhăn guīhuà 2015-25), l’area manifatturiera per eccellenza del paese. L’intenzione di investire quasi 950 miliardi di yuan (oltre 150 miliardi di dollari) per la robotizzazione industriale su scala provinciale è stata emulata da piani specifici e investimenti a livello municipale in città come Donggguan e Foshan.

Una strategia, quella di “rimpiazzare gli esseri umani con le macchine” (机器换人 jīqì huànrén), che ha suscitato non poche preoccupazioni, ma che è stata presentata come una svolta necessaria per tamponare la carenza di manodopera. Secondo le stime del governo, nel 2025 i lavoratori di cui si avrà bisogno nelle fabbriche di tutto il paese saranno circa 30 milioni. Nel 2015 nella regione del Delta del Fiume delle Perle mancavano già dai 600 agli 800 mila dipendenti nel comparto manifatturiero.

L’enfasi mediatica sulle fabbriche di robot

Dal 2015 l’automazione industriale ha ricoperto una posizione centrale nel discorso pubblico. Come ha scritto Huang Yu, ricercatrice post-doc nel dipartimento di scienze sociali alla Hong Kong University of Science and Technology, per la rivista Made in China Journal, l’opinione pubblica si è divisa tra la percezione dei robot come una minaccia o come promotori di occupazione.

Nel primo periodo i media nazionali hanno dedicato ampio spazio ai mirabolanti vantaggi dell’automazione industriale, includendo tra questi la riduzione della forza lavoro. Nel 2015 a Dongguan aveva fatto notizia la nascita di una “fabbrica senza lavoratori” (无人工厂wúrén gōngchăng). Ciò non avrebbe significato, aveva precisato il presidente della società coinvolta, la Everwin Precision Technology Ltd, “che non impiegheremo nessuno lavoratore, ma che ne ridurremo il numero fino al 90%”. Una fabbrica intelligente, capace con un solo robot industriale di rimpiazzare ben otto lavoratori e di ridurre il tasso di difetto del prodotto del 20%.

Qualche mese dopo era toccato alla sede di Kunshan, nel Jiangsu, della taiwanese Foxconn, che aveva sostituito 60 mila dipendenti, più della metà della forza lavoro, con robot industriali. Alla BBC la società aveva confermato di essere impegnata nell’automatizzazione di “molte delle attività produttive associate alle nostre operazioni”, non ammettendo la sostanziosa perdita di posti di lavoro come una delle implicazioni. Aveva sottolineato, invece, come l’applicazione dell’ingegneria robotica servisse a “sostituire i compiti ripetitivi” e consentisse ai dipendenti “di concentrarsi su elementi a più alto valore aggiunto nel processo di produzione, come lo sviluppo, il controllo dei processi e il controllo di qualità”.

Un impegno già chiarito nel 2011, a seguito dell’ondata di suicidi che aveva coinvolto lo stabilimento di Shenzhen della società, quando Foxconn aveva lanciato l’obiettivo di investire in un milione di robot nel giro di tre anni. Il fondatore e amministratore delegato Terry Gou aveva motivato la scelta con una dichiarazione che aveva scatenato polemiche in tutto il mondo: i robot avrebbero sostituito molti esseri umani che “sono anche animali, e gestire un milione di animali fa venire il mal di testa”. Se la Foxconn non ha raggiunto gli obiettivi varati nel 2011, nel 2015 ha reinvestito nell’automazione potenziando le sue basi di ricerca e sviluppo e produzione robotica a Shenzhen e a Jincheng, nello Shanxi. Nel 2018, secondo il report annuale della società, ha distribuito più di 80 mila unità di cosiddetti “Foxbot” industriali nelle sue fabbriche in tutto il paese.

La penuria di talenti

Come ha precisato Huang Yu, in breve tempo è emerso un discorso parallelo che contestava la riuscita di tali sforzi di automazione e metteva in guardia la conseguente disoccupazione su larga scala come una potenziale minaccia sociale. In risposta, i media nazionali hanno iniziato a evidenziare la capacità delle fabbriche intelligenti di creare nuovi posti di lavoro. In un articolo del 2017, ad esempio, si riportavano i risultati di uno studio condotto dalla società di consulenza Deloitte, secondo cui nel Regno Unito l’automazione ha eliminato 899 mila posti di lavoro poco qualificati, ma ha contribuito a creare 3,5 milioni di nuovi posti di lavoro, più qualificati e retribuiti.

Meno manodopera non specializzata, di cui il paese abbonda, e più lavoratori esperti. Ma nel 2015, se la Cina vantava già 260 mila unità di robot istallate nei siti produttivi, il paese contava in tutto solo 165 laureati in tecnologia robotica industriale. Per sopperire a tale mancanza, negli ultimi anni Pechino ha varato una serie di misure per sviluppare in parallelo l’educazione professionale e la riqualificazione del personale già impiegato in azienda. Non solo istituti superiori professionali, che secondo i dati del 2020 hanno educato 16 milioni di giovani, vale a dire il 40% della popolazione in età da scuola superiore, ma anche università prestigiose come la Suzhou Industrial Park Institute of Vocational Technology (IVT) del Suzhou Industrial Park, fondato nel 1994 in gestione congiunta con il governo singaporiano.

Ma ad oggi, tuttavia, le scuole professionali soffrono ancora una bassa reputazione. Nelle catene di montaggio, inoltre, agli operai di base è difficilmente concessa la scalata professionale.

Nuovi piani per la produzione interna

Quelli relativi alla forza lavoro qualificata non sono gli unici ostacoli che la Cina deve affrontare per sviluppare la robotica industriale. Sfide come difficoltà nell’approvvigionamento di componenti essenziali, pandemia e guerra commerciale con gli Stati Uniti hanno messo a dura prova la produzione interna. Il piano “Made in China 2021” aveva previsto che la produzione nazionale di robot riuscisse a garantire metà della richiesta interna entro il 2020, e fino al 70% entro il 2025. Nel 2020, invece, solo il 39% dei 140 mila robot utilizzati dalle fabbriche del paese erano di produzione cinese. Tuttavia, se nel 2017 la densità era molto bassa, con sole 68 unità ogni 10 mila dipendenti, nel 2020 è salita a 246 unità – per intenderci, la Germania vantava nello stesso anno una densità di 371 unità.

Se la produzione interna è ancora osteggiata da robot giapponesi, europei e sudcoreani, il Quattordicesimo piano quinquennale varato nel 2021 ha inserito nuovi obiettivi in tal senso: la Cina punta a diventare un polo d’innovazione per l’industria robotica globale entro il 2025, con la previsione che i robot avanzati di fascia alta saranno utilizzati in un numero maggiore di settori, come l’industria automobilistica, aerospaziale, ferroviaria, logistica e mineraria.

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