SINOLOGIE – Soft power e nuova Cina

In by Simone

La tesi La Cina sulla strada del soft power. Il soft power, le risorse e il ruolo della cultura analizza il ruolo centrale del soft power nella politica interna e internazionale della Repubblica popolare. Un concetto sviluppato in riferimento agli Stati Uniti e al nuovo ordine mondiale che si stava costituendo alla fine della Guerra fredda ma oggi valido anche per la Cina
Tessere le relazioni tra Stati attraverso l’uso esclusivo della forza non è considerata più una strategia totalmente vincente. La storia ci insegna che un rapporto tra Stati basato sulla forza e sull’intimidazione potrebbe rivelarsi una strategia fallimentare, o addirittura potrebbe creare pericolose tensioni ed alterare l’equilibrio e la pace. Una nazione può persuadere un’altra a fare ciò che essa desidera attraverso la propria cultura, i valori in cui crede e le sue istituzioni politiche. È un altro volto del potere, quello che Joseph Nye ha definito soft power.

Negli ultimi anni sempre più nazioni riconoscono l’efficacia dell’esercizio del soft power nelle relazioni internazionali, anche quelle emergenti, come la Cina, che preferiscono affermarsi tra le grandi potenze mondiali attraverso questi strumenti di cooperazione e non attraverso quelli di coercizione, ovvero l’hard power, come è avvenuto nel passato.

La tesi presenta un’osservazione sull’esercizio del soft power, in particolare quello della Cina. L’analisi del soft power, del suo esercizio, delle sue risorse e dei suoi limiti incontra ancora delle difficoltà poiché si tratta di una tematica molto recente, il termine è stato coniato solo nel 1990 dal politologo statunitense Nye. Nye, oltretutto, sviluppa tale concetto in riferimento agli Stati Uniti e al nuovo ordine mondiale che si stava costituendo alla fine della Guerra fredda, per questi motivi, gli studi effettuati finora risentono di una particolare prospettiva americana.

La contemporaneità dell’argomento, inoltre, giustifica una letteratura maggiore sul ruolo del soft power nelle relazioni internazionali. In realtà, come descrive il prof. Nye, il soft power può essere esercitato da diversi attori, non solo dagli Stati, ma anche da un’ong; per esempio, anche una telenovela può generare soft power all’interno di una nazione.

La persistenza di numerosi conflitti armati conduce verso una riflessione maggiore sul ruolo che può avere il soft power nelle relazioni internazionali e quanto possa essere davvero più efficiente dell’uso della forza. Si pensi, per esempio, all’attuale problema dell’Isis. La ferocia con cui il gruppo islamico sta agendo provoca un acceso dibattito tra gli Stati sul ricorrere alle armi per rispondere a queste barbarie e rinunciare all’uso di strumenti soft, considerati poco efficienti in questo contesto.

Straordinariamente, però, osservando il soft power della Cina, emerge un’ulteriore dimensione di analisi. Ho individuato nella locuzione latina “sui generis” l’espressione più adatta per descrivere il soft power cinese, in quanto il suo esercizio non si concretizza solo nelle relazioni internazionali, ma anche nella politica interna. La leadership cinese attraverso l’esercizio del soft power cerca anche legittimità e consenso dal suo popolo.

Negli ultimi anni, infatti, il partito ha capito che la società civile ha un ruolo sempre più attivo nelle sue decisioni politiche. Pur garantendo il rispetto della retorica di partito (anche con mezzi coercitivi), i policymakers cinesi informano il pubblico nazionale della loro politica estera, rendendoli in parte partecipi alle loro scelte. In questo modo, il governo cerca di garantirsi il sostegno nazionale necessario per portare avanti lo sviluppo del Paese.

La trattazione di questa caratteristica del soft power cinese, tuttavia, pecca di superficialità a causa della scarsezza di documentazione in riferimento, data dal fatto che il soft power sta assumendo un ruolo importante nella strategia politica della Cina solo di recente. Potrebbero aprirsi in tale direzione nuovi campi di indagine, degni di una nazione che è essa stessa nel complesso sui generis.

Il ruolo più evidente del soft power cinese, dunque, è quello che assume nella strategia diplomatica e di politica estera. Il leitmotiv dell’analisi dell’esercizio del soft power della Cina in tutte le sue forme e implicazioni sono i concetti di “società armoniosa” e di “sviluppo pacifico”, al centro delle politiche cinesi dell’ultimo decennio. Grazie al suo sorprendente sviluppo economico e tecnologico, la Cina ormai vuole entrare attivamente nell’olimpo delle grandi potenze, suscitando in quest’ultime non pochi timori.

È a tal proposito che questa nuova dimensione del potere si rivela alla Cina l’arma migliore per dimostrare che non è una nazione da temere, ma una nazione impegnata a favorire la coesistenza e la cooperazione pacifica tra le nazioni. Al XVII Congresso nazionale del PCC (svoltosi tra il 15 e il 21 ottobre 2007), infatti, Hú Jǐntāo (Presidente della Repubblica dal 2003 al 2013) ha dedicato una parte del suo discorso all’importanza di generare il soft power culturale ‹‹per affrontare le sfide internazionali e le necessità domestiche››.

Con queste dichiarazioni il soft power entra a pieno titolo nella strategia politica cinese, confermata poi dall’attuale leadership guidata da Xí Jìnpíng. Quest’ultimo ha annunciato tutto il suo impegno nella promozione del 中国软实力 Zhōngguó ruǎn shílì (soft power cinese), diffondendo l’immagine di ‹‹una vibrante nazione socialista, aperta, amichevole e promettente››, con cui persuadere gli altri stati e assurgere a uno status internazionale più elevato, nel segno della pace e della cooperazione.

Le tre risorse principali del soft power, individuate dal professor Nye, trovano nel Paese di mezzo un terreno fertile dove crescere: la sua cultura millenaria; i suoi valori legati allo sviluppo della società armoniosa; le sue scelte politiche verso il miglioramento socio-economico proprio e degli altri stati, per favorire relazioni diplomatiche pacifiche e durature.

I valori che la Cina promuove sono sintetizzati nelle’espressione "società armoniosa", proposta per la prima volta da Hú Jǐntāo nel 2005, che riconsidera i valori della tradizione filosofica, rifiutati categoricamente da Mao, e li combina a quei valori socialisti al fine di combattere ogni forma di disuguaglianza e ingiustizia.

Il tradizionale sistema dei valori confuciani del rispetto per l’altro, del mutuo soccorso, della fratellanza, dell’importanza della famiglia come perno della società, il rifiuto della guerra a favore della cooperazione viene così integrato all’etica marxista della frugalità, del duro lavoro, della parità, della prevalenza della comunità sull’individuo.

Su questi valori la Cina costruisce la sua nuova 面子 miànzi (reputazione) da offrire al mondo, che traduce a livello internazionale con la retorica della pace, della cooperazione e dell’equo sviluppo, in altri termini con politiche di soft power. La Cina ha messo in pratica tutto ciò nelle Olimpiadi di Pechino del 2008 che, insieme all’Expo di Shanghai del 2010, si sono rivelate l’occasione per mostrare il suo nuovo volto internazionale, contribuendo anche ad aumentarne il soft power.

La politica estera cinese, che mira alla realizzazione di un mondo armonioso e alla coesistenza pacifica, diventa sempre più pragmatica e renitente alla guerra, placando ogni timore delle grandi potenze. Questo spiega la “politica del buon vicinato” adottata con i Paesi del sud-est asiatico, la “panda diplomacy” e la stipula di accordi bilaterali e multilaterali che riguardano la risoluzione di dispute territoriali storiche, azioni di peacekeeping, interventi umanitari e l’attiva partecipazione in molte organizzazioni internazionali. Quella adottata dal Paese di mezzo in Africa, in particolare nei Paesi sub-sahariani, fornisce l’esempio più sorprendente.

Il soft power cinese in Africa inizia a crescere verso la metà del secolo scorso, a partire dalla Conferenza di Bandung, quando la Cina avviò dei programmi internazionali di aiuto per la costruzione di infrastrutture. Oggi la sua azione è andata oltre questo tipo di aiuti, intraprendendo, infatti, una cooperazione politico- finanziaria che investe molti settori. L’Africa, dal canto suo, ha sviluppato una politica del go to east, cioè guardare alla Cina come una guida al proprio sviluppo economico e come un partner importante.

La rapida crescita e l’apertura all’economia internazionale della Cina, infatti, hanno avuto un effetto di ampia portata all’estero e in particolare nel continente nero, tanto da parlare ormai di Beijing consensus. Quello che il Beijing consensus propone è un nuovo paradigma economico basato su riforme graduali e flessibili che gravitano intorno alla figura centrale e forte dello stato, con alcuni punti-chiave dell’economia liberale occidentale e finalizzate esclusivamente al raggiungimento del benessere economico nazionale, trascurando i diritti civili e politici. Inoltre, l’Africa considera la Cina il partner ideale perché non si intromette negli affari di politica interna, a differenza di altri Stati.

La Cina, infatti, presentandosi come una nazione che ha sofferto il peso dell’invasione straniera, segue il principio confuciano del non fare agli altri quello che non si vuole per se stessi, non intromettendosi così nelle politiche interne e incutendo meno timore. In questo modo Pechino è riuscita a mettere in atto una grande opera di seduzione, all’interno della sua più ampia politica di sviluppo pacifico, dalla quale il suo soft power ne esce sempre più fortificato.

Molti accademici, tuttavia, guardano alla crescita della Cina, e di conseguenza del suo soft power, come a una nuova forza che vuole opporsi agli Stati Uniti, in particolare nel discorso intorno al Beijing consensus. Lo studioso J. Melissen parla, infatti, di “charm offensive” in riferimento alla crescita del soft power cinese, visto come una strategia della Cina per affermarsi come la superpotenza mondiale, sfidando gli Stati Uniti. Sarà il soft power della Cina “charm offensive”?

In realtà, gli sforzi maggiori della leadership di Pechino sono concentrati nell’esercizio del wénhuà shílì (il potere culturale), facendo della cultura il pilastro del soft power della Cina. A partire dal 2006, infatti, i ministri cinesi designano piani per la promozione della cultura oltreoceano, assicurandosi di raggiungere i cuori e le menti di altri popoli e di non presentare un’immagine distorta del Paese. Festival sulla cultura cinese nel mondo, mostre d’arte e conferenze nelle ambasciate sono solo alcune delle iniziative che il governo finanzia per far conoscere la propria cultura nel mondo.

A questi si aggiungono nuovi strumenti, come il crescente cinema contemporaneo e i vari mezzi di comunicazione, quali giornali, canali radio e televisivi che oggi, grazie a internet, è possibile ascoltare, vedere o leggere in diverse nazioni e in molteplici lingue. Per il governo cinese è importante la scelta della programmazione perché il soft power dipende soprattutto dalla qualità delle risorse, in questo caso dalla qualità delle informazioni trasmesse, che devono essere credibili agli occhi del pubblico straniero. Per questo motivo c’è un lavoro attento di sorveglianza su programmi trasmessi all’estero da parte del SARFT, l’Amministrazione di Stato per i film, la radio e la televisione in Cina, che si assicura che non venga trasmesso nulla di negativo sullo Stato.

L’aspetto più evidente del soft power culturale cinese sono gli Istituti Confucio, sparsi in tutto il mondo. Questi istituti forniscono corsi di cinese ad ogni livello, promuovono manifestazioni ed eventi culturali, somministrano l’esame di certificazione del livello di competenza in mandarino, l’HSK. Il Paese di mezzo si è reso conto che l’elevato riconoscimento di potenza mondiale sarebbe arrivato anche attraverso l’istruzione, cioè promuovendo la propria cultura all’estero e, allo stesso tempo, attirando studenti stranieri nelle proprie università.

Gli istituti Confucio sono gestiti dalle università cinesi e dai partner stranieri congiuntamente all’Hanban, un organo che è affiliato direttamente al ministero dell’istruzione. Questi istituti, infatti, sono controllati dal governo, che oltre a finanziarli, ne decide la didattica, fornisce i materiali ed ha una rigida regolamentazione da rispettare che svela anche il loro uso come strumento di propaganda. Questo, però, provoca non pochi problemi agli istituti nel mondo, alcuni infatti hanno già chiuso i battenti, accusando l’Hanban di limitare la libertà accademica.

Nella tesi, infatti, un raffronto con il British Council inglese ha avuto lo scopo di presentare i risultati, i limiti e le ulteriori sfide della Cina per quanto riguarda l’istituto, ma più in generale nella competizione mondiale del soft power, paragonandola a quella che secondo le classifiche mondiali è considerata una delle nazioni più persuasive, il Regno Unito.

La Cina investe molto nelle sue risorse di soft power, ma il guadagno in termini di successo è ancora magro. A livello nazionale ha ancora tante sfide da affrontare, come la dilagante corruzione o il sistema sanitario e scolastico carente. Il tema dei diritti umani, però, è quello che compromette maggiormente il suo soft power. La limitata libertà di espressione e di manifestazione, la mancanza di diritti per i lavoratori sono fenomeni noti all’opinione pubblica. Queste problematiche emergono anche nel suo impegno in Africa e negli Istituti Confucio.

Per quanto riguarda il primo, più volte è stata messa sotto accusa la politica di non ingerenza della Cina negli Stati africani, accusata di pensare solo ed esclusivamente agli affari e favorendo regimi dittatoriali che si sono macchiati di crimini orrendi, come nel caso del Darfur. Sul secondo invece, più volte è stata lamentata la mancanza di libertà accademica a causa della sua gestione ministeriale. Inoltre la regolamentazione vieta agli insegnanti di parlare della questione del Tibet e di Taiwan o di Falun gong.

Il controllo politico degli istituti mette in luce un ulteriore limite del soft power cinese, quello della scarsa attenzione riservata agli attori non statali, le cui attività sono controllate e limitate, indebolendo così la credibilità dei messaggi che diffonde nel mondo e automaticamente il suo soft power. Per migliorare le sue strategie di soft power, tuttavia, nel 2012 è nata un’organizzazione cinese no-profit dedicata alla promozione del soft power, la China Public Diplomacy Association (CPDA), il cui fine è quello di migliorare la diplomazia cinese, favorire l’amicizia tra la Cina e il resto del mondo per permetterne lo sviluppo pacifico.

Secoli di pensiero sull’evitare la guerra e sul favorire mezzi più pacifici nelle relazioni tra gli Stati, gli imperi o le nazioni trovano la loro traduzione più concreta nel termine soft power, una delle vie percorribili per lo sviluppo delle relazioni internazionali del XXI secolo. La Cina ha intrapreso questa strada.

*Roberta Maddalena robertamaddalena[@]gmail.com è nata nel 1992 in provincia di Benevento. Ha conseguito la laurea in Mediazione linguistica e culturale presso l’Università per stranieri di Siena nel marzo del 2015. Ha frequentato il terzo anno accademico in Inghilterra dove è venuta a conoscenza del’oggetto della tesi.

**Questa tesi è stata discussa presso l’Università per stranieri di Siena. Relatore: prof. Mauro Crocenzi; correlatore: prof: Mauro Moretti.