La guerra degli slogan in India

In by Simone

È più indiano chi urla «Bharat mata ki jai» (evviva Madre India) o chi urla «Azadi» (libertà)? O meglio, se qualcuno si rifiuta di urlare in pubblico «Bharat mata ki jai» vuol dire che non ama il proprio paese ed è un cospiratore anti nazionale? Nella metà di marzo dell’anno 2016 sembra essere questa la discussione principale che coinvolge media e politici indiani, in una gara di identitarismo semiotico apparentemente assurda, ma che invece fa emergere la questione di un’identità indiana ancora tutta da trovare. In un’India dove le parole sono perseguibili per legge – come quelle pronunciate durante la protesta del 9 febbraio nel campus della Jawaharlal Nehru University (Jnu) di New Delhi, che hanno dato la stura al caso «studenti anti nazionali» – gli slogan appartenenti alla storia recente del paese sono diventati le armi con le quali si combatte una battaglia di tipo identitario, stilando classifiche di nazionalismo e patriottismo misurate sul ricorso a uno slogan o un altro.

In settimana la stampa nazionale si è consumata i polpastrelli nel tentativo di sviscerare i significati simbolici di questa «guerra tra slogan» che sta polarizzando la società indiana. Da un lato, il gruppo del «Bharat mata ki jai»; dall’altro, quello dell’«Azadi». Due slogan in superficie ugualmente patriottici, ma che oggi rappresentano due idee diametralmente opposte di India.

Bharat mata ki jai: amare Madre India facendo finta non sia hindu

Letteralmente «evviva Madre India», lo slogan è legato indissolubilmente al movimento anticoloniale indiano. Come racconta il quotidiano Indian Express, tutto nacque agli inizi del ventesimo secolo, quando l’artista Abanindranath Tagore (nipote del più noto Rabindranath Tagore) realizzò un dipinto iconografico di Madre Bengala («Banga Mata») intitlandolo però «Bharat Mata», ovvero Madre India.
«Bharat» è il termine di derivazione sanscrita con cui si identifica il subcontinente indiano, utilizzato in contrapposizione al termine «Hind», di derivazione persiana, che i musulmani diedero al subcontinente indiano (e «India», gli occidentali, lo presero da lì).

«Bharat Mata» diventò la personificazione idealizzata di quello stato per cui i «freedom fighter» indiani lottavano contro gli occupanti inglesi: una terra rigogliosa e ricca di tradizione, arte e cultura. Eppure quel «Mata», Madre, portava e ancora porta con sé una connotazione prettamente hindu, derivando dalla «Ma» bengalese, una delle forme della dea femminile Durga.

Col passare degli anni, specie negli ultimi tempi, «Bharat Mata ki jai» è stato adottato come slogan nazionalista dalle frange ultranazionaliste indiane, diventando il canto di chi ama ed è pronto a morire per la patria.

In questo video, ad esempio, possiamo vedere il premier Narendra Modi mentre galvanizza una folla di indiani accorsi a sostenerlo allo stadio di Dubai, in una delle classiche manifestazioni di patriottismo organizzate dall’entourage di Modi ogni qual volta varchi i confini dell’India.

E qui sotto, ancora, lo vediamo intonato da centinaia di persone durante la cerimonia della bandiera al posto di frontiera di Wagah, in Punjab, dove dalla fine degli anni ’50 gli eserciti di India e Pakistan inscenano un minaccioso spettacolino ai due lati del cancello che divide i due paesi.

Qualche giorno fa un deputato musulmano del parlamentino del Maharashtra è stato sospeso per essersi rifiutato di cantare davanti a tutti, in aula, «Bharat mata ki jai»: secondo la destra nazionalista, una professione di fede obbligatoria per un politico indiano, misura della propria devozione alla madrepatria che intenderebbe servire.

Il rifiuto del deputato ha scatenato polemiche in tutto il paese, come se un cittadino indiano di fede musulmana non fosse abbastanza «indiano» e dovesse provare la propria indianità inneggiando a Madre India.

Si può dunque dire che oggi, nel contesto politico contemporaneo, urlare «Bharat mata ki jai» implichi l’adesione automatica a un’idea di India decisamente spostata a destra e tendenzialmente hindu. Mohan Bhagwat, presidente del gruppo extraparlamentare ultranazionalista hindu Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), aveva rilevato l’esigenza di rinfrescare nelle giovani menti indiani il senso patriottico per la nazione, facendoli tornare a cantare «Bharat mata ki jai», in opposizione a chi indica loro di fare il contrario.

Cioè, sottinteso, gli studenti di Jnu: che essendo di sinistra, anti establishment e movimentisti, a «Bharat mata ki jai» preferiscono lo slogan «Azadi».

Azadi: inneggiare alla libertà ricordando il Kashmir
Uno dei lasciti tangibili del fenomeno politico di Kanhaiya Kumar – il leader studentesco di Jnu arrestato con l’accusa di sedizione e poi liberato su cauzione – è stato il rilancio a livello nazionale dello slogan «Azadi», cioè libertà, termine di derivazione persiana utilizzato anche in urdu (la lingua, anche, del Pakistan) che piace tanto agli anti nazionalisti (che sono cosa diversa dagli anti nazionali) e lo preferiscono al termine di derivazione sanscrita «svatantra», dalle ovvie connotazioni hindu.

In ogni manifestazione da un mese e mezzo a questa parte, immancabilmente, a un certo punto qualcuno degli organizzatori inizia a elencare una serie di mali della società contemporanea dai quali il popolo si dovrebbe liberare, innescando un botta e risposta tra il leader e i manifestanti che possiamo rendere più o meno così:

«Dalla povertà…»
«Libertà!»
«Dalla disoccupazione…»
«Libertà!»
«Dalla discriminazione castale…»
«Libertà»
«Dalla soceità del patriarcato…»
«Libertà»

E così via, ad libitum, ché di mali dai quali liberarsi in India non ne mancano.

Un segmento del coro di «Azadi» cantato da Kumar, per dare la misura della dirompenza pop del messaggio, è stato campionato e trasformato in un pezzo dubstep – godibilissimo – dal dj Dub Sharma.

Ma come per «Bharat mata ki jai», anche «Azadi» porta con sè un sottotesto politico e belligerante che non va giù a buona parte del paese. «Azadi», infatti, è lo slogan che i separatisti kashmiri intonano da anni alle proprie manifestazioni, generalmente inserendo nell’elenco deile oppressioni anche l’appartenenza stessa alla Repubblica indiana.

Lo fanno rivendicando il diritto all’autodeterminazione del proprio popolo, che dalla metà del secolo scorso ha visto il proprio territorio trasformarsi in regione contesa da India e Pakistan, schiacciato – nella parte indiana del Kashmir – dalla militarizzazione voluta da New Delhi e dalla violenza di alcuni movimenti separatisti.

Qui, ad esempio, ecco come suona un gruppo di kashmiri mentre inneggia all’«Azadi»:

All’orecchio dell’indiano comune, quindi, «Azadi» suona come una minaccia all’integrità del paese portando istantaneamente alla memoria il movimento indipendentista kashmiro. Anche se, ben prima dell’indipendenza indiana, «Azadi» era parte del repertorio anticolonialista indiano e, in seguito, è stato modificato nella forma della cantilena odierna dal movimento femminista indiano, come ha ricordato il quotidiano Hindustan Times.

L’elenco dei mali da cui liberarsi, in questo caso, si concentrava in particolare contro la società patriarcale, come si può vedere in questo video della storica femminista Kamla Bashin, che coniò la sequenza «Le mie sorelle vogliono la libertà; le mie figlie vogliono la libertà; lo slogan di tutte le donne sia libertà».

In definitiva, «Azadi» è lo slogan degli anti-sistema, delle opposizioni, di chi combatte per una società più giusta, ma anche degli indipendentisti kashmiri e della loro battaglia politica contro il governo centrale indiano.

Una questione spinosa e divisiva dalla quale lo stesso Kumar ha provato a districarsi furbescamente, spiegando che gli studenti non vogliono «Azadi» dall’India, ma vogliono «Azadi» all’interno dell’India.

Per tutti questi motivi, più diversi altri, alla domanda «beh, ma allora che ne pensi dell’India di oggi?» continuerò, ancora per qualeh tempo, a rispondere: «Quale?».

[Scritto per Eastonline]