India – Singh apre a WalMart

In by Simone

Il premier indiano, sbeffeggiato dalla stampa mondiale per la sua mancanza di autorità, zittisce tutti ed impone delle riforme storiche. Il mercato indiano si apre agli investimenti stranieri diretti di catene come WalMart. Borsa ed imprese esultano, opposizione in piazza. E Mamata sbatte la porta.
Con un coup de théâtre abbastanza insolito per il compassato premier indiano Manmohan Singh, venerdì 14 settembre il governo indiano ha annunciato un pacchetto di riforme che andranno a liberalizzare il mercato del Paese, aprendo le porte agli investimenti diretti stranieri.

La spinta sull’acceleratore delle riforme arriva a ridosso di un periodo particolarmente problematico per l’Indian National Congress, partito di maggioranza nella coalizione di governo della United Progressive Alliance (Upa): una sessione parlamentare paralizzata dalle proteste dell’opposizione, che reclamava la testa di Singh per l’ennesimo scandalo di corruzione made in India – stavolta era il carbone, caso Coalgate per la stampa indiana; un premier sulla soglia degli 80 anni sbeffeggiato dalla stampa straniera per la sua mancanza di autorità – “tragic figure" per il Washington Post, “underachiever” per il Time – e un’economia in sala di rianimazione, in attesa di un elettroshock che la sollevi da quel misero 5 per cento di crescita annua.

Dopo quasi otto anni di inattività, hanno scritto in India, la terapia Singh è arrivata. Parziale privatizzazione di quattro compagnie statali nel settore minerario ed energetico, via libera ad investimenti diretti stranieri nell’aviazione civile fino al 49 per cento e, soprattutto, porte spalancate per le multinazionali dei supermercati come WalMart e Tesco, che potranno entrare nel mercato indiano con quote di maggioranza fino al 51 per cento.

Se dobbiamo soccombere, lo faremo combattendo” ha detto Singh, ben conscio che una rivoluzione del genere – che va a modificare lo scheletro dell’economia indiana, modellato sullo stampo socialista voluto dallo storico primo ministro Nehru – avrebbe causato reazioni diametralmente opposte.

Da un lato l’entusiasmo di India Inc., l’insieme dei grandi gruppi imprenditoriali indiani, delle agenzie di rating e dei mercati, con un’apertura da record del Sensex di Mumbai; dall’altro l’ira delle opposizioni, dai partiti di sinistra del Left Front ai nazionalisti hindu del Bharatyia Janata Party (Bjp), che giudicano il pacchetto di riforme come l’ennesima misura del Congress contro l’aam admi, l’uomo comune indiano già vessato da rincari del diesel e inflazione.

Al coro degli scontenti si è aggiunta anche Mamata Banerjee, chief minister del Bengala occidentale e presidente del Trinamool party, che coi suoi 19 deputati è la seconda forza politica all’interno della coalizione di governo a Delhi. Didi, come viene comunemente chiamata in Bengala occidentale, utilizzando il termine colloquiale per dire “sorella maggiore”, dopo una riunione con la dirigenza del Trinamool ha annunciato martedì 18 settembre che il suo partito venerdì 21 settembre si sarebbe ritirato dalla Upa, portandosi via virtualmente la maggioranza alla Lok Sabha, la camera bassa del parlamento indiano.

Solo virtualmente però, siccome il Congress può comunque contare sull’appoggio esterno di due partiti locali, il Samajwadi Party e il Bahujan Samaj Party, che coi loro 41 deputati complessivi possono garantire una sorta di governabilità. Chiaramente dietro adeguato compenso politico, da pagarsi in fondi locali e promesse di poltrone di peso per le prossime elezioni nazionali del 2014.

Mamata, che aveva già fatto naufragare un’analoga proposta di liberalizzazione dei supermercati l’anno scorso, ha dichiarato di non voler appoggiare una serie di misure che “svendono il Paese agli stranieri”. Prospettiva in linea con gli orizzonti apocalittici descritti dal Bjp, che hanno parlato di milioni di persone condannate alla disoccupazione e mercati locali costretti a chiudere per la concorrenza dei grandi supermercati stranieri.

In realtà la liberalizzazione della vendita al dettaglio avverrà all’interno di paletti molto rigidi. WalMart e simili potranno aprire i propri supermercati solo nelle città con più di un milione di abitanti – una cinquantina – a fronte di un investimento nelle infrastrutture nazionali a partire da 100 milioni di dollari ed impegnandosi a rifornirsi da produttori locali per almeno il 30 per cento della merce in vendita. Senza calcolare che l’ultima parola per accogliere i centri commerciali sul proprio territorio andrà ai governi locali.

“Tutte le storie che i piccoli rivenditori moriranno di fame sono delle fandonie” ha dichiarato a China Files James Fontanella-Khan, a lungo corrispondente dall’India per il Financial Times recentemente trasferitosi a Bruxelles per il quotidiano londinese.

La maggior parte dei consumatori indiani vive nei villaggi, stiamo parlando del 65 per cento della popolazione, e si affidano al piccolo distributore” ha spiegato Fontanella-Khan “mentre nelle città gli spazi per realizzare nuovi supermercati dove vendere a prezzi concorrenziali sono scarsi. Per questo i supermercati che già esistono nelle metropoli indiane sono dei ‘luxury stores’ che si rivolgono a una clientela di super ricchi”.

Secondo il corrispondente del Financial Times l’effetto delle riforme sarà positivo, soprattutto per modernizzare la catena della distribuzione dal produttore al consumatore, attualmente in uno stato disastroso.

I dati del Ministero del Commercio parlano chiaro: a causa di strade dissestate, continui cali di tensione e assenza di celle frigorifere per il trasporto delle merci deperibili, ogni giorno in India il 30 per cento dei prodotti agricoli marcisce prima di raggiungere i banchi del mercato. Di quello che arriva, il commerciante è costretto a buttarne un altro 30 per cento, non potendo mantenerlo in fresco fino alla fine della giornata.

L’arrivo di WalMart, insomma, farà felice sia l’India, che disporrà di maggiori fondi per migliorare le proprie infrastrutture, sia gli Stati Uniti, che avranno accesso ad un mercato che gli esperti valutano intorno ai 450 miliardi di dollari.

Non è un segreto che l’entrata del colosso dei supermercati è stata fortemente caldeggiata da Barack Obama in persona. Lo scorso luglio, in un’intervista che in India fece scalpore, Obama dichiarò all’agenzia di stampa indiana Press Trust India che “molti businessman americani sono preoccupati per il deteriorarsi dell’ambiente degli investimenti in India. Ci dicono che è ancora troppo difficile investire nel vostro Paese. In molti settori, come quello della vendita al dettaglio, l’India limita o proibisce gli investimenti stranieri necessari per creare posti di lavoro in entrambi i Paesi e per permettere all’India di continuare a crescere”.

Parole che all’epoca vennero respinte al mittente come “ingerenza in affari interni” e che oggi ancora prestano il fianco alle critiche di “svendere il Paese agli americani” rivolte a Singh. Un’anatema, considerando lo spiccato anti-americanismo che accomuna gran parte della dirigenza indiana, ideologicamente ed anagraficamente di epoca nehruviana.

Tra giochi di potere, polemiche strumentali ed uno sciopero nazionale indetto dalle opposizioni che il 20 di settembre ha parzialmente bloccato alcune parti del Paese, le riforme di liberalizzazione del mercato segnano una svolta storica nell’economia indiana e mostrano quantomeno la volontà del Congress di provare a far ripartire la seconda potenza asiatica.

Ma la terapia d’urto potrebbe non bastare. “Fino a quando il Paese non investirà in maniera massiccia in infrastrutture, salute ed educazione” sostiene Fontanella-Khan “l’India, un Paese che amo con tutto il mio cuore, rimarrà solo una grande speranza che ha tradito più di un miliardo di persone”.

[Scritto per Linkiesta; foto credit: indianlink.com.au]