isole del pacifico

In Cina e Asia – Salta mega accordo tra la Cina e le isole del Pacifico

In Notizie Brevi by Sharon De Cet

I titoli di oggi:

  • Salta mega accordo tra la Cina e le isole del Pacifico
  • Covid-19: Shanghai e Pechino si preparano al ritorno alla normalità
  • Polemiche sulla visita di Bachelet in Xinjiang
  • Il Giappone punta a consentire l’esportazione di caccia e missili in 12 nazioni

L’atteso accordo multilaterale tra Cina e isole del Pacifico non si farà. Lo ha confermato stamattina l’ambasciatore cinese alle Fiji a stretto giro da un meeting virtuale tenuto dal ministro degli Esteri, Wang Yi, e gli omologhi regionali. Secondo la versione cinese, mentre il trattato aveva riscosso “supporto generale”, i negoziati sono stati sospesi a causa delle preoccupazioni sollevate da alcuni potenziali membri. Secondo le indiscrezioni rimbalzate nei giorni scorsi sulla stampa internazionale, l’agreement avrebbe dovuto includere non solo l’istituzione di un’area di libero scambio ma anche misure volte a rafforzare la cooperazione nel mantenimento della sicurezza. La Micronesia aveva espresso la propria contrarietà temendo di venire trascinata nel braccio di ferro tra la Cina e le storiche potenze regionali, Australia, Stati uniti e Nuova Zelanda. Pare che alla fine le voci a favore della cautela abbiano prevalso.

Wang Yi, che si trova in Oceania da giovedì scorso, non tornerà comunque a casa a mani vuote. Sabato scorso la Cina ha firmato un accordo con le isole Samoa promettendo “maggiore collaborazione”. I dettagli non sono chiari ma, secondo una precedente bozza trapelata ed inviata a diversi paesi nella regione, le due nazioni avrebbero piani per espandere la sicurezza e l’impegno economico reciproco. Lotta al cambiamento climatico, sviluppo post pandemia e sicurezza regionale sarebbero tre degli elementi principali emersi dall’incontro tra Wang Yi ed il primo ministro di Samoa, Fiame Naomi Mata’afa, il quale ha affermato che la Cina continuerà a fornire supporto allo sviluppo infrastrutturale del paese in diversi settori.

Il tour diplomatico cinese nel Pacifico preoccupa Canberra: la delegazione cinese ha già visitato le Isole Salomone e Kiribati e, dopo una tappa nelle isole Fiji, si dirigerà a Tonga, Vanuatu, Papua Nuova Guinea e Timor Est. La regione è tradizionalmente vista dall’Australia come il proprio “cortile”, ma il precedente governo federale avrebbe “lasciato perdere” la questione della crescente influenza cinese, secondo le parole del neoeletto primo ministro Anthony Albanese. La nuova amministrazione australiana si è però già messa in azione: Penny Wong, la nuova ministra degli Esteri australiana, è stata alle Fiji venerdì, per cercare di corteggiare gli stati insulari dopo che le Isole Salomone hanno colto di sorpresa Canberra firmando l’ormai celebre patto di sicurezza con la Cina. Il primo ministro delle Fiji ha elogiato Wong dopo l’incontro, precisando però che le Fiji non sono un “cortile” per nessuno, ma sono parte di una grande famiglia del Pacifico le cui preoccupazioni sarebbero causate dal cambiamento climatico e non dalla geopolitica.

Intanto, la Cina continua il suo grand tour nel Pacifico: venerdì, a Kiribati Wang ha incontrato il presidente Taneti Maamau, per discutere di pesca, istruzione e salute. Kiribati ha negoziato per maggiori opportunità commerciali e turistiche con la Cina, ma non era entusiasta di un potenziale accordo di sicurezza, secondo un funzionario rimasto anonimo. I media statali cinesi dal canto loro hanno elogiato il viaggio nell’arcipelago come una pietra miliare delle relazioni bilaterali: secondo China Daily, la Cina “non è solo amica di Kiribati, ma anche l’amica più affidabile di tutti i paesi in via di sviluppo”. La testata ha anche affermato che le due parti si sono accordate per estendere la cooperazione sui progetti Belt and Road Initiative e creare nuove sinergie marittime “sulla premessa della protezione ecologica”.

Covid-19: Shanghai e Pechino si preparano al ritorno alla normalità

Shanghai porrà essenzialmente fine al suo lockdown a partire da mercoledì, dopo un allentamento delle restrizioni nell’ultima settimana. Venerdì, il distretto suburbano di Fengxian di Shanghai ha annullato l’obbligo per i residenti di avere un pass per uscire e, domenica scorsa, la portavoce del governo Yin Xin ha detto che la città allenterà i requisiti di test per le persone che vogliono entrare nelle aree pubbliche, di modo da incoraggiare il ritorno al lavoro. Per i mezzi pubblici la validità del test PCR passa da 48 a 72 ore e, nonostante bus ed alcuni centri commerciali abbiano già riaperto completamente, ai mezzi privati non sarà per il momento permesso di circolare senza autorizzazione. Le autorità non hanno ancora annunciato piani dettagliati per il ritorno alla normalità. Shanghai ha riportato poco più di 100 nuove infezioni domenica, mentre Pechino solamente 21, mantenendo la tendenza nazionale in forte decrescita. Nella capitale ieri hanno riaperto centri commerciali, biblioteche, musei, teatri e palestre – con limiti al numero di persone – negli 8 dei 16 distretti che non hanno registrato casi di comunità per sette giorni consecutivi. I distretti di Fangshan e Shunyi metteranno fine alle regole del lavoro da casa, mentre il trasporto pubblico riprende in gran parte nei due distretti così come a Chaoyang, il più grande della città.

Mentre il numero di casi a livello nazionale sta migliorando, la stretta aderenza della Cina alla sua strategia zero-Covid ha devastato l’economia e sconvolto le catene di approvvigionamento globali. Gli investitori sono preoccupati per la mancanza di una tabella di marcia chiara da parte del presidente Xi Jinping per assorbire lo shock post pandemico. L’impatto economico è evidente nei dati economici pubblicati venerdì scorso: i profitti di aprile delle aziende industriali cinesi sono diminuiti dell’8,5% annuo, il calo maggiore in due anni. L’economia cinese ha mostrato segnali di ripresa questo mese dopo il crollo di aprile, ma l’attività è più debole rispetto allo scorso anno e molti analisti si aspettano un’ulteriore contrazione nel secondo trimestre.

Polemiche sulla visita di Bachelet in Xinjiang

L’Alta Commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet ha terminato sabato il suo viaggio in Cina chiedendo a Pechino di rivedere tutte le sue politiche antiterrorismo e anti-radicalizzazione affinché rispettino gli standard internazionali sui diritti umani. Il viaggio di sei giorni, il primo dell’Alto commissariato nel paese dal 2005, ha portato Bachelet a Kashgar e Urumqi, nella provincia dello Xinjiang, dove il governo cinese è stato accusato di sterilizzazione forzata e internamento di massa ai danni dell’etnia uigura e di altre minoranze musulmane.

Durante il tour “a circuito chiuso” Bachelet ha potuto poi incontrare alti funzionari, membri delle forze dell’ordine, della società civile e figure di spicco del governo tra cui il ministro degli Esteri cinese e il presidente Xi Jinping. L’Alta Commissaria ha inoltre visitato una prigione maschile a Kashgar, giudicata dal team delle Nazioni Unite come “piuttosto aperta e trasparente”. La forte censura degli attivisti pro-democrazia ad Hong Kong è stato un altro dei temi cardine della visita di Bachelet, che ha espresso profonda preoccupazione sulle attività di avvocati, attivisti per i diritti umani e giornalisti che vengono ingiustamente perseguiti nel quadro della legge di sicurezza nazionale imposta da Pechino sull’ex colonia britannica.

Particolare attenzione è stata data poi al cyberspazio, dopo che un recente rapporto della Brookings Institution e dell’Alliance for Securing Democracy ha dimostrato che i contenuti promossi da Pechino sulla sua situazione in materia di diritti umani e le origini del Covid-19 appaiono ora regolarmente tra i primi risultati su Google, Bing e YouTube. Le ricerche del termine “Xinjiang” avrebbero restituito contenuti provenienti da testate statali cinesi nei primi risultati su YouTube quasi quotidianamente per tutta la durata dello studio, che ha coperto 120 giorni da novembre a febbraio, e per quasi il 90% delle volte su Google o Bing News.

L’impatto della disinformazione online cinese sulla questione dello Xinjiang è diventato lampante dopo che la settimana scorsa Adrian Zenz, un antropologo tedesco che ha indagato sulla repressione degli uiguri, ha pubblicato i cosiddetti Xinjiang Police Files, una grande raccolta di dati presumibilmente hackerati dai database della polizia cines. I file, che contenevano foto di oltre 2.800 detenuti nella rete tentacolare di carceri e campi di internamento della regione, sono stati resi pubblici proprio durante la visita di Michelle Bachelet. Durante la conferenza stampa virtuale rilasciata a Guangzhou al termine del suo tour, Bachelet ha affermato che la Cina ha dato il suo accordo per formare un gruppo di lavoro con l’ONU al fine di scambiare opinioni sui diritti delle minoranze e sui diritti umani in relazione all’antiterrorismo ed Internet.

La dichiarazione di Bachelet è stata aspramente criticata dai gruppi per i diritti umani e da molti attivisti. Non solo si è infatti conclusa con un elogio degli sforzi di Pechino nell’eliminazione della povertà in Xinjiang, ma l’Alta Commissaria avrebbe risposto a meno di 10 domande. Di queste, almeno quattro provenivano dai media statali cinesi, a cui Bachelet avrebbe fornito risposte dettagliate sulle questioni relative ai diritti umani negli Stati Uniti, sorvolando però su molte questioni relative allo Xinjiang.

Il Giappone punta a consentire l’esportazione di caccia e missili in 12 nazioni

Il governo giapponese mira a rafforzare la deterrenza contro la Cina cooperando con i paesi che hanno firmato accordi di sicurezza individuali con Tokyo. Ciò si potrebbe concretizzare grazie ad un allentamento del principio relativo ai trasferimenti di equipaggiamento per la difesa. Formulato nel 2014, il principio afferma che le esportazioni verso paesi che non sviluppano armi congiuntamente con il Giappone sono limitate alle attrezzature per missioni di salvataggio, trasporto, allerta, sorveglianza e sminamento. Secondo il Nikkei Asia Review, il governo giapponese prevede ora di consentire l’esportazione di caccia, missili e altre armi in 12 paesi, tra cui India, Australia e alcune nazioni europee e del sud-est asiatico. Le modifiche normative per consentire le esportazioni potrebbero arrivare entro marzo 2023.

Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina a febbraio, il contesto di sicurezza dell’Asia è diventato sempre più teso, complice la crescente assertività di Pechino nella regione. I funzionari di Tokyo sperano che la diffusione di apparecchiature di fabbricazione giapponese nei paesi vicini approfondisca la cooperazione in materia di sicurezza con gli alleati, tra cui l’Australia, l’India, il Vietnam, la Malesia e le Filippine. Dopo che avrà rivisitato le politiche pertinenti, il Giappone punterà sull’esportazione di caccia e nuovi missili intercettori lanciati dal mare per prevenire la diffusione di velivoli militari di fabbricazione cinese. Il governo giapponese prevede inoltre di esportare attrezzature come giubbotti antiproiettile ed elmetti anche in paesi con i quali non firma accordi di sicurezza individuali: Tokyo ha già fornito questi articoli all’Ucraina, ma permangono preoccupazioni sul fatto che l’equipaggiamento militare giapponese possa essere utilizzato in conflitti internazionali.

Per il momento l’attivismo internazionale di Kishida sembra aver riscosso l’approvazione popolare. Secondo un sondaggio del Nikkei, il nuovo premier giapponese ha visto il proprio indice di gradimento raggiungere il 66%, il valore più elevato dalla vittoria elettorale di ottobre scorso.

A cura di Sharon de Cet; ha collaborato Alessandra Colarizi