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Gig-ology – Record di giovani disoccupati in Cina? Potrebbero essere di più

In Economia, Politica e Società, Gig-ology by Vittoria Mazzieri

Dopo il record del 19,9% di luglio 2022, lo scorso aprile per la prima volta la disoccupazione di giovani di città della fascia 16-24 anni ha superato il 20%. La contrazione del mercato del lavoro e l’affievolimento della mobilità sociale resta un problema radicato in una Cina che da mesi ha abolito la Zero Covid e parla di ripartenza. Ma la situazione potrebbe essere ancora più critica. Gig-ology è una rubrica sul mondo del lavoro asiatico

Segnali positivi e, al contempo, un nuovo disastroso record. I dati di aprile pubblicati dall’Ufficio nazionale di statistica cinese (NBS) mostrano tendenze opposte e conviventi in termini di disoccupazione. Da una parte, il tasso per la fascia di popolazione considerata fondamentale in termini di produzione del lavoro (quella 25-59 anni) registra un calo costante: si è attestata al 4,2%, lo 0,1% in meno rispetto a marzo scorso.

La curva della disoccupazione per i giovani della fascia 16-24, invece, ha un’andatura molto diversa. Per la prima volta dal 2018, vale a dire quando sono disponibili le statistiche così formulate, si è superato il 20%. Ci si era già andati molto vicino a luglio 2022, quando la percentuale aveva toccato il 19,9. Ne era seguita una lunga serie di analisi e commenti da parte di osservatori cinesi e non che tentavano di delineare le cause di uno scenario così preoccupante: quasi un giovane su cinque della Repubblica popolare è disoccupato, non studia e non lavora. In città, va specificato, visto che i sondaggi sono condotti nei centri urbani e non rappresentano la situazione delle aree rurale del paese.

Un esercito di menti che dovrebbe adoperarsi per la “costruzione della modernizzazione” del paese, uno sforzo che necessita di giovani istruiti e motivati che si facciano promotori di uno “sviluppo di alta qualità”. E che, invece, si ritrovano invischiato in condizioni di vita e lavoro precarie, rifiutano l’idea di sacrificio assoluto in nome del successo e riversano la propria frustrazione sui social.

Disoccupazione canaglia

Se il tasso del 20,4% di aprile indica una condizione mai così critica per le nuove generazioni, la disoccupazione giovanile è da tempo una spina nel fianco per la leadership cinese. Già all’indomani della crisi finanziaria globale la cifra aveva superato cifra doppia, per poi stabilizzarsi e risalire nei primi mesi dallo scoppio della pandemia.

Un altro grafico di Trading Economics mostra come la situazione sia peggiorata considerevolmente nella prima metà del 2022. Secondo gli osservatori i numeri più contenuti dei primi due anni di Covid raffigurano di fatto la rapida risposta di Pechino alla crisi pandemica. Nel febbraio 2020 Xi Jinping ha dichiarato guerra al “demone” del virus e il governo ha intrapreso importanti sforzi per tenere sotto controllo la situazione sanitaria nazionale. Ai focolai di varianti emersi nel 2021 si è risposto con la dura applicazione della strategia Zero Covid.

Le autotià di varie aree del paese si sono servite delle stringenti politiche di contenimento per tutto il 2022. Il caso più drammatico (e più coperto a livello mediatico) ha visto la metropoli di Shanghai in lockdown per due mesi interi. Una situazione che ha prodotto conseguenze tragiche: persone decedute in casa, la mancanza di beni di prima necessità e l’impossibilità per le centinaia di migliaia di persone coinvolte di uscire a procacciarseli, una comunicazione carente tra istituzioni e popolazione.

Aspettative in sala d’attesa

Come riporta un articolo di un profilo cinese (a cui pare non si riesca più ad avere accesso), il peggioramento della condizione occupazionale si è registrato solo dopo una prima “fase di attesa”. La pandemia ha messo in pausa relazioni sociali e lavorative. Nel mentre “sono cambiate le aspettative dei giovani”, e molti di loro “hanno scoperto che il futuro non era così promettente come si pensava”. Insomma, “gli ultimi tre anni hanno solo ritardato la crisi”. L’autore dell’articolo non manca di nominare le occupazioni flessibili, che avevano ricevuto un celere endorsement pubblico da parte dell’allora premier Li Keqiang e che di fatto hanno assorbito la forza lavoro espulsa dal settore manifatturiero e dalle attività private.

E poi? La stretta degli organi governativi sul mondo digitale ha reso ancora meno promettente le opportunità lavorative. Nel primo semestre del 2022 molte grandi società hanno intrapreso sforzi di ristrutturazione arrivando anche a licenziare il 20% dei dipendenti in alcune sezioni. L’insofferenza per questi aspetti si è sommata a quella per le misure anti-pandemia ancora in vigore. O meglio, per l’imprevedibilità e l’arbitrarietà nella loro applicazione. Un senso di frustrazione diffusa che ha caratterizzato anche le cosiddette “proteste dei fogli bianchi” di fine 2022, che si sono tradotte in manifestazioni in varie città cinesi (e che sono state caratterizzate da una grande partecipazione femminile).

Con il cambio di rotta e l’abolizione della Zero Covid il governo ha salutato con entusiasmo una fase di nuovo sviluppo, rivendicando una promettente ripresa del turismo e dei consumi. Ma l’impeto di rinascita non è stato condiviso da tutti. Il tasso di disoccupazione per la fascia di età 16-24 è sceso sotto il 17% a cavallo tra dicembre 2022 e febbraio 2023 per poi tornare a salire.

Rassicurazioni istituzionali

Nella conferenza stampa sui dati occupazionali, il portavoce e direttore del Dipartimento di statistica dell’Ufficio nazionale di statistica Fu Linghui ha detto che la situazione è rimasta “generalmente stabile”. Il tasso di disoccupazione urbana totale del 5,2% indica livelli molto simili a quelli pre-Covid, con un calo costante dello 0,1% di mese in mese. Il 4,2% che si riferisce ai disoccupati oltre i 24 anni è addirittura inferiore rispetto allo stesso periodo del 2019.

Fu ha anche ripetuto il mantra che ritorna ogni anno in prossimità dell’estate: la percentuale di giovani non occupati registrerebbe un’impennata perché riflette la fascia di universitari che concludono i percorsi di studio e si affacciano sul mondo del lavoro. E i giovani “altamente istruiti”, tra l’altro, sono in costante aumento. Ogni anno, infatti, si batte un nuovo record: erano neanche 9 milioni nel 2020, hanno superato per la prima volta 10 milioni nel 2022, le stime dicono che saranno 11,6 milioni quest’anno.

Ha anche ammesso, tuttavia, che i problemi strutturali sono ancora evidenti, aggiungendo che “gli sforzi per stabilizzare ed espandere l’occupazione giovanile devono ancora essere intensificati”. Piani mirati in tal senso, ha assicurato il portavoce, verranno introdotti presto dai dipartimenti competenti.

Un tasso inaffidabile

Più che a fattori che riguardano lo sviluppo economico del paese, secondo alcuni utenti del web la questione è legata a doppio filo alle falle nella raccolta dei dati. Non si può parlare di disoccupazione senza includere tutti quelli che non lavorano. Cosa che l’Ufficio nazionale di statistica non fa.

Una opinione condivisa da molti analisti, secondo cui le modalità con cui si raccolgono tali cifre porterebbero a una grave sottostima della situazione. Se ne parlava già nei mesi successivi al fallimento della Lehman Brothers: malgrado si sia calcolato che tra il 2008 e il 2009 più di 20 milioni di migranti cinesi abbiano perso il lavoro, il tasso di disoccupazione nazionale si è mosso appena.

Prima del 2018 Pechino pubblicava i dati relativi al numero dei lavoratori urbani che si registravano presso gli uffici governativi quando perdevano il lavoro e che potevano beneficiare del sussidio di disoccupazione. Erano del tutto esclusi i lavoratori migranti, e si considerava solo la fascia di persone compresa tra i 16 e i 59 anni che rispettavano una serie di condizioni: aver lavorato in maniera continuata e come dipendente per almeno un anno e aver cessato il rapporto lavorativo contro la propria volontà. Erano esclusi, quindi, i lavoratori autonomi e quello che avevano mollato il lavoro.

Ad oggi l’Ufficio nazionale di statistica rivela i dati sull’occupazione nel rapporto Quanguo chengzhen diaozha, 全国城镇调查, “Sondaggio nazionale urbano”: si tratta quindi di una indagine condotta mensilmente e che include tutti i residenti urbani regolari senza limiti di età. Le condizioni richieste per essere considerato disoccupato restano, tuttavia, piuttosto vaghe: si deve aver cercato attivamente un lavoro negli ultimi tre mesi e si deve essere in grado di iniziare a lavorare entro due settimane. In un articolo del South China Morning Post del 2020 si legge che malgrado l’Ufficio sostenga di includere anche le persone che posseggono un hukou rurale, sarebbe trascurata del tutto la categoria dei lavoratori migranti (che in totale conta circa di 300 milioni di persone). E che dire della miriade di uomini e donne gestori di bancarelle? Sembra non esistano dei dati che rispecchiano la situazione dei 149 milioni di imprenditori autonomi.

Di Vittoria Mazzieri