Dragonomics – Confucio e l’arte di innovare

In by Andrea Pira

Maestro Kong una palla al piede? La riscoperta dell’antico pensatore rischia di essere un ostacolo alla transizione economica cinese: il confucianesimo è una dottrina dell’ordine, ma non dell’innovazione Merce buona per l’export, ma inutilizzabile in casa. Anzi, da rottamare al più presto. Non si parla qui della bandiera del Tibet indipendente, che qualche anno fa si scoprì essere prodotta in una fabbrichetta nel Guangdong, bensì nientepopodimeno che di Confucio, il padre del pensiero e dell’organizzazione statale cinese.
Se infatti è vero che l’antico maestro Kong ha fatto ormai da anni il suo grande ritorno in Cina, può anche darsi che proprio i suoi precetti costituiscano in questo momento il grande ostacolo alla transizione economica cineseIl tema è quello dell’innovazione; la domanda: il confucianesimo è l’incubatore ideale per garantirla?

Vissuto nel sesto secolo avanti Cristo, Confucio elabora in un epoca di caos e conflitti un sistema politico-morale che punta a ripristinare l’ordine: l’uomo è in grado di perseguire virtù fondamentali come l’umanità e la rettitudine a patto che si conformi a un complesso di norme che regolano i rapporti e le gerarchie. Ognuno deve rispettare il ruolo che gli ha assegnato la società (re-suddito, fratello maggiore-fratello minore, padre-figlio, uomo-donna e così via). Tuttavia, chi occupa le posizioni più elevate è responsabile del benessere collettivo. La diseguaglianza tra gli esseri umani deve quindi andare a beneficio di tutti, altrimenti si può anche abbattere l’imperatore di turno, che non è più in grado di fare il suo mestiere. Ma lo si sostituirà quanto prima con un altro, perché è lui il garante di un’armonia complessiva della società in cui il conflitto, in quanto caos, è visto come suprema sciagura.
Dopo essere stato dottrina ufficiale dell’impero per duemila anni, con l’avvento del comunismo, nel 1949, il confucianesimo viene ostracizzato in quanto incarnazione del vecchiume. Negli ultimi anni, invece, di fronte al vuoto morale lasciato dalla fine del maoismo e alle nuove domande poste dallo sviluppo capitalista accelerato, è ritornato gradualmente in auge, promosso dalla stessa leadership di Pechino.

Molti teorici contemporanei cinesi lo giudicano infatti perfetto per interpretare il capitalismo secondo caratteristiche cinesi: non persegue l’eguaglianza piatta di Mao, ma pretende che il governante meritevole (o il manager capace) si dia da fare per il bene comune: “Non è del popolo, ma per il popolo, ci dice il professor Bai Tongdong, che insegna filosofia alla Fudan di Shanghai ed è uno dei più riconosciuti neoconfuciani. “Non siamo contrari alla ricerca del profitto – continua il professore – siamo solo contrari alla ricerca del profitto nel modo sbagliato”. E, citando Confucio stesso: “Se la via confuciana si è imposta e tu rimani povero, vergognati. Se invece la via non si è imposta, il mondo è nel caos e tu sei ricco e famoso, vergognati comunque. Il profitto in sé non è necessariamente un male, tutto dipende dal modo in cui lo persegui”.
È una filosofia prêt-à-porter per la Cina turbocapitalista, l’equivalente del cristianesimo protestante per la borghesia d’Occidente: merito più responsabilità sociale. Ed è made in China. Il Dragone trova in se stesso un pensiero al passo con i tempi.

Nessuna meraviglia quindi che anche il Partito comunista cerchi di adottarlo, autorappresentandosi sempre più meritocratico e meno ideologico: Mao Zedong lascia il posto ai tecnocrati, la correttezza dottrinaria alla meritocrazia.
Allo stesso tempo, nelle accademie – tra cui la stessa scuola del Partito – si elabora un modello neoconfuciano come alternativa politica alla democrazia occidentale.
E qui, Confucio diventa merce d’esportazione.
Di fronte alla crisi dell’Occidente, i riformatori neoconfuciani ritengono infatti che il pensiero di maestro Kong possa assumere valore universale. La democrazia ha troppi lacci e lacciuoli ed è ormai degenerata nel populismo per rincorrere l’elettorato – dicono – le posizioni di leadership andrebbero invece assegnate ai membri più capaci e virtuosidella comunità, attraverso un meccanismo di selezione per esami e di cooptazione. Ne uscirebbe così una sorta di élite capace di interpretare al meglio le turbolenze sociali e la complessità del mondo senza perdere troppo tempo. Un’élite nata però da un’eguaglianza di opportunità nell’accesso agli studi. Secondo un altro neoconfuciano, Jiang Qing, i singoli membri di questa élite meritocratica sarebbero poi giudicati sulla base dei propri atti pratici.
Zhang Weiwei – un altro accademico – ritene addirittura che l’Occidente si sia ormai ridotto a “parole vuote che logorano la nazione”, mentre il modello cinese garantisce il “tenersi al passo coi tempi e progredire”. Cioè, innovare.

Ma è davvero così? Dal punto di vista economico, il recupero di Confucio fa al caso della Cina di oggi?
Secondo Bill Dodson – statunitense di Shanghai che fa il consulente d’impresa – l’innovazione non è una questione di intelligenza, ma di incubazione: si tratta di creare l’ecosistema adatto alla circolazione di quelle idee che consentano di dare risposte inedite a problemi inediti.
“Non possiamo risolvere i problemi utilizzando lo stesso tipo di pensiero che avevamo quando li abbiamo creati”, diceva Einstein, e il sistema confuciano è proprio quel tipo di pensiero che lungi dal promuovere l’innovazione, la blocca. Nel suoChina Fast Forward, Dodson osserva che il sistema educativo cinese, di stampo confuciano, tende ad armonizzare l’iniziativa individuale nel comportamento collettivo. Gli stessi insegnanti spingono gli alunni a rifarsi all’autorità per risolvere problemi e conflitti (va detto che parla per esperienza, avendo una famiglia mista e un figlio in età scolare).Nessun comportamento è orientato al problem-solving e così il sistema finisce per creare nei ragazzi un atteggiamento che nelle situazioni di crisi ondeggia paurosamente tra il passivo e l’aggressivo, traducendosi a volte in atteggiamenti esplosivi.

Quanto alle imprese, Dodson passa in rassegna diversi esempi per concludere che generalmente in quelle cinesi è la struttura gerarchica stessa (confuciana) a impedire la “management innovation”. Dovrebbero adottare un’organizzazione più piatta, “flat” come nelle le aziende americane (che per ottenerla, a onor del vero, hanno fatto un’ecatombe di quadri intermedi negli anni Novanta), dove il dipendente può sottoporre la propria idea al “capo” senza paure di “spingersi troppo in là”. In Cina, nessuno “si propone” proprio per paura di fare errori e bruciarsi le possibilità di avanzamento: le strutture gerarchiche delle imprese corrispondono al modello della società e una posizione più alta nella gerarchia non offre solo un salario migliore, ma anche i contatti giusti (il famoso guanxi): l’accesso a individui che hanno potere.

In un contesto del genere, Pechino ha potuto finora promuovere un modello di innovazione domestica (Zizhu chuangxin, noi diremmo “innovazione indipendente”) basato sull’acquisizione di tecnologia straniera, la sua manipolazione per adattarla alla realtà cinese, la successiva incorporazione in prodotti finiti competitivi perché basati sul basso costo del lavoro, e infine la rivendita di tutto il pacchetto all’estero.
Ha funzionato per i prodotti di massa con cui il Dragone ha invaso il mondo nei tre decenni appena trascorsi. Può funzionare per le merci high-tech e ad alto valore aggiunto?
No, è la risposta di Dodson, e l’esempio che cita è drammatico.
Quando due treni superveloci si scontrarono a Wenzhou nel 2011, provocando quaranta morti e duecento feriti, la Cina stava da settimane magnificando le proprie linee ad alta velocità e firmando accordi per venderle in mezzo mondo: costavano poco e i treni filavano più di quelli della concorrenza. Tuttavia, la tecnologia giapponese “adattata” in quell’occasione non era stata compresa appieno nei sistemi di segnalazione. I tecnici cinesi non erano riusciti nel processo di reverse-engineering tipico della Zizhu chuangxin.

Ci vorrebbe quindi un cambio di paradigma.
La capacità di una compagnia di creare prodotti innovativi che mettano fuori mercato – e non imitino – i concorrenti, viene dall’incubazione di talenti, non dalla copiatura di intelligenza. La famiglia, l’educazione e il sistema politico cinese puntano invece all’omogeneizzazione dell’iniziativa e della creatività individuali. Tutta colpa di quella palla al piede di nome Confucio.