Alibaba promuove il vino italiano, ma è un miraggio

In Uncategorized by Alessandra Colarizi

«Marco Polo ha impiegato 8 anni per andare e tornare dalla Cina. Con internet possiamo impiegare 8 secondi». Non avrebbe potuto trovare parole più efficaci Jack Ma, il fondatore del colosso cinese dell’e-commerce Alibaba, intervenuto al fianco del premier Matteo Renzi in occasione della 50ª edizione del Vinitaly di Verona. Una delle fiere vinicole più prestigiose al mondo. L’obiettivo è quello di portare le vendite di vino italiano dal 6 al 60 per cento del totale delle bottiglie distribuite sulla piattaforma online, la cui costola B2C (business to consumer) Tmall conta già oltre 90 brand nostrani.
«I cinesi sono appassionati di tutto ciò che è italiano e Alibaba vuole diventare una porta d’accesso per i brand e le piccole imprese italiane in Cina», ha scandito il secondo uomo più ricco della Repubblica popolare, annunciando la nascita di un evento ad hoc per incrementare le vendite online di vino: il Wine and Spirits Festival, o meglio il 9/9. Un nome che gioca sull’assonanza della data dell’evento (il 9 settembre) e la parola «vino» che in cinese si pronuncia «jiu», proprio come il numero nove. La speranza è quella di eguagliare il successo riscosso dall’11/11, la festa dei single che in Cina cade l’11 novembre e viene celebrata con spese pazze in grado di far impallidire il Black Friday americano. Le cantine si sfregano le mani.

I vini italiani rappresentano soltanto il 5 per cento delle importazioni cinesi, per un valore di 1,8 miliardi di euro. Numeri che piazzano l’Italia al quinto posto dopo Francia, Australia, Spagna e Cile; al sesto se si considerano le vendite sul mercato di Hong Kong. Questo sopratutto a causa delle risorse ristrette dei produttori italiani – perlopiù imprese a conduzione famigliare– che complicano la penetrazione in mercati complessi come quello cinese. Secondo il rapporto annuale del Wine Monitor, su un totale di 55mila aziende nazionali, l’85 per cento produce meno di 10mila bottiglie. E dei 5,4 miliardi ricavati dall’export italiano nel mondo solo 87 milioni finiscono in Cina.

«L’unica opportunità che le piccole imprese hanno di tenere testa alla competizione globale è quella di digitalizzarsi», ha dichiarato Renzi, definendo la situazione italiana attuale in linea con gli obiettivi di export prefissati: vale a dire raggiungere entro il 2020 un fatturato all’estero di 50 miliardi di euro per l’intero food Made in Italy e di 7,5 per il solo vino. Ma si fa presto a dire digitalizzazione. La realtà dei fatti è molto più complessa.

«La Cina non è per tutti», non solo per via dell’annoso braccio di ferro sui dazi UE. A pensarlo è Massimo Ceccarelli, esperto di wine market, redattore del Corriere Vinicolo e fondatore dell’associazione culturale Eyes on China. Secondo Ceccarelli, un mix di fattori ostacola la penetrazione delle etichette italiane nel mercato cinese e non sarà Alibaba a risolvere il problema.

Cominciamo dai costi. «Il prezzo italiano medio per bottiglia è molto basso, più basso rispetto a quello di Francia, Australia e simile a quello del Cile, che però non ha problemi di dazi. Quindi possiamo anche crescere con il numero di bottiglie esportate ma se il prezzo medio è 2,7 dollari vuol dire che stiamo vendendo entry level. Il vino italiano tra i 3 euro e i 10 euro ex cellar price (ossia il prezzo per bottiglia che un importatore cinese paga) soffre tremendamente ad imporsi sul mercato cinese. I cinesi non prendono sul serio vini italiani che costino meno di quelli cileni».

L’Italia è penalizzata dalla sua ricchezza, continua Ceccarelli. «La Francia, invece, ha poche denominazioni di origine tutte riconoscibili sotto grandi nomi che identificano un territorio: Bordeaux, Borgogna, Champagne. Puoi fare anche un Bordeaux che fa schifo, ma quello si chiama Bordeaux e vince già soltanto perché ha dietro un marchio riconoscibile e una storia centenaria».

E’ una questione di uvaggi. «Nel mondo si è imposto un gusto internazionale riferibile ad alcuni uvaggi che danno risultati omogenei un po’ in tutti i paesi: Merlot, Sirah, Cabernet, Sauvignon, Chardonnay… Sono uvaggi, ma in un certo senso sono brand. Perché un cinese sa cosa troverà dentro una bottiglia di Cabernet Sauvignon che viene dalla Francia, dal Cile, dall’Australia o da qualsiasi altro paese che produce vino. Noi invece siamo il paese con la più grande ricchezza ampelografica al mondo ma veniamo penalizzati proprio per questo. Ci sono centinaia di doc che ai cinesi non dicono nulla, per cui, se si trovano davanti un Merlot o un Cesanese, al 99 per cento sceglieranno il Merlot».

Discorso diverso vale per i pesi massimi come il Prosecco. «Loro sì che hanno prospettive. Innanzitutto sono un marchio riconoscibile e hanno i giusti ingredienti per piacere al mercato cinese: un ottimo rapporto qualità prezzo, producono grandi quantità e sopratutto hanno soldi da investire».

Cosa consigliare ai pesi piuma? Inutile andare oltre la Grande Muraglia. I margini sulla vendita di bottiglie da 4 euro sono troppo scarsi rispetto ai 10-15mila euro necessari alla promozione online o all’organizzazione di una fiera. «Nei prossimi 10 anni ci sarà l’esplosione dei vini del Ningxia (provincia autonoma nord-occidentale, ndr), che inonderanno il mercato interno. Per cui, se dovessi consigliare uno sbocco a un produttore italiano medio-piccolo, non consiglierei certo la Cina. Piuttosto, bisognerebbe utilizzare il vino come attrazione per far venire i turisti cinesi in Italia. Ecco il vero business. Altro che vendere qualche migliaio di bottiglie. Conviene molto di più investire per l’incoming di turisti cinesi».