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Africa rossa – Il Sudan non è l’Ucraina

In Africa Rossa, Relazioni Internazionali by Alessandra Colarizi

Gli scontri in Sudan, il braccio di ferro tra Cina e Usa in Africa, l’interesse di Pechino le miniere africane, ma anche più in generale il futuro della Belt and Road. Sono alcuni dei temi molto che abbiamo affrontato nell’ultima puntata di Africa rossa, la rubrica a cura di Alessandra Colarizi.

  • Il Sudan non è l’Ucraina
  • Se l’Africa è una “cavia da laboratorio”
  • Cosa ne sarà della Belt and Road?
  • Se la libertà di stampa mette in riga le aziende statali cinesi
  • La Cina scommette sui porti africani
  • Il senso di Pechino per il Gabon
  • Decuplicati gli investimenti cinesi nelle infrastrutture energetiche africane
  • Il risiko sulle miniere africane
  • No, l’Africa non supporta la guerra in Ucraina
  • Il Giappone alla conquista del Sud globale
  • Taiwan prova a riacquistare terreno in Africa

 

In Sudan la Cina non commetterà gli stessi errori dell’Ucraina. Nella giornata di sabato, l’ambasciata cinese a Khartoum ha cominciato a prendere le richieste di chi vuole lasciare il paese. Forse memore delle critiche suscitate lo scorso anno dalla tardiva evacuazione dopo l’invasione russa dell’Ucraina.  Secondo il governo cinese, in Sudan ci sono più di 1500 cittadini e 130 aziende cinesi. Negli scorsi giorni lavoratori e studenti della Repubblica popolare avevano espresso preoccupazione per le ridotte provviste alimentari a causa dell’imprevedibilità della guerra. Nella settimana di scontri tra l’esercito regolare e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf), oltre 400 persone sono morte. Secondo le autorità locali, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Cina evacueranno i loro diplomatici e cittadini da Khartoum con aerei da trasporto militare. Domenica, Wu Xi, direttore generale del dipartimento per gli affari consolari del ministero degli Affari esteri cinese, ha dichiarato all’emittente statale CCTV che il presidente Xi Jinping ha dato istruzioni per proteggere i cittadini e le istituzioni cinesi in Sudan: “Lavoreremo giorno e notte, monitorando da vicino la situazione, formulando vari piani di lavoro, mantenendo stretti contatti con i compatrioti cinesi in Sudan, emettendo solleciti consolari e comunicando intensamente con le parti interessate”. Nonostante i toni solenni, non sembrano esserci ancora i presupposti per nessuna grande operazione in stile Wolf Warrior. Sarebbe un’ottima occasione per testare la base militare di Gibuti… 

Per la Cina la crisi  in Sudan è l’ennesima gatta da pelare. La China National Petroleum Corporation è tutt’oggi il principale azionista del consorzio petrolifero che opera in Sudan e Sud Sudan, dove sono concentrate la maggior parte delle riserve petrolifere. Negli ultimi anni la dipendenza del gigante asiatico dal greggio sudanese è stata notevolmente ridotta, così come l’estensione degli investimenti cinesi dopo gli innumerevoli colpi di stato. Nondimeno, il caos di questi giorni ricorda i rischi costanti per gli interessi cinesi in Africa. Ancora più pesante è il “danno morale”: una volta di più la Conferenza di Pace per il Corno d’Africa, lanciata da Pechino lo scorso anno, si è dimostrata finora inefficace. Così come inefficace si sta rivelando l’intento cinese di assicurare stabilità sociale attraverso il benessere economico. 

Recentemente avevo raccontato come la Cina aveva svolto un ruolo piuttosto importante nei negoziati di pace durante la crisi del Darfur e dieci anni più tardi nella guerra civile in Sud Sudan. Se però il gigante asiatico deciderà di bissare è ancora tutto da vedere. Il South China Morning Post ha raccolto l’opinione di vari esperti. A prevalere è l’impressione che Pechino potrebbe far valere la propria neutralità, ma non sembra avere ancora interesse a impantanarsi in una mediazione.

La guerra in Sudan riapre inoltre una questione scivolosa: quella del coinvolgimento della Russia, amica per la pelle della Cina. Recentemente ne avevo scritto in relazione alle violenze nelle miniere della Repubblica Centrafricana. Pare che anche le Rsf siano spalleggiate da Wagner Group. “Secondo Declan Walsh, corrispondente del New York Times in Sudan, Wagner ha ottenuto lucrose concessioni minerarie sudanesi che producono un flusso di oro che potrebbe ridurre l’effetto delle sanzioni economiche sulla guerra in Ucraina,” scrive Alessandro Arduino del King’s College. Proprio in Sudan Sergey Lavrov a febbraio ha ultimato un accordo per l’apertura di una base militare russa sul Mar Rosso. 

Se l’Africa è una “cavia da laboratorio”

L’Africa come “cavia da laboratorio”. Nel 2013 l’allora presidente dello Zambia, Michael Sata, descriveva in questi termini il tentativo messo in campo dalle potenze mondiali per sperimentare modelli di sviluppo concorrenziali nel continente africano. La metafora è tornata d’attualità nei giorni scorsi in concomitanza con le recenti riunioni di primavera del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca mondiale. Stavolta la competizione riguarda l’architettura finanziaria globale: la Cina ritiene gli accordi di Bretton Woods datati e svantaggiosi per i paesi emergenti, di cui si considera ancora capofila. 

La querelle, in corso da alcuni mesi, ha fatto da sottotesto al vertice di Washington. Ribadendo il punto, il governatore della Banca popolare cinese (PBOC) Yi Gang ha chiesto un’azione collettiva e una “equa condivisione degli oneri” per affrontare le questioni del debito sovrano dei paesi in via di sviluppo. Allusione alla controversa pretesa di Pechino che siano anche le banche multilaterali (MDB), come Banca mondiale e Fmi, a cancellare parte dei debiti contratti dai paesi emergenti, come fossero creditori qualunque. La Cina mantiene dunque il punto, deludendo le aspettative degli analisti. Soprattutto dopo le indiscrezioni rimbalzate su Wall Street Journal e Bloomberg di un possibile “agreement” con gli altri creditori che avrebbe visto Pechino abbandonare la richiesta se gli istituti multilaterali e regionali (come Asian Development Bank e African Development Bank) avessero accettato di assumersi impegni più espliciti per fornire ai paesi in difficoltà nuove sovvenzioni e finanziamenti a basso costo. 

Va detto che la questione è complicata e persino in Cina si fatica a trovare una linea comune. Basti pensare che Jin Liqun, il presidente dell’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), la superbanca istituita dalla Cina per affiancare la Belt and Road (e a cui hanno aderito oltre 100 paesi), ha ribadito solo pochi giorni fa la necessità di preservare “l’importante missione delle MDB, ovvero quella di fornire nuovo denaro per sostenere le economie [dei paesi altamente indebitati], in particolare in tempi molto difficili”. Per questo le MDB devono continuare a beneficiare di “uno status di credito privilegiato e di rating molto elevati in modo da poter raccogliere capitali a un minor costo.” 

Il debito è indubbiamente il nervo scoperto delle relazioni sino-africane. Non a caso è stato tra i temi più discussi dalla vicepresidente americana Kamala Harris durante la sua recente visita nel continente, che ha toccato anche lo Zambia, primo paese africano a dichiarare default all’inizio della pandemia. In un editoriale il Global Times ha risposto alle critiche americane ricordando come “quando si affrontano i problemi del debito africano, gli Stati Uniti pongono un gran numero di condizioni politiche, stabiliscono innumerevoli standard e soglie che molti paesi africani hanno difficoltà a raggiungere e tentano di ‘riformare’ l’Africa utilizzando la questione del debito come leva. Inoltre, i prestiti che gli Stati Uniti concedono all’Africa sono utilizzati principalmente in aree non produttive, innescando un circolo vizioso: più i governi africani prendono prestiti più diventano poveri, e più diventano poveri più prendono prestiti”. Il tabloid nazionalista sottolinea inoltre come Washington non sia titolato a dare lectio magistralis di finanza dopo il tracollo della Silicon Valley Bank. 

Il braccio di ferro tra le due superpotenze comincia a infastidire anche i leader africani. Accogliendo Harris, il presidente dello Zambia, Hakainde Hichilema, ha messo in chiaro che “Quando sono a Washington, non sono contro Pechino. Allo stesso modo, quando sono a Pechino non sono contro Washington”. Il presidente del Gambia e il vicepresidente della Nigeria gli hanno fatto eco. “Negli Stati Uniti sembra esserci un’ossessione per la Cina, ma qui non c’è nessuna ossessione”, ha detto Nana Akufo-Addo. Raramente capita di sentire capi di Stato africani esprimere posizioni così critiche in situazioni ufficiali. 

Negli ultimi due mesi sono usciti diversi studi interessanti sullo stato dei finanziamenti cinesi all’estero:

  • Circa 78,5 miliardi di dollari di prestiti cinesi a strade, ferrovie, porti, aeroporti e altre infrastrutture in tutto il mondo sono stati rinegoziati o cancellati tra il 2020 e la fine di marzo di quest’anno, secondo i dati raccolti dall’organizzazione di ricerca di New York Rhodium Gruppo.Si tratta di oltre quattro volte i 17 miliardi di dollari in rinegoziazioni e cancellazioni registrati da Rhodium nel triennio dal 2017 alla fine del 2019.
  • Per la prima volta uno studio ha fatto luce sulla Debt Service Suspension Initiative (DSSI), l’iniziativa di sospensione del servizio del debito lanciata dal G20 all’inizio del Covid-19 per permettere ai paesi più poveri di posticipare il pagamento del servizio del debito per il primo anno di pandemia. La China Africa Research Initiative (CARI) della Johns Hopkins University ha tirato un bilancio complessivo: per le 46 nazioni a basso reddito che hanno chiesto la riduzione del DSSI, la Cina ha contribuito per il 63% delle moratorie. Secondo i dati rilasciati da Pechino, 23 paesi – di cui ben 16 in Africa – hanno beneficiato degli aiuti cinesi nel quadro della DSSI. Nel novembre 2021, il governo cinese ha affermato di aver “firmato accordi di sospensione del servizio del debito o raggiunto un consenso con 19 paesi africani.” Ma, tra il 2020 e il 2022, lo studio del CARI riscontra inoltre un dimezzamento dei prestiti cinesi concessi ai 46 paesi che hanno presentato domanda nel quadro della DSSI. Le motivazioni potrebbero essere molteplici, tra cui proprio il tentativo di disincentivare le richieste di aiuto o semplicemente il timore di non vedere mai più i soldi prestati.
  • Su China Files avevamo scritto di come Pechino si sta affermando come uno dei maggiori “prestatori di ultima istanza” per i paesi in via di sviluppo gravati dai debiti. Secondo uno studio della Banca Mondiale e AidData, pubblicato martedì 28 marzo, la Cina ha investito almeno 104 miliardi di dollari tra il 2019 e la fine del 2021 in salvataggi internazionali. Si tratta di una pratica che complica il ruolo delle istituzioni multilaterali internazionali, come il Fmi. Storicamente, infatti, la Cina predilige rapporti bilaterali con i paesi in via di sviluppo, ponendosi come interlocutore alternativo rispetto alle organizzazioni a guida statunitense ed europea, generalmente poco inclini a finanziare paesi con un rating traballante. Brad Parks, direttore esecutivo di AidData presso il College of William and Mary negli Stati Uniti, ha dichiarato che l’architettura finanziaria globale sta diventando “meno coerente, meno istituzionalizzata, meno trasparente”, proprio a causa del sistema di salvataggio cinese, che interviene in modo “opaco e non coordinato”. 
Cosa ne sarà della Belt and Road?

La domanda sorge spontanea: cosa ne sarà della Belt and Road? Un recente studio del CFR ha messo in evidenza alcuni sviluppi recenti che permettono, se non di dare una risposta conclusiva, almeno di provare a definire una traiettoria per il prossimo futuro. Innanzitutto balza all’occhio come l’ “ufficialità” della Nuova via della seta sia stata fortemente compromessa tra il 2017 e il 2018, dalla decisione (annunciata da Consiglio di Stato, MOFCOM e NDRC, le tre istituzioni coinvolte nell’attuazione della BRI) di sospendere l’approvazione precedentemente necessaria per l’avvio dei progetti all’estero. Lo studio rileva inoltre una sospetta concentrazione di nuovi contratti nel mese di dicembre, coincidenza che potrebbe riflettere il tentativo di gonfiare i numeri in extremis per migliorare le statistiche annuali. Davvero la BRI ha perso tutto il suo appeal? Non esattamente. Secondo l’autrice, “mentre il numero di nuovi progetti firmati sta diminuendo di anno in anno, gli investimenti diretti esteri in imprese non finanziarie sono aumentati in modo relativamente costante” fino al 2022. Questa tendenza suggerisce che le aziende cinesi non stanno perdendo interesse per la BRI. Semplicemente le loro preferenze sono cambiate. Le ragioni potrebbero essere diverse, da un entusiasmo eccessivo nella fase iniziale, a una minore propensione al rischio senza una forte supervisione del governo. Senza contare l’indebitamento dei paesi partner. Le aziende cinese hanno molti buoni motivi per voler adottare maggiore prudenza.  

L’atteggiamento ondivago delle capitali africane, così come dei prestatori cinesi, negli ultimi anni è costato l’interruzione di diversi progetti infrastrutturali. Tra questi figura la ferrovia Kaduna-Kano, in Nigeria. Il progetto funzionale a più ampio piano di rinnovamento delle infrastrutture nazionali su rotaia. Dopo che nel 2020 Export-Import Bank of China si era tirata fuori a causa dei rischi finanziari, il governo di Muhammadu Buhari aveva chiesto un prestito a Standard Chartered Bank, ventilando un possibile coinvolgimento europeo nell’opera. Ma passati altri tre anni senza progressi concreti, Buhari ha richiamato i cinesi. A un costo rivisto di 973 milioni di dollari (invece degli 1,2 miliardi di dollari inizialmente stimati), pare sarà la China Development Bank (CDB) a farsi carico della spesa.  La Cina è difficile da sostituire, ad Abuja lo sanno bene.

Procede più spedita la Digital Silk Road. Ethio-Telecom, di proprietà del governo etiope, ha trasformato la sua piattaforma fintech TeleBirr in una SuperApp che fornisce agli utenti l’accesso a più servizi tramite un’unica interfaccia, tra cui e-commerce, food delivery, pagamenti di bollette e trasporti. Il software dell’app è stato sviluppato con il supporto del gigante tecnologico cinese Huawei.

Negli ultimi anni, lo streaming ha rivoluzionato il panorama africano. Della questione si è occupato Africa Business Insider, che spiega come gli investimenti cinesi nelle infrastrutture ICT hanno facilitato la fioritura di un nuovo ecosistema musicale nel continente.

Se la libertà di stampa mette in riga le aziende statali cinesi

Uno studio del Carnegie dimostra come la relativa libertà di stampa in Kenya abbia indotto un cambiamento nelle strategie aziendali della SOEs cinese nel paese. Comparando la situazione in Etiopia, la ricerca stabilisce che i media svolgono un importante ruolo di check and balance in grado di mettere in riga il business cinese in Africa. 

Rimanendo in Kenya, a fine febbraio più di un migliaio di commercianti ha protestato nella capitale Nairobi contro China Square, un nuovo negozio al dettaglio di proprietà cinese accusato di concorrenza sleale vendendo merci a prezzi il 50% più economici di quelli chiesti dai competitor locali. Va detto che a manifestare sono state le lobby dei commercianti africani, mentre i consumatori generalmente apprezzano il Made in China proprio per la sua economicità.

Il senso di Pechino per il Gabon

Cina e Gabon hanno elevato le relazioni bilaterali a “partnership comprensiva strategica”. L’annuncio è avvenuto in occasione della visita a Pechino del presidente Ali Bongo Ondimba, primo leader africano a visitare il paese asiatico dall’inizio del terzo mandato di Xi Jinping. Si dà anche il caso che il Gabon sia stato a gennaio tra gli stati compresi nella prima trasferta di Qin Gang da ministro degli Esteri. L’amicizia con Libreville attesta il crescente interessamento della Cina per l’Africa francofona. E, avendo assunto un seggio nel Consiglio di sicurezza dell’Onu come membro non permanente, il Gabon si presta anche da sponda per la strategia diplomatica di Pechino, sempre più incline a coltivare consorterie  all’interno delle organizzazioni multilaterali internazionali. In cambio la Cina si è impegnata ad aiutare il paese africano a diversificare in maniera sostenibile le proprie entrate economiche, oggi fortemente dipendenti dal settore minerario e degli idrocarburi. Decine di aziende cinesi possiedono concessioni forestali e oltre 30 operano nella lavorazione del legname, controllando praticamente l’intera catena di approvvigionamento, dall’abbattimento degli alberi alla loro trasformazione in prodotti finiti. Secondo il comunicato congiunto, “le due parti hanno concordato di approfondire la cooperazione nel campo della protezione ambientale e di esplorare attivamente la cooperazione Sud-Sud nell’affrontare il cambiamento climatico. La Cina fornirà al Gabon una serie di aiuti materiali per la cooperazione sud-sud”. Le società cinesi, che operano su oltre 6 milioni di ettari, rappresentano più della metà dell’area commerciale totale delle foreste Gabon, controllando circa il 40% delle concessioni.

Xi e Bongo hanno affrontato varie questioni, economiche ma anche politiche. Secondo la Xinhua, “il Gabon aderisce fermamente alla politica della Cina unica e sostiene importanti concetti proposti dal presidente Xi, tra cui la Belt and Road Initiative, la Global Development Initiative, la Global Security Initiative e la costruzione di una comunità con un futuro condiviso per l’umanità.” La GDI e la GSI – insieme alla più recente Global Civilization Initiative – costituiranno l’asse portante della diplomazia cinese in Africa e nel Sud globale. L’ottimo Moritz Rudolf della Yale Law School ha spiegato su Twitter il significato delle tre nuove sigle cinesi. 

La Cina scommette sui porti africani

Cosco Shipping Ports, l’operatore cinese del porto greco del Pireo e del terminal CSP Abu Dhabi, intende acquistare una partecipazione del 25% in un nuovo terminal container a Sokhna, in Egitto, per migliorare i collegamenti commerciali tra la Cina e l’Africa. la società possiede già azioni in un altro hub di trasporto marittimo in Egitto, il Suez Canal Container Terminal. Da anni il gigante asiatico cerca di consolidare la propria posizione sullo stretto alle porte del Mediterraneo. Sul tema dei porti africani ha indagato Alberto Magnani, che sul Sole 24 Ore parla di una competizione essenzialmente a due: tra Cina ed Emirati Arabi. Una competizione proiettata nel futuro, considerata ancora la scarsa rilevanza delle coste africane per i commerci globali: solo il 6% degli scambi marittimi passano per i porti del continente.

Dopo l’attracco dello scorso anno in Sri Lanka, la Yuan Wang 5, una nave cinese da 25mila tonnellate di dislocamento, il 29 marzo ha raggiunto il porto di Durban, lo scalo principale del Sudafrica e dell’intera regione subsahariana. La Yuan Wang 5 non è una nave qualunque: ufficialmente utilizzata per attività scientifiche, è sospettata (da india e Stati Uniti) di portare avanti operazioni di spionaggio. Come spiega Magnani, “l’approdo della nave, capace di tracciare razzi e satelliti, viene contestata come una nuova prova della vicinanza di Pretoria all’asse politico e militare fra Cina e Russia, confermando un orientamento già emerso nelle ultime decisioni del governo. Solo lo scorso febbraio il Sudafrica ha svolto esercitazioni militari sulle sue coste con imbarcazioni di Pechino e Mosca, oltre a ospitare uno degli svariati tour diplomatici del ministro degli Esteri russo Lavrov.” L’attracco della “nave spia” di Pechino ha scatenato ora il nervosismo dell’opposizione all’African national congress, il partito che esprime il presidente in carica Ramaphosa. 

Decuplicati gli investimenti cinesi nelle infrastrutture energetiche africane

Sinosure, il principale assicuratore cinese, ha recentemente annunciato di stare “riducendo il sostegno all’estero per le centrali elettriche a carbone ad alto consumo energetico e ad alte emissioni”. Contestualmente cresce l’impegno cinese nelle rinnovabili africane. Il Nikkei Asia Review ha recentemente analizzato la progressiva collisione degli investimenti cinesi e americani. Secondo un recente rapporto dell’Atlantic Council, gli investimenti cinesi nelle infrastrutture energetiche dell’Africa subsahariana sono cresciuti di dieci volte nell’ultima decade e nel 2020 hanno toccato i 14,5 miliardi di dollari. Ma gli States non sono da meno: le rinnovabili figurano ampiamente nell’iniziativa Prosper Africa di Donald Trump, a cui lo scorso anno si è aggiunta l’istituzione del U.S.-Africa Energy Forum. E’ uno di quei casi in cui la competizione sino-americana potrebbe avere risvolti positivi per i paesi partner. 

Il risiko sulle miniere africane

Il colosso minerario China Molybdenum (CMOC) ha raggiunto un accordo con la Repubblica Democratica del Congo (RDC) che gli consentirà di riprendere le esportazioni di rame e cobalto dalla Tenke Fungurume miniera, una delle maggiori fonti mondiali di cobalto. CMOC era stata accusata di aver sottostimato le riserve minerarie in cambio delle quali si era impegnata a finanziare nuove infrastrutture. Non sono noti i dettagli dell’intesa, ma l’annuncio lascia presagire una fase distensiva per le relazioni tra Pechino e Kinshasa. Con buona pace degli Stati Uniti. E proprio contro gli Stati Uniti ha lanciato una frecciata il ministro delle Finanze congolese, che commentando il caso CMOC ha ricordato come il gruppo cinese abbia ereditato gli accordi precedentemente stretti dall’americana Freeport, che  ha controllato il sito minerario fino al 2016.

Se le indiscrezioni dovessero essere corrette, il presidente Félix Tshisekedi sarà in Cina il 26 maggio. Non ci sono progressi invece in merito al MoU tra Usa, Zambia e RDC per la creazione di una “supply chain produttiva delle batterie per veicoli elettrici”. Secondo The China Global South Project, il memorandum “verte in una fase di stallo.”

Del risiko sulle miniere africane si è occupato recentemente il Financial Times. Come spiega un minatore della Namibia, le aziende occidentali pagano bene e offrono stabilità a lungo termine, ma i rivali cinesi assumono più velocemente per ottenere le risorse in fretta. “Stanno facendo miniere di piccole dimensioni: prendono 50 ragazzi, estraggono e finiscono il lavoro molto velocemente.”

Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno e i servizi della Commissione von der Leyen, ha annunciato che l’Unione europea si farà promotrice di un “nuovo tipo di partnership” con l’Africa per garantire l’estrazione sostenibile dei minerali critici. Secondo Breton, alcuni leader africani, tra cui Namibia e Repubblica Democratica del Congo, si sarebbero lamentati per il modo in cui la Cina ha condotto finora i progetti estrattivi con licenza di inquinare. 

No, l’Africa non supporta la guerra in Ucraina

Nel marzo 2022, solo 28 dei 54 paesi africani hanno votato a favore della risoluzione Onu contro l’invasione russa dell’Ucraina, pari a poco più del 51% del continente. Da allora molto si è scritto sull’ascendente di Mosca nella regione. La questione tuttavia è più complessa di quanto non sembri. Un rapporto di 176 pagine pubblicato dalla Conferenza di Monaco ha rilevato che l’Africa non è interessata a sostenere un ordine globale guidato da Cina e Russia. Secondo il rapporto, l’atteggiamento dei paesi africani nei confronti di Pechino e Mosca è cambiato a seguito della guerra. Mentre Cina e Russia possono aver raccolto in Africa un certo sostegno in materia di sicurezza ed economia, la maggior parte del continente non vuole un mondo guidato da autocrati. Secondo gli autori del rapporto, l’Africa è insoddisfatta del sistema globale attualmente guidato dall’occidente, ma è anche contraria a una maggiore influenza della Russia e della Cina nel sistema internazionale. Piuttosto le capitali africane supportano gli sforzi con cui Pechino e Mosca vogliono cambiare alcune istituzioni internazionali ritenute obsolete. D’altronde, la Cina non aspira necessariamente a rovesciare l’ordine internazionale. Vuole modellarne in modo selettivo alcuni aspetti per dare maggiore voce ai paesi emergenti. E in questo ha l’endorsement degli amici africani. Per meglio capire come il Sud globale vede la Cina, consiglio la lettura dell’intervista di The China Project a Kishore Mahbubani. L’ex ambasciatore di Singapore presso l’Onu contesta la visione manichea dell’Occidente: “Non è una semplice questione in bianco e nero: la Russia potrebbe aver avuto legittime preoccupazioni per la sicurezza a causa dell’espansione della NATO.”

Il Giappone alla conquista del Sud globale

A un mese dal G7 di Hiroshima, il primo ministro giapponese Fumio Kishida è in partenza per l’Africa. Obiettivo: contrastare l’avanzata incontrastata di Cina e Russia nel cosiddetto Sud globale. Si tratta del primo viaggio di un leader giapponese nel continente a toccare contemporaneamente vari paesi dal 2014: Egitto, Ghana, Kenya e Mozambico. Ma l’interesse di Tokyo per il Sud del mondo non è limitato all’Africa. Entro fine mese, il ministro degli Esteri Yoshimasa Hayashi è atteso in America Latina. Il tutto avviene mentre il gabinetto si appresta ad approvare la revisione della Carta di cooperazione allo sviluppo, che punta a rendere più proattiva la politica di aiuti esteri del Giappone.

Taiwan prova a riacquistare terreno in Africa

Taiwan ha in programma di espandere la propria presenza diplomatica in Africa con la riapertura di un ufficio di rappresentanza in Costa d’Avorio. Non è stata fissata una data per l’operazione, ma pare che un inviato taiwanese sia già nel paese. La Cina ha risposto con veemenza quando Taipei ha aperto un ufficio simile nel Somaliland nel 2020, ma stavolta potrebbe non essere così dati gli ottimi rapporti che Pechino intrattiene da 40 anni con il governo di Yamoussoukro. Nonostante gli sviluppi in Costa d’Avorio, la Repubblica di Cina recentemente ha dovuto fronteggiare qualche problema. A marzo il governo di Eswatini – l’ultimo paese africano a intrattenere rapporti diplomatici con l’isola – ha dovuto smentire le notizie secondo cui avrebbe impegnato alcuni beni pubblici come garanzia nel caso in cui non fosse riuscito a ripagare i prestiti concessi da Taiwan.

A cura di Alessandra Colarizi

Per chi volesse una panoramica d’insieme, il 2 settembre è uscito in libreria “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro” (L’Asino d’Oro, 14,00 euro). Partendo dal racconto dei primi contatti nella storia, il testo cerca di restituire un’immagine a tutto tondo dei rapporti sino-africani, superando la dimensione puramente economica. Mentre la narrazione dei mass media ci bombarda quasi ogni giorno con le statistiche del debito africano e degli investimenti cinesi, “Africa rossa” cerca di riportare al centro della narrazione gli scambi politici e socio-culturali tra i rispettivi popoli.