Xinjiang, Indonesia e Isis

In Uncategorized by Simone

Da giorni si parla di una presenza cinese nelle file dell’Isis, dopo una foto di un combattente apparsa on line. Ora, in Indonesia, la prima conferma ufficiale della partecipazione cinese alle scorribande degli uomini del Califfato. Non sorprende, dato che una delle regioni più grandi del territorio cinese, lo Xinjiang, è a maggioranza musulmana.
Dalla Turchia alla Cambogia, via mare. Poi Thailandia, infine a Kuala Lumpur e da lì in Indonesia. Sarebbe il percorso – dalla Siria – effettuato da quattro cinesi arrestati, e sospettati, di essere parte dello «Stato islamico». Da giorni si parla di una presenza cinese nelle file dell’Isis, dopo una foto di un combattente apparsa on line. Ora, in Indonesia, la prima conferma ufficiale della partecipazione cinese alle scorribande degli uomini del Califfato. Non sorprende, dato che una delle regioni più grandi del territorio cinese, lo Xinjiang, è a maggioranza musulmana.

Da anni Pechino si batte in sede internazionale per il riconoscimento di un «terrorismo internazionale» nella sua regione nord orientale. Snodo importante, confina con parecchi Stati chiave nella zona, è percorsa da rotte commerciali e di risorse di cui la Cina è ghiotta, il Xinjiang è una regione strategicamente fondamentale per la Cina. In quelle zone da tempo è in atto una vera e propria colonizzazione da parte dell’etnia maggioritaria, quella han, che ha finito per rendere minoranza l’etnia uighura, musulmana.

Le antiche tradizioni e la cultura islamica della zona, considerata la culla dell’Islam, hanno incontrato molte difficoltà, dando spazio ad attentati e attacchi contro polizia ed esercito, culminati in una repressione senza precedenti nell’area. I movimenti indipendentisti, pare, sono stati in grado di sferrare attacchi, piuttosto strambi a dire il vero, anche in altre zone del paese, facendo crescere l’allarme sulla presenza di islamisti radicali in Cina.

Poiché gli uighuri sono trattati male in Cina, vengono catalogati quasi sempre come delinquenti o persone di cui ci si debba fidare ben poco, molti di loro faticano a trovare casa e lavoro nelle grandi città centrali e orientali del paese, l’occasione di rivalsa offerta dalla violenza e dalla propaganda dell’Isis sembra oggettivamente rilevante per le popolazioni della «nuova frontiera» cinese.

Gli arresti di ieri in Indonesia, confermano dunque la possibilità che in questa sorta di jihad internazionale in corso in Iraq e Siria, possano esserci anche partecipanti cinesi. Questo non è l’unico tema relativo agli arresti dei quattro cinesi in Indonesia. Ce n’è uno anche più generale: l’eventuale apertura di un fronte asiatico dell’Isis, infatti, finirebbe per impattare su tutt’altro scacchiere geopolitico.

La Cina è sicuramente da sempre in prima linea per una repressione dura degli islamisti radicali e non avrebbe problemi, presumibilmente, ad agire sia sul proprio territorio, sia, indirettamente, su altri. La questione però potrebbe complicare, più in generale, l’assetto dell’area, al centro di tensioni per le zone marittime contese e con una presenza degli Stati Uniti già ampia.

Se dovesse verificarsi, come da dispacci Cia, una presenza dell’Isis nelle area del sud est asiatico, la situazione rischierebbe di divenire una polveriera. Pechino potrebbe, non a torto forse, leggere un eventuale aumento della militarizzazione Usa nell’area come una minaccia alla propria egemonia nel Pacifico. E i rischi di incidenti aumenterebbero ancora di più.

Quindi la domanda da porsi è la seguente: quanto è credibile la diffusione dell’Isis nel sud est asiatico dunque? Se venisse dimostrato che gli uomini arrestati ieri, hanno collegamenti con lo Stato Islamico, sarebbe «un nuovo sviluppo inquietante nel panorama terroristico in Indonesia», ha detto Keith Loveard, capo della Concord Consulting, con sede a Jakarta. «Elementi terroristici sono stati in grado di esistere nella zona a causa di un forte sostegno della comunità per le convinzioni sulla linea dura e la correttezza dei principi della sharia», ha specificato al South China Morning Post.

Chi ci va cauta, al solito, è la Cina. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Hong Lei, ha detto che Pechino sta cercando ulteriori informazioni sul caso. «Abbiamo bisogno di saperne di più», ha detto.

[Scritto per East; foto credits: en.radiovaticana.va]