Un tè con Mo Yan e altri scrittori cinesi: intervista a Marco Del Corona

In Interviste by Simone

Francesca Berneri intervista per China Files Marco Del Corona, corrispondente dalla Cina per il Corriere della Sera dal 2008 al 2012 e autore del libro «Un tè con Mo Yan e altri scrittori cinesi», O Barra O Edizioni. Si parla di letteratura contemporanea cinese, confucianesimo, «sogno cinese» e il ruolo della censura nella produzione letteraria cinese.Il 19 febbraio presso la libreria Verso Libri di Milano, Marco Rossari e Marco Del Corona si sono incontrati per parlare dell’ultima fatica di quest’ultimo, «Un tè con Mo Yan e altri scrittori cinesi», edito da O Barra O Edizioni.

Il tema centrale del libro è il rapporto degli autori contemporanei con la censura e con i loro colleghi occidentali; non per nulla «prendere un tè», in Cina, è spesso sinonimo di interrogatorio, ma anche di chiacchierata su temi non proprio ortodossi.
I protagonisti? Mo Yan naturalmente, ma anche Acheng, Bi Feiyu, Bo Yang, Feng Jicai, Guo Jingming, Han Dong, Han Han, Hong Ying, Liao Yiwu, Su Tong, Yan Lianke, Yang Hongying, Yang Yi, Yu Dan, Yu Hua, Zhang Jie, Zhang Lijia.

Con il corrispondente del Corriere della Sera hanno discusso del significato della letteratura nella Cina contemporanea, della memoria storica e degli eventi passati e recenti più controversi (due su tutti, Piazza Tienanmen e la questione tibetana), della politica del figlio unico, della rilettura del confucianesimo, dell’urbanizzazione, solo per citare alcune conversazioni.

Ecco alcune domande per l’unico italiano tra i partecipanti a questo tè.

Partiamo dalle origini: il ritorno del Confucianesimo è uno dei temi centrali di queste conversazioni. Rispetto alla massima di Jiang Qing «critichiamo Confucio per criticare Lin Biao» (politico dell’era maoista accusato di voler riportare indietro la storia cinese), ora si assiste ad una rilettura del pensiero del filosofo. Maurizio Scarpari nel suo «Ritorno a Confucio» sostiene che si tratti di una sorta di «Gattopardo al contrario»: tutto ai vertici deve restare uguale, affinché nella società tutto cambi. E quindi il recupero delle tradizioni, unito ad un richiamo dei principi socialisti, per rafforzare l’unità e riuscire ad attuare le trasformazioni necessarie a proiettare la Cina nella modernità. Lei cosa ne pensa?

Premetto che non sono un sinologo e che il mio sguardo sulla Cina è parziale: ci ho vissuto solo dal 2008 al 2012 e per quanto ora cerchi di seguirne le vicende, nulla è prezioso come la totale immersione in una realtà. A mio parere quello che sta accadendo in Cina è un adattamento intelligente e strumentale di alcuni aspetti del confucianesimo per rafforzare la legittimità del partito comunista, per accreditarlo come una gemmazione quasi spontanea della tradizione cinese e per trovare un minimo comun denominatore pacificante e armonizzante in una società attraversata da fratture sempre più profonde.

A proposito di trasformazioni, dall’inizio del suo mandato Xi Jinping ha messo al centro del suo programma la realizzazione del «sogno cinese». Come viene vista e interpretata dalla letteratura questo «sogno», soprattutto dalla letteratura se non proprio dissidente, quantomeno non ortodossa?

Credo che sia presto per trarre un bilancio di come il sogno cinese, o la sua negazione, sia trattato dagli autori cinesi. Un libro come «La Cina in dieci parole» di Yu Hua, che precede l’avvento di Xi al potere, ha già una sorta di risposta preventiva: scetticismo, disillusione, sarcasmo addirittura. In un’intervista, che riporto nel mio libro, Yan Lianke invece dice chiaro e tondo che «il sogno cinese non esiste».

Sempre a proposito di trasformazioni, in Cina un peso significativo lo stanno avendo i nuovi media. Durante la presentazione del libro, ha descritto il blogger Han Han come piuttosto supponente e altezzoso. È effettivamente percepito come una star nella società cinese? E in tal caso, quali sono il ruolo e l’importanza di Internet nella produzione letteraria?

Più che essere altezzoso, Han Han si è sottratto all’incontro e al confronto. Cinque-sei anni fa era effettivamente una star, una figura di primo piano, influentissima. Oggi credo che il suo ruolo si sia ridimensionato, ma quanto meno è stato una sorte di pioniere.

Molti degli scrittori che ha intervistato fanno parte dell’Associazione Scrittori Cinesi. Ciò significa che sono effettivamente dipendenti statali. Quanto influisce questa cosa sulle loro opere?

Dall’idea che mi sono fatto, non molto: Mo Yan, che è vicepresidente, scrive romanzi che non fanno sconti al potere. Idem Yan Lianke e Yu Hua. Questo non vuol dire che si schierino frontalmente contro il sistema del quale fanno parte. Sono scrittori di valore, persone intelligenti ed esercitano il loro senso critico.

A Suo avviso come riesce Mo Yan a coniugare la presidenza dell’Associazione Scrittori, con relativi apprezzamenti da parte del Pcc, con tematiche spesso controverse (una su tutte, la politica del figlio unico trattata in «Le rane»)?

La vita è una cosa, la letteratura è un’altra. Forse si può aggiungere che la lealtà e la cautela del Mo Yan personaggio pubblico sono la garanzia perché il Mo Yan scrittore possa scrivere in libertà (o relativa libertà).

In cosa secondo lei gli scrittori cinesi si sentono particolarmente distanti dai colleghi sull’altra sponda del Pacifico? Cosa invece li accomuna?

Credo che non si possa dare una risposta che vale per tutti. Piuttosto si potrebbero dividere gli scrittori cinesi in due grossi gruppi: chi ha consapevolezza della letteratura non cinese, e magari pensa anche ai letti non cinesi, e chi è invece esclusivamente orientato al mercato nazionale.

Quanto gli scrittori trapiantati in Occidente si sentono cinesi? E quanto i loro conterranei li considerano tali?

Ma Jian – che vive in Gran Bretagna e scrive in cinese testi che la moglie gli traduce in inglese – affronta temi cinesi, come il controllo delle nascite de «La via oscura» ma non ha alcun impatto sulla Cina, cosa che invece un libro sullo stesso tema come «Le rane» di Mo Yan può avere. Gao Xingjian, francese dal 1987 e Nobel nel 2000 per i suoi libri scritti in cinese, in Cina non è considerato un Nobel cinese, ma la sua scrittura mi pare – da lettore, da non specialista – cinesissima. Mo Yan ama ricordare che uno scrittore cinese deve scrivere in cinese e vivere in Cina.

Le autrici stanno aumentando, anche se gli uomini la fanno ancora da padroni nel mercato letterario cinese. Come viene visto l’avvento di scrittrici donne in Cina?

Se una delle autrici più ricche e famose, Yang Hongying, è una scrittrice per ragazzi, anche questo forse dimostra che resiste una sorta di discriminazione di genere. D’altro canto, l’onda di scrittrici «scandalose» di fine anni Novanta-primi Duemila come Zhou Weihui («Shanghai Baby») si è prosciugata perché autrici senza una vera consistenza letteraria. Non ho elementi per dare un giudizio definitivo, ma penso che lo squilibrio numerico a vantaggio degli uomini nel mercato letterario rifletta, magari in modo attenuato, il maschilismo della Cina, al massimo grado esaltato dalla politica (solo due donne su 25 membri del comitato centrale).

Leggi anche l’anteprima di «Un tè con Mo Yan e altri scrittori cinesi», pubblicata su China Files per gentile concessione della casa editrice.

*Francesca Berneri è nata il 23/03/1990; nel 2013 ha svolto attività di ricerca alla Beijing Language and Culture University, nel 2014 si è laureata in Relazioni Internazionali all’Università di Pavia, nel 2015 si è diplomata allo IUSS con una tesi sull’arte contemporanea cinese e, nello stesso anno, ha lavorato per l’internazionalizzazione e l’ufficio stampa con Confindustria.