Tecnologia open source in Cina: software per l’innovazione condivisa

In Dialoghi: Confucio e China Files, Innovazione e Business, Uncategorized by Lucrezia Goldin

Le aziende tech cinesi fanno uso di tecnologia open source sin dai loro albori, ben prima che diventasse pratica mainstream anche tra le controparti occidentali. Oggi la Cina non è solo il secondo più grande fruitore di software open source, ma si sta affermando come leader dell’innovazione grazie anche alla condivisione di preziosi codici sorgente con programmatori e utenti di tutto il mondo. “Dialoghi: Confucio e China Files” è una rubrica curata in collaborazione con l’Istituto Confucio di Milano.

Mostrami i tuoi codici e ti dirò chi sei. Grazie alla pratica di condivisione di software open source ormai comune in tutto il mondo, diverse innovazioni chiave dell’ecosistema digitale odierno hanno potuto svilupparsi in tempi da record. La Cina non è da meno ed è oggi il più grande consumatore di tecnologie open source. Da qualche anno a questa parte però la repubblica Popolare cinese si sta distinguendo come nuovo giocatore nel pool dei creatori di software tecnologici che espongono a utenti e programmatori i loro codici sorgente in nome dell’innovazione condivisa.

Che cos’è la tecnologia software open source?

Si tratta di una modalità di condivisione dell’architettura e dei codici sorgente di determinati software tecnologici, che possono essere utilizzati senza licenza e sul quale utenti e programmatori hanno possibilità di studiare e modificare un dato software per migliorarlo. Condividere in modalità open source nuovi progetti serve dunque a individui e aziende per testare nuovi modelli e garantirne upgrade costanti grazie al contributo di programmatori esperti in tutto il mondo che continuano a perfezionare il sistema. Nell’ecosistema digitale occidentale l’esempio più celebre di software open source è il sistema operativo Linux.

I colossi del tecnologico cinese impiegano sistemi open source già da tempo, e hanno beneficiato della dinamicità e della trasparenza di varie tecnologie nel costruire i loro imperi. La piattaforma di e-commerce JD.com, per esempio, utilizza Kubernetes dal 2016 mentre il colosso del ride hailing, DidiChuxing, ha sempre dichiarato che la modalità open source è alla base delle proprie ambizioni tecnologiche. La comunità open source in Cina è attiva dai primi anni 2000 e attualmente la Rpc è seconda per numero di developers che popolano gli ecosistemi open source a livello locale e internazionale. La prima fondazione open source di matrice cinese è invece OpenAtom Foundation, che a due anni dalla sua fondazione oggi raccoglie i sistemi condivisi da aziende quali Xiaomi, Huawei e Baidu.

Open source di stato: la tecnologia al servizio dell’industria domestica

Negli ultimi anni il panorama dell’open source ha attirato l’attenzione del governo cinese, tanto da diventare parte integrante dello sviluppo tecnologico secondo quanto previsto dal 14esimo piano quinquennale, che vede nell’industria tecnologica uno dei settori chiave per lo sviluppo dell’economia del paese. In un recente documento del MIIT (Ministry of Industry and Information Technology), l’ente regolatore dell’industria digitale in Cina, il termine open source compare ben 27 volte e denota l’importanza che questa modalità di innovazione tecnologica avrà nel futuro della Rpc. Il sempre più stringente arsenale normativo a controllo dell’economia digitale, inoltre, sembra tracciare la strada verso una progressiva condivisione di codici, dati e risorse digitali create dalle big tech con gli enti statali. Anche gli investimenti statali a piccole e medie imprese tecnologiche sembrano suggerire che l’ambizione del Partito Comunista Cinese in ambito di open source sia quella di assoggettare alla supervisione statale questa modalità di sviluppo informatico, così da poter sempre monitorare il corretto sviluppo di software locali.

Nei piani del Pcc così come descritti nel 14esimo piano quinquennale, la creazione di almeno 3 istituti simili a OpenAtom entro il 2025. Ad attirare maggiormente il governo è da una parte la velocità di sviluppo di alcune tecnologie chiave grazie alla condivisione dei codici sorgente, dall’altra,  l’“influenza globale” che questi data set di software condivisi possono comportare. Parte del progetto di rinnovo tecnologico cinese ha come obiettivo il rafforzamento delle infrastrutture tecnologiche del paese e riuscire a creare software open source che verranno potenzialmente utilizzati in tutto il mondo è un’operazione sicuramente allettante. I progetti open source “Made in China” che la Cina vuole promuovere dovranno infatti essere sia campioni nazionali che sistemi influenti a livello globale.

Tecnologia open source in Cina: i campioni nazionali

Tra i progetti di tecnologia open source indipendenti da tenere d’occhio secondo un’analisi di Kevin Xu ci sono TiDB/ TiKV (progetto di database), OpenRestry (API gateway) e OceanBase (sempre database). I più appetibili invece sono la progenie dei colossi del tecnologico cinese e sono quelli che potrebbero fare presa anche su un pubblico internazionale. Eccone alcuni.

  1. Apollo, di Baidu (automotive)

    Lanciato nel 2017, è un progetto open source per un sistema operativo da impiegare nella guida automatizzata. Al suo sviluppo hanno partecipato anche colossi internazionali dell’automotive come Bmw. Fa concorrenza al sistema sviluppato da Tesla (i cui codici sorgente sono invece esclusivi) e conta di diventare il programma di punta per i veicoli a guida automatizzata in Cina e nel mondo grazie alle grandi risorse in campo di intelligenza artificiale condivise da Baidu. Sarà il software di base per i robotaxi automatizzati Apollo Go, già testati per le vie di Pechino in occasione delle Olimpiadi invernali lo scorso febbraio. Apollo Go sarà lanciato entro il 2025 in 65 città cinesi. Il progetto open source di Apollo è disponibile in lingua cinese e inglese, un segnale che il sistema è disponibile anche per i programmatori non cinesi

  2. OpenHarmony, di Huawei (sistema operativo)

    Il sistema operativo di Huawei è in parte figlio della guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti cominciata con l’amministrazione Trump. Per ridurre la dipendenza dai sistemi di Android e ovviare alle sanzioni, il colosso tech delle telco cinese dal 2019 ha spinto sull’acceleratore per portare avanti il suo progetto OpenHarmony, riscontrando risultati impressionanti in un lasso limitato di tempo proprio grazie alla condivisione dei codici sorgente del software. OpenHarmony è uno dei progetti chiave della OpenAtom Foundation ma non ha ancora guadagnato il favore dei programmatori stranieri e si è sviluppato principalmente grazie agli sforzi di developers locali, supportati dagli investimenti di Huawei. L’azienda di Shenzhen rimane uno dei campioni nazionali dell’industria tecnologica cinese, e anche il MIIT nel piano di sviluppo per i prossimi tre anni ha riconosciuto l’importanza di sviluppare un proprio sistema operativo interno che riduca la dipendenza da software statunitensi.

  3. OpenXuan Tie, di Alibaba (design dei semiconduttori a RISC-V)

    Lo spirito imprenditoriale del colosso fondato dal tech mogul Jack Ma volge lo sguardo alla risorsa più ambita dall’industria tecnologica cinese: i semiconduttori. Nell’ottica di diversificare prodotti e in risposta alla stretta del settore ad opera di Pechino che vuole reindirizzare i suoi campioni nazionali nella produzione di tecnologie chiave per lo sviluppo dell’industria domestica, Alibaba ha lanciato la comunità open source OpenXuantie. L’obiettivo: migliorare architettura e design dei semiconduttori e rendere la Cina più competitiva. Condividendo i codici sorgente del programma Alibaba punta a sviluppare una nuova generazione di architettura di chip creati con processori a base RISC-V, un tipo di design che a differenza di molti altri Instruction Set Architecture (Isa) è reso pubblico con licenza open source. Attualmente Alibaba possiede il più veloce processore di questo tipo, ma la strada per l’autosufficienza tecnologica nella sempre più complessa filiera dei semiconduttori è ancora lunga.

A cura di Lucrezia Goldin