Stranieri, o meglio detenuti

In Economia, Politica e Società, Sociale e Ambiente by Lorenzo Lamperti

Il Giappone è in continuo calo demografico e ha bisogno di attrarre cittadini stranieri. Ma le regole per gli irregolari (compresi coloro a cui è scaduto il visto) sono durissime. E nei centri di detenzione dedicati non sono rare le tragedie. Tratto dal nuovo ebook di China Files: “Demografia asiatica”

Gennaio 2021. Wishma Sandamali non sta bene. Ha nausea, paralisi alle mani e alle gambe, appare sangue nel vomito. Per settimane chiede di poter uscire dal centro di detenzione di Nagoya e andare in ospedale per delle visite. A inizio febbraio non riesce più a camminare da sola. Le vengono fatti fare degli esami all’esofago e le viene fatto incontrare uno psichiatra. Il 26 febbraio cade dal letto. Rimane lì a terra per 3 ore, prima di essere aiutata dagli impiegati del centro. Il 4 marzo non riesce più a muoversi. Il giorno dopo lo sfigmomanometro dà errore, non le si riesce a misurare la pressione. Non viene chiamata un’ambulanza. Il 6 marzo smette di respirare. Così è morta a 33 anni Wishma, cittadina dello Sri Lanka, all’interno di uno dei 17 centri per stranieri irregolari gestito dalla Immigration Service Agency of Japan. Era arrivata in Giappone nel giugno del 2017 per studiare la lingua. Incappata in una relazione sfortunata con un connazionale, aveva finito tutti i soldi e non era riuscita a proseguire gli studi. Di conseguenza il visto le era scaduto. Ad agosto 2020 è andata alla polizia per chiedere aiuto, ma si è ritrovata nel centro di Nagoya. 

“Negli ultimi 15 anni sono morti 18 stranieri nei centri gestiti dalla Immigration Service Agency of Japan”, racconta a China Files Asayo Takazawa, giapponese interprete-traduttrice dall’italiano e volontaria per un’associazione che fornisce sostegno a rifugiati e lavoratori stranieri in Giappone. In 6 casi si è trattato di suicidi. “Conosco bene queste realtà, perché con la nostra associazione andiamo frequentemente in questi centri di detenzione per aiutare gli stranieri presenti. E posso dire che spesso queste persone non vengono trattate come esseri umani. In alcuni centri il medico passa solo qualche giorno alla settimana, ma la cosa più grave è la scarsa umanità nei confronti degli ospiti”. Finire dentro uno di questi centri significa sostanzialmente dire addio al sogno di poter vivere regolarmente in Giappone. “Se qualcuno viene trovato con documenti irregolari o visto scaduto, a prescindere dalla motivazione e dalla condizione personale e familiare, finisce in uno di questi centri senza intervento dei magistrati e senza limite di tempo. Pur avendo vissuto in Giappone per lungo tempo, se per qualche motivo si perde o scade il permesso di soggiorno si finisce in questi centri in attesa di venire rimpatriati nel proprio paese. Compresi i bambini nati e cresciuti in Giappone, se i loro genitori hanno documenti non validi o scaduti”, racconta Takazawa. “Finché restano qui sono senza servizi di assistenza pubblica e assicurazione medica, per questo noi volontari cerchiamo di aiutarli nel miglior modo possibile”.

Le leggi sull’immigrazione in Giappone sono particolarmente severe. Appare un paradosso, visto che il paese avrebbe grande bisogno di un maggiore afflusso di cittadini stranieri per provare a contenere il costante declino della popolazione. Un richiamo che è stato fatto a più riprese dal governo negli ultimi anni, ma su cui complice la pandemia di Covid-19 è stato sinora fatto ben poco. 

In uno dei centri di detenzione per irregolari, a Tokyo, è morto lo scorso ottobre anche un cittadino italiano, Gianluca Stafisso. L’uomo, 56 anni, viveva in Giappone da diverso tempo ma era finito in grande difficoltà dopo la fine del matrimonio con una cittadina giapponese. Si era ritrovato a vivere per strada e aveva documentato più volte con dei video le sue condizioni disagiate. Fino a che non è finito nel centro. Qui, secondo le autorità, si sarebbe suicidato utilizzando un cavo televisivo. La morte sarebbe stata causata da una scarica elettrica. 

“La situazione psicologica all’interno dei centri è difficile”, sostiene Takazawa. “I detenuti non hanno diritti, gli viene tolto anche il cellulare. Possono contattare l’esterno tramite un telefono fisso pubblico. Quasi diecimila persone ogni anno vengono rimpatriate, molte finiscono in questi centri. Oltre il 90% di loro viene rimpatriato in tempi brevi, ma i restanti non possono o non vogliono lasciare il Giappone perché magari hanno qui la loro famiglia. Oppure vorrebbero lo status di rifugiati, che viene concesso dalle autorità in percentuali bassissime”.  Di recente, la commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani si è detta preoccupata per le “allarmanti segnalazioni di sofferenze dovute alle cattive condizioni di salute” nelle strutture di detenzione per immigrati in Giappone. Il rapporto esorta il governo giapponese a prendere provvedimenti per migliorare le condizioni delle strutture e garantire ai detenuti l’accesso a cure mediche adeguate. “Molti stranieri immaginano che il Giappone sia un paese bello, accogliente e pienamente rispettoso dei diritti umani. In larga parte è vero, ma le leggi sull’immigrazione non combaciano per niente con questa idea. Io non posso accettare questa crudeltà da parte dell’amministrazione del mio paese. La situazione deve cambiare”.

Di Lorenzo Lamperti