Sicurezza, Via della Seta e retorica: le 3 dimensioni dell’interesse cinese su Kabul

In Asia Meridionale, Cina, Relazioni Internazionali by Lorenzo Lamperti

Un’opportunità che rischia di tramutarsi in un problema. O un problema che potrebbe rivelarsi un’opportunità. La caduta di Kabul e la presa di potere da parte dei Talebani può rappresentare un rompicapo per la Cina.

«Rispetteremo i desideri e le scelte del popolo afghano», ha dichiarato Hua Chunying, la portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, che come la Russia ha tenuto aperta e pienamente operativa l’ambasciata in Afghanistan.

Come sempre, la priorità per la Cina è la stabilità interna dei paesi nei quali ha degli interessi, che in questo caso hanno una triplice dimensione: securitaria, economica e retorica. Sul primo punto la preoccupazione di Pechino è legata al corridoio del Wakhan, una sottile lingua di terra collegata allo Xinjiang che forma un confine di circa 70 chilometri tra Afghanistan e Cina.

Negli scorsi anni, la presenza statunitense aveva garantito impermeabilità a quel confine, lungo il quale Pechino teme possa riorganizzarsi l’insorgenza uigura.

Non è un caso che le comunicazioni tra governo cinese e Talebani si siano intensificate nelle ultime settimane dopo che i miliziani hanno preso il controllo del corridoio. Una delegazione guidata da Abdul Ghani Baradar ha incontrato il ministro degli Esteri Wang Yi lo scorso 28 luglio a Tianjin.

Alla Cina serve la garanzia che il corridoio del Wakhan non venga utilizzato da gruppi armati uiguri come base logistica. In cambio, Pechino è pronta a sostenere la ricostruzione dell’Afghanistan con investimenti e lo sviluppo dei progetti legati alla Belt and Road, che tra le altre cose includono una grande miniera di rame di Mes Aynak, colpita in passato da attacchi talebani.

Gli studenti coranici ora sembrano però cercare riconoscimento internazionale e la Cina spera di coinvolgerli, magari con l’aiuto del Pakistan, nel corridoio economico che unisce Pechino e Islamabad. Ma non esistono garanzie e il governo cinese adotta per ora un atteggiamento cauto.

«La Cina è in una posizione favorevole e non ha intenzione di riempire il vuoto che gli Stati uniti hanno lasciato in Afghanistan», ha scritto il tabloid Global Times. Dunque sì a «relazioni amichevoli» con i nuovi kingmakers ma niente compromissioni «sul campo».

D’altronde, Pechino ha sempre tenuto aperto un doppio binario, come peraltro già accaduto in Myanmar. Lo dimostra la telefonata del 16 luglio tra il presidente Xi Jinping e l’allora omologo afgano Ashraf Ghani.

La caduta di Kabul e il ritiro degli Stati uniti offrono poi una grande occasione retorica alla Cina. I media di Stato sottolineano con enfasi il fallimento del progetto di esportazione della democrazia made in Usa e parlano di un Joe Biden «umiliato», ricordando le sue rassicurazioni sulla tenuta delle forze militari regolari.

Pechino sfrutta la situazione per lanciare un messaggio anche a Taiwan: se gli americani hanno abbandonato al loro destino gli alleati afgani, così come avevano fatto a suo tempo in Vietnam, non esiteranno a fare lo stesso con Taipei.

A Taiwan «dovrebbero rendersi conto che una volta scoppiata una guerra nello Stretto, la difesa dell’isola crollerà in poche ore e l’esercito americano non verrà in aiuto», si legge in un editoriale del Global Times.

In questo modo si prova a convincere i taiwanesi che la strategia di avvicinamento a Washington portata avanti dalla presidente Tsai Ing-wen rischi di tramutarsi in un suicidio. La stessa posizione espressa da diversi commentatori sui media conservatori statunitensi e veicolata internamente a Taiwan dall’opposizione del Guomindang.

Chao Shao-kang, membro del partito fondato da Sun Yat-sen, sostiene che la strategia statunitense su Taiwan sia la stessa di quella sull’Afghanistan: addestrare l’esercito locale e poi andarsene. In realtà, il disimpegno americano da Kabul e in generale dal Medio Oriente celava anche l’obiettivo di un maggiore coinvolgimento in Asia e Pacifico, vicino al rivale cinese. Quel rivale che cerca ora di capire se da Kabul arriveranno più problemi o più opportunità.

Di Lorenzo Lamperti

[Pubblicato su Il Manifesto]