Religioni in Cina, più tolleranza dal governo

In Uncategorized by Gabriele Battaglia

A giugno di quest’anno Xi Jinping aveva sostenuto la necessità di costruire una civiltà "materiale e spirituale". Oggi si vedono i primi effetti di quelle parole. Pare che il governo di Pechino sia intenzionato a essere più tollerante verso le religioni tradizionali. Anche perché potrebbero servire a combattere i corrotti. Per colmare il vuoto di valori della corsa verso l’arricchimento anche le religioni possono essere utili alla dirigenza cinese, impegnata in una rinnovata lotta contro la corruzione. Il presidente Xi Jinping, rivelano fonti della Reuters, è intenzionato a essere più tollerante verso le pratiche tradizionali del confucianesimo, del buddhismo e del taoismo. 

La tutela delle religioni d’altronde è garantita dalla Costituzione della Repubblica popolare, accanto al professato ateismo del Partito comunista e al divieto di proselitismo. Secondo le statistiche ufficiali, i praticanti buddhisti e taoisti sono 50 milioni, sebbene ricerche indipendenti facciano oscillare il numero tra i 100 e i 300 milioni; i protestanti sono 23 milioni, i cattolici, almeno quelli legati alla cosiddetta chiesa patriottica, sono quasi 6 milioni che diventano 12 se si tiene conto dei membri della chiesa sotterranea fedeli al papa; i musulmani infine sono 21 milioni.

Verso i gruppi religiosi si alternano aperture e repressione. Le prime quando possono risultare utili agli obiettivi della dirigenza. Le seconde quando mettono in discussione il potere del partito e sono considerate una minaccia alla stabilità, come fu alla fine degli anni Novanta del secolo scorso con il Falun Gong, culto con migliaia di aderenti che arrivarono a protestare sin davanti ai palazzi di Zhongnanhai, equivalente cinese del Cremlino.

Se non mettono a rischio il ruolo di chi comanda, le religioni possono però essere d’aiuto a garantire l’armonia. Secondo i dati della Corte suprema presentati durante l’annuale sessione plenaria dell’Assemblea nazionale del popolo, il parlamento della Rpc, dal 2008 al 2012, sono stati circa 143mila i funzionari governativi giudicati colpevoli di corruzione o per essere venuti meno ai propri doveri. La media è di circa 78 al giorno. Numeri mettono la dirigenza davanti al paragone con primi anni della Cina comunista, quelli del fervore e della moralità rivoluzionaria, in cui il tasso di criminalità e corruzione faceva registrare percentuali basse, sebbene non si sappia quanto accurate.

Colpire la corruzione all’interno del Pcc e tra le file dei funzionari governativi è uno degli obiettivi del presidente Xi Jinping e della dirigenza insediatasi lo scorso novembre. A detta di molti analisti, la politica di apertura verso confucianesimo, buddhismo e taoismo va letta assieme alla lotta contro i corrotti come un modo per allontanare dalla dirigenza l’insoddisfazione per gli espropri terrieri, il malaffare, le difficoltà della vita quotidiana.

Già negli anni passati il richiamo alla tradizione è stato uno degli strumenti del soft power cinese. A Confucio, cui nel 2010 fu dedicato un epico colossal cinematografico con protagonista la star Chow Yun-fat, è intitolata la rete di istituti finanziati dal governo di Pechino per diffondere la cultura e la lingua cinese nel mondo. E nel 2011, una statua del maestro fu posizionata, sebbene per poco tempo, davanti al museo nazionale su piazza Tian’anmen, quasi di fronte al ritratto di Mao Zedong, che capeggia sulla Città Proibita. Negli anni scorsi un’operazione simile fu tentata anche con il taoismo.

Esponenti musulmani e buddhisti siedono invece tra i banchi della Conferenza politico consultiva del popolo, sorta di camera bassa “della società civile” cinese, con il compito di rappresentare le istanze, e l’interesse del governo, per alcune aree problematiche per il centro come il Tibet, dove dal 2009 le autoimmolazioni di protesta contro Pechino hanno superato quota 120, e lo Xinjiang abitato dalla minoranza uigura, islamica e turcofona.

“Coltivare le religioni deve diventare un tema di senso comune”, scriveva lo scorso giugno Zhang Lebin, vice direttore dell’ufficio per gli Affari religiosi, sulle colonne del Quotidiano del popolo, voce ufficiale del Pcc, aggiungendo che “il diritto a professare la religione deve essere protetto”. Trascorso un mese fu lo stesso Xi Jinping a parlare della necessità di costruire una civiltà “materiale e spirituale”.

[Scritto per Lettera43; foto credits: scmp.com]