Pakistan – Toba Tek Singh

In Uncategorized by Simone

La Partizione del 1947 non risparmia nemmeno i malati mentali. L’assurdità della guerra immaginata da Manto in Toba Tek Singh, il suo capolavoro. China Files ve lo propone per gentile concessione di Fuorilinea, casa editrice del volume dedicato a Manto, Il prezzo della libertà ed altri racconti
Poco tempo dopo la divisione del Paese, ai governi dell’India e del Pakistan venne in mente di scambiarsi i matti, come già era avvenuto in precedenza con i criminali incalliti. I matti musulmani rinchiusi nei manicomi in India dovevano essere trasferiti in Pakistan, mentre quelli indù e sikh che si trovavano nei manicomi pakistani dovevano essere rispediti in India.

Se questa sia stata un’idea assennata non lo potremo mai sapere. Una cosa, però, rimane inconfutabile: furono necessarie molte trattative fra alti funzionari delle due parti prima di arrivare a questa decisione.
Gli ultimi dettagli, come la data dello scambio vero e proprio, furono attentamente studiati.

I matti musulmani le cui famiglie ancora risiedevano in India furono lasciati in pace, gli altri furono scortati alla frontiera e scambiati. La situazione in Pakistan era un po’ differente, dato che quasi tutta la popolazione indù e sikh se n’era già andata in India. Pertanto, non venne sollevata la questione se trattenere o meno in Pakistan i matti di fede musulmana.

Non si conoscono le reazioni che aveva suscitato questa decisione in India, ma si racconta che quando la notizia dello scambio era filtrata nel manicomio di Lahore, era diventata argomento di un’animata discussione. Quando a un matto musulmano, vorace lettore del truculento quotidiano «Zamindar», fu chiesto cosa diavolo fosse il Pakistan, questi rispose dopo attenta riflessione: «È il nome di quel posto in India dove fanno i coltellacci per tagliare le gole».
Un’acuta osservazione, accolta da tutti con grande soddisfazione.

Un matto sikh chiese a un altro sikh: «Sardarji**, perché ci mandano in India? Non conosciamo nemmeno la lingua che si parla in quel paese».
L’uomo sorrise: «Io conosco la lingua degli Hindostaras»***, disse, dando prova della sua abilità linguistica recitando una filastrocca:

«Gl’indiani son diavoli,
e sulla terra si muovon
come galli ringalluzziti».

Un giorno un matto musulmano, mentre si lavava, gridò lo slogan “Pakistan Zindabad!”**** con un tale entusiasmo che perse l’equilibrio e cadde per terra, dove in seguito lo ritrovarono svenuto.

Non tutti gli internati erano pazzi. Alcuni erano perfettamente normali, tranne per il fatto che erano assassini. Per evitare la forca, le loro famiglie erano riuscite a far commutare la pena dopo aver corrotto i funzionari lungo tutta la scala gerarchica. Questi probabilmente avevano una vaga idea del perché l’India veniva divisa, e di cosa fosse il Pakistan, ma per il momento brancolavano nell’incertezza.

I giornali non erano di aiuto e i secondini del manicomio erano talmente ignoranti che a malapena riuscivano a farsi capire quando aprivano bocca. Tutto ciò che si riusciva a capire era che un uomo, un certo Mohamed Ali Jinnah, conosciuto anche come il Quaid-e-Azam, aveva fondato un paese a parte per i musulmani chiamato Pakistan.

Nessuno aveva idea di dove però si trovasse questo Pakistan, o di quanto fosse grande. Di conseguenza gli internati non completamente pazzi si erano trovati a dover affrontare un dilemma ancora più complicato di quello che dovevano affrontare i compagni completamente pazzi.

Non c’era verso per i primi infatti di capire dove stavano, se in India o in Pakistan. Se stavano in India, dove diavolo stava il Pakistan? E se stavano in Pakistan, allora come mai solo fino a ieri chiamavano quello stesso posto India?

Un poveraccio musulmano si era fatto talmente ingarbugliare da questa tiritera India-Pakistan-Pakistan-India che era diventato ancora più matto. Un giorno, mentre puliva per terra, fu colto da un raptus di follia. Scaraventò la scopa per terra e s’arrampicò su un albero. Per ben due ore continuò a blaterare del problema India-Pakistan. I secondini lo esortavano a scendere ma lui saliva ancora più in alto, e quando lo minacciarono lui disse di non voler vivere né in India né in Pakistan. «Voglio vivere su quest’albero», esclamò.
Passato il folle impulso, i secondini lo convinsero a scendere. Appena sceso, abbracciò i suoi compagni sikh e indù piangendo lacrime disperate. Era angosciato al pensiero che presto se ne sarebbero tutti andati in India.

Un altro internato musulmano aveva una laurea in scienze e si sentiva una spanna sopra agli altri. Trascorreva le sue giornate facendo lunghe passeggiate nella parte più isolata dei giardini del manicomio. A un tratto qualcosa scattò in lui. Si strappò tutti i vestiti di dosso e li consegnò al capo reparto. Dopo di che riprese le sue deambulazioni senza uno straccio addosso.

E poi c’era un altro matto, un musulmano grasso che era stato il capo della Lega islamica di Chaniot. Era ossessionato dal fatto di doversi lavare quindici o sedici volte al giorno. Ma poi senza motivo apparente smise di lavarsi.
Questo musulmano grasso si chiamava Mohammed Ali, e un bel giorno annunciò di essere in realtà Mohamed Ali Jinnah. Per non essere da meno il suo compagno di cella, un sikh, sostenne invece di essere il Venerabile Tara Singh, il leader dei sikh. I due cominciarono a insultarsi: furono dichiarati “pericolosi” e vennero rinchiusi in celle separate.

C’era un giovane avvocato indù di Lahore. Si diceva che avesse perso il senno a causa di una storia d’amore finita male. Quando era venuto a sapere che la città di Amritsar sarebbe passata all’India, era sprofondato in uno stato di depressione: la sua amata abitava lì. Anche se la ragazza aveva rifiutato il suo amore, l’avvocatino non era riuscito a dimenticarla, neanche nella pazzia. Da quel giorno se la prese con tutti i leader, grandi e piccoli, indù e musulmani, che avevano spezzato l’India in due, trasformando la sua amata in indiana e lui in pakistano.

Quando era trapelata la notizia dello scambio, i suoi amici avevano cercato di consolarlo, dicendogli che presto se ne sarebbe andato in India, il paese della sua fidanzatina. Ma l’avvocato era inconsolabile. Affermava di non avere alcuna intenzione di lasciare Lahore perché era convinto che non avrebbe mai potuto aprire uno studio legale ad Amritsar.

Nel reparto riservato agli europei c’erano due matti angloindiani. Quando furono informati che gli inglesi se ne tornavano a casa dopo aver concesso l’indipendenza all’India, entrarono in uno stato di estrema agitazione. Si incontrarono in gran segreto per deliberare il loro status nel futuro assetto del manicomio: sarebbe rimasto operativo un reparto per europei oppure sarebbe stato soppresso? Si sarebbe continuato a servire la colazione inglese o sarebbero stati costretti a mangiare quei fottutissimi chapati indiani?

E poi c’era un sikh che era lì dentro da oltre quindici anni. In tutto questo tempo non aveva aperto bocca se non per dire questa frase: «Sopra la cas cas l’annesso la baia baiana biascicare le lenticchie della lantana».

Il sikh non dormiva mai, né di notte né di giorno. I secondini dicevano che non aveva chiuso occhio da quindici anni a questa parte. Qualche volta lo si poteva vedere appoggiato a un muro, ma per il resto stava sempre in piedi. Per questa ragione le sue gambe erano cronicamente gonfie, cosa che però non sembrava affatto dargli fastidio.

Quando si parlava dell’India, del Pakistan, o dello scambio dei matti, il sikh si destava e cominciava a prestare attenzione. Se qualcuno chiedeva il suo parere, lui rispondeva solennemente: «Sopra la cas cas l’annesso la baia baiana biascicare le lenticchie del governo di Pakistan». Da qualche tempo però aveva modificato la parte finale della sua litania da “il governo di Pakistan” a “il governo di Toba Tek Singh”.

Aveva cominciato a chiedere agli altri se il villaggio di Toba Tek Singh era in India o in Pakistan. Nessuno sapeva rispondergli. Quelli che si prendevano la briga di dargli una qualche spiegazione si smarrivano del tutto quando tentavano di spiegare che la città di Sialkot – che prima stava in India – adesso stava in Pakistan.

D’ora in poi, infatti, chi avrebbe potuto asserire con certezza che anche Lahore non avrebbe subìto la stessa sorte, e che da città pakistana qual era oggi non sarebbe diventata città indiana domani? Anzi, come si sarebbe potuto essere certi che tutta l’India non sarebbe entrata a far parte del Pakistan? Ma adesso, detto questo, chi avrebbe potuto mettere la mano sul cuore e dire con convinzione che non esistesse il pericolo della scomparsa di entrambi i paesi dalla faccia della terra?

Il sikh aveva ormai perso quasi tutti i suoi capelli e, dato che si lavava molto di rado, quelli che gli erano rimasti si erano attorcigliati alla barba formando un groviglio che gli conferiva un aspetto feroce. Ma era innocuo. Nei quindici anni che era stato nel manicomio non lo si era mai visto litigare con nessuno. Tutto quello che si sapeva di lui era che possedeva delle terre nel villaggio di Toba Tek Singh e che era stato un agricoltore benestante. Quando aveva perso il senno, i suoi parenti lo avevano portato legato e imbavagliato nel manicomio. Una volta al mese qualcuno della sua famiglia veniva a Lahore per sapere come stava. Ma dopo l’inizio dei disordini nel Punjab nessuno era più venuto.

Il suo vero nome era Bishan Singh ma tutti lo chiamavano Toba Tek Singh. Bishan Singh aveva perduto il concetto del tempo: dei giorni, delle settimane e dei mesi. Non aveva idea da quanto tempo fosse rinchiuso nel manicomio. Ma quando i suoi parenti o i suoi amici venivano a visitarlo sapeva che un mese era passato. Allora diceva al capo reparto che la “Signorina Visita” sarebbe venuta a trovarlo. Si faceva un bagno, si insaponava, pettinava e oliava i suoi capelli e indossava abiti puliti, il tutto con grande cura. Non diceva una parola durante quelle visite, tranne per gli occasionali slanci di «Sopra la cas cas l’annesso la baia baiana biascicare le lenticchie della lantana».

Bishan Singh aveva una figlia che era ormai una bella ragazza di quindici anni. Ma non era più in grado di riconoscerla e la ragazza piangeva ogni volta che vedeva il padre.

Da quando si era iniziato a parlare di Pakistan e India, Bishan Singh aveva preso l’abitudine di chiedere agli altri matti dove si trovasse esattamente Toba Tek Singh senza mai avere una risposta soddisfacente. La sua irritazione cresceva di giorno in giorno. E adesso nemmeno la “Signorina Visita” veniva più a trovarlo. Una volta qualcosa gli diceva che i suoi parenti sarebbero presto venuti. Ma ora anche quella voce interiore si era spenta. Diventava sempre più irrequieto; era ansioso di incontrare i suoi parenti per sapere se Toba Tek Singh si trovasse in India o in Pakistan. Ma non era più venuto nessuno e Bishan Singh dovette rivolgersi altrove per avere informazioni.

Uno degli internati diceva di essere Dio. Bishan Singh un giorno gli chiese dove si trovasse Toba Tek Singh, se in India o in Pakistan. Come suo solito, “Dio” assunse un’espressione solenne e disse: «Non è né in India né in Pakistan, perché finora noi non abbiamo dato disposizioni in merito».

Bishan Singh ebbe la stessa risposta molte altre volte. Pregò “Dio” di dare le necessarie disposizioni affinché il suo problema potesse risolversi. Ma le sue suppliche caddero nel vuoto; “Dio” era occupato da molte faccende pressanti che aspettavano le “Sue” disposizioni. Alla fine la pazienza di Bishan Singh si esaurì e fece sapere a “Dio” come la pensava: «Sopra la cas cas l’annesso biascicare le lenticchie del Signor Maestro da nostro del Signor Maestro da vostro… Sì, parlo, ma non salve».

Con questo voleva mettere “Dio” al suo posto, voleva, cioè, insinuare che “Dio” era in realtà il “Dio” solo dei musulmani perché se fosse stato il “Dio” dei sikh avrebbe sicuramente ascoltato le preghiere di un sikh!

Qualche giorno prima del previsto scambio, uno dei suoi amici musulmani di Toba Tek Singh venne a trovarlo: era la prima volta in quindici anni. Bishan Singh lo guardò una volta sola e poi gli voltò le spalle finché un secondino gli disse: «Questo è il tuo vecchio amico Fazal Din e ha fatto molta strada per vederti».

Bishan Singh guardò Fazal Din e cominciò a borbottare qualche cosa. Fazal Din mise la mano sulla spalla del suo amico e disse: «È già da molto tempo che volevo venire per portarti notizie. Tutta la tua famiglia sta bene ed è salva in India. Ho fatto tutto il possibile per aiutarli. Tua figlia Roop Kaur… – esitò – anche lei sta bene… in India».

Bishan Singh rimase in silenzio. Fazal Din continuò: «La tua famiglia voleva assicurarsi che tu stessi bene. Presto te ne andrai in India. Che posso dire, tranne chiederti di salutarmi fratello Balbir Singh, fratello Vadhava Singh e sorella Amrit Kaur? Di’ al fratello Bibir Singh che grazie a Dio Fazal Din sta bene. Digli pure che le due bufale marroni che ha lasciato stanno bene anche loro. Entrambe hanno partorito due vitelli, ma, sfortunatamente, uno è morto dopo sei giorni. Di’ loro che li penso spesso e di scrivermi per sapere se c’è qualcosa che posso fare. Guarda, ti ho portato dei dolci da casa».

Bishan Singh prese il dono e lo consegnò a una delle guardie, poi chiese a Fazal Din: «Dov’è Toba Tek Singh?».
Fazal Din sembrò un po’ sorpreso alla domanda e rispose: «Dove? Ma, è lì, dove è sempre stato».
Bishan Singh chiese di nuovo: «In India o in Pakistan?».
«In India… No, in Pakistan», rispose Fazal Din.
Senza dire un’altra parola Bishan Singh si allontanò mormorando: «Sopra la cas cas l’annesso la ba baiana biascicare le lenticchie di Pakistan d’India non c’entra scuse».

Nel frattempo i preparativi per lo scambio vennero rapidamente portati a termine. Gli elenchi dei matti furono consegnati alle rispettive autorità. La data del trasferimento venne fissata.

In una fredda sera d’inverno autobus pieni di matti indù e sikh sotto una scorta armata fino ai denti lasciarono il manicomio di Lahore. Al confine, a Wagha, i funzionari responsabili per lo scambio s’incontrarono, firmarono documenti e diedero inizio all’operazione.
Fu un lavoraccio trascinare gli uomini giù dagli autobus per consegnarli ai funzionari dall’altra parte. Alcuni si rifiutavano di uscire. Quelli che erano stati persuasi a scendere incominciarono a correre alla rinfusa per ogni dove. Alcuni erano completamente nudi. Era inutile tentare di coprirli perché non era possibile impedir loro di strapparsi i vestiti di dosso. Alcuni imprecavano a squarciagola o cantavano. Altri piangevano disperatamente. Scoppiavano risse. Era il caos.

C’erano anche le pazze, anche loro venivano scambiate, e queste facevano ancora più baccano degli uomini. Faceva un freddo pungente.
La maggior parte dei pazzi era decisamente contraria all’operazione in corso. I matti non riuscivano proprio a capire perché venivano presi con la forza, sbattuti negli autobus e portati in questo strano luogo dove venivano inneggiati slogan come “Viva Pakistan” o “Pakistan a morte” seguiti da tafferugli.
Quando Bishan Singh fu trascinato fuori dall’autobus e gli fu chiesto il nome, che doveva essere trascritto nel registro, egli chiese all’ufficiale indiano dietro la scrivania: «Dov’è Toba Tek Singh? In India o in Pakistan?».
«Pakistan».

Questo era tutto quello che Bishan Singh voleva sapere. Si voltò e corse in Pakistan, ma venne riacciuffato dai soldati pakistani che tentarono di sospingerlo al di là della linea divisoria, in India. Ma egli non si mosse. «Toba Tek Singh sta da questa parte», gridò, e urlando a tutta voce disse: «Sopra la cas cas l’annesso la ba baiana biascicare le lenticchie di Toba Tek Singh e di Pakistan». Fecero di tutto per calmarlo, tentarono di spiegargli che Toba Tek Singh era partito per l’India; e che semmai avessero trovato uno che si chiamava Toba Tek Singh l’avrebbero spedito dritto in India. Ma non riuscirono a convincere Bishan Singh. I secondini tentarono anche di usare la forza, ma Bishan Singh piantò le sue gambe gonfie sulla linea divisoria con tale fermezza che nessuno riuscì a spostarlo.
Lo lasciarono stare. Si dissero che in fondo non era normale. Era inutile usare la forza; prima o poi si sarebbe reso conto da solo di come stavano le cose – ma sì, figuriamoci. Lo lasciarono lì dove stava e andarono avanti con lo scambio.

Poco prima dell’alba uno strano urlo si levò dalla gola di Bishan Singh. L’uomo che era stato in piedi giorno e notte per quindici anni era caduto per terra con la faccia in giù. Il filo spinato da una parte segnava il territorio indiano, un altro filo spinato marcava quello pakistano. E sulla terra di nessuno, in mezzo ai due fili spinati, giaceva il corpo senza vita di Bishan Singh del villaggio di Toba Tek Singh.

[Racconto estratto da Il prezzo della libertà ed altri racconti, edito da Fuorilinea] [Foto credit: priyankargupta.blogspot.com]

*Saadat Hasan Manto (11 maggio 1912 – 18 gennaio 1955) è stato scrittore, giornalista e autore cinematografico.
**I sikh si salutano con questa parola che significa letteralmente “signor soldato”, a riprova del carattere marziale della comunità religiosa fondata dal Guru Nanak nel XVI secolo. I sikh sono originari del Punjab, che fu divisa fra l’India e il Pakistan nel 1947. Essi scelsero l’India.
***Dispregiativo di “indiani”.
****“Viva il Pakistan!”