A cento anni dalla nascita di Manto, autore scomodo sia in India che in Pakistan, ancora si fatica a riconoscergli un posto nel pantheon die grandi novellisti del subcontinente. Maestro della storia breve, Manto ha criticato la Partizione, il ruolo della donna e la situazione del neonato Pakistan.
Sono già passati cento anni dalla nascita di Saadat Hasan Manto e ancora la sua figura non ha ricevuto il posto meritato nel pantheon dei grandi novellisti del subcontinente. Manto ha vissuto perseguitato da un’ombra che gli ha impedito il successo e sembra impedirglielo tutt’ora.
Saadat Hasan Manto è stato uno dei più importanti narratori indo-pakistani del ventesimo secolo e allo stesso tempo uno dei meno conosciuti. È arrivato a noi soprattutto per i suoi racconti brevi sulla Partizione del 1947, la divisione dell’India britannica su base religiosa – India per gli hindu, Pakistan occidentale e Pakistan orientale, l’attuale Bangladesh, per i musulmani – ma il suo estro creativo ha trattato un ventaglio di temi molto più ampio: la politica del Raj Britannico, la prostituzione, l’aborto e il ruolo della donna nell’India degli anni Trenta e Quaranta, il massacro di Amritsar, la situazione del neonato Pakistan dopo la sua formazione, solo per citarne alcuni.
Nato l’undici maggio 1912 in Punjab e morto in Pakistan il 18 gennaio 1955, Manto è uno di quegli scrittori “scomodi” sia in vita che a più di cinquant’anni dalla morte. Prolifico autore, si è cimentato in una varietà di generi letterari: storie brevi, drammi teatrali e radiofonici, sceneggiature per una già fiorente Bollywood e corrispondenze epistolari con numerosi letterati della sua epoca, tra cui Ismat Chugtai, Bari Aligh, Ahmad Nadeem Qasmi.
Manto é stato perseguitato dalle autorità, denunciato e accusato di oscenità. Le sue storie sono state censurate e fatte sparire. Citato a giudizio numerose volte in India per pornografia, come nel caso del racconto breve Bū (Profumo), dove viene descritta una relazione amorosa tra un indiano di classe sociale alta e una contadina Ghatan la cui pelle emette un odore primordiale ed eccitante, anche in Pakistan non ha potuto evitare la rotta di collisione col nuovo potere costituito dopo la Partizione.
Manto si è sempre difeso usando l’arma della verità, deciso a non utilizzare buonismi o fronzoli per rendere la narrazione più piacevole. Ha descritto gli avvenimenti così come gli si presentavano agli occhi proprio perché protagonista in prima persona degli eventi disastrosi che hanno seguito l’indipendenza dell’India del 1947.
Gli eccidi, le violenze intracomunitarie, gli stupri di migliaia di donne e l’interminabile esodo dei profughi da una parte all’altra del confine; Manto descrive tutto questo senza pietà, senza schierarsi da una parte o dall’altra delle ostilità, nonostante la sua fede musulmana.
Musulmani e hindu andavano e venivano da una parte all’altra del confine. I centri d’accoglienza erano strapieni, pronti ad esplodere. Nonostante ciò, nuovi profughi continuavano ad essere deportati e stipati dentro. Non c’era cibo a sufficienza, i servizi igienici erano praticamente inesistenti, malattie ed epidemie si diffondevano a macchia d’olio. Questi erano i tempi che correvano.
La sua cronaca della Partizione è frutto di un’osservazione quasi distaccata, chirurgica, che fa rivivere tout court lo spettacolo che gli si presentava davanti. Un’operazione per la quale Manto ha pagato caro: continue ed impellenti difficoltà economiche e un attaccamento alla bottiglia che lo ucciderà di cirrosi a soli quarantatré anni.
Nel suo capolavoro, Toba Tek Singh – titolo e nome del protagonista della novella, che potete leggere qui – Manto racconta lo scambio di un gruppo di malati mentali da una parte all’altra del confine e la confusione che questa nuova “terra dei puri” crea nella testa di persone già di per sé instabili.
In una raccolta di storie brevissime e aforismi, Siyah Hashiye (Margini Neri), è riassunta tutta la sua agghiacciante maestria nel dipingere la follia diffusa nel periodo successivo alla Partizione.
Bisogno di riposo
“Oh guarda, non è morto, c’è ancora un soffio di vita in lui”.
“Lascia stare, amico mio, sono troppo stanco”.
Manto, a causa degli argomenti trattati nelle sue opere, è tutt’ora volutamente omesso in molte antologie di letteratura indo-pakistana, nonostante il suo importante ruolo nello sviluppo della novellistica in lingua urdu.
In Italia, alcune delle sue storie scritte dopo il 1947 sono raccolte nel volume Il prezzo della libertà e altri racconti, edito da Fuorilinea.
Nonostante questo centenario stia passando quasi inosservato in tutto il mondo istituzionale e nessun riconoscimento ufficiale gli sia stato offerto né in India né in Pakistan, Manto merita di ritrovare il successo che gli è stato negato.
Leggendo le sue storie si entra in contatto con un’India spesso taciuta. Manto ci avvicina alle donne nascoste dietro le mura di casa succubi dei mariti, ai rikshawalla stanchi di essere umiliati dagli invasori stranieri, alle figlie violentate e rifiutate dalla famiglia, ai padri in cerca dei cari perduti durante la Partizione. Manto è tutto ciò e altro ancora e questo omaggio è un invito alla sua scoperta.
[Foto credit: thefridaytimes.com]
*Gaia Miato si è laureata alla Sapienza di Roma con una tesi magistrale in letteratura sullo scrittore Saadat Hasan Manto. attualmente vive a Aix-en-Provence, Francia, dove ha insegnato lingua hindi all’università di Provenza e dove si esibisce per le strade con il suo ukulele e le sue sculture di palloncini.