L’autunno di un boss e il traffico di donne della Yakuza

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Un arresto in Thailandia avvenuto grazie ai social network riaccende l’attenzione sulle basi all’estero della mafia giapponese. E sulla tratta che dalle zone più povere dell’Asia porta fino al ricco mercato della prostituzione nipponica decine di migliaia di ragazze


Un tatuaggio che copre tutto il corpo, in Asia, e in Giappone soprattutto, è spesso un segnale incontrovertibile di appartenenza: yakuza, la mafia giapponese. Negli ultimi giorni un ex membro del clan più grande e ricco di tutto il Paese, la Yamaguchi-gumi è stato arrestato in Thailandia, uno dei Paesi da cui parte il traffico di esseri umani gestito dalla yakuza, dopo che la sua foto è stata condivisa centinaia di migliaia di volte sul web.

Shigeharu Shirai stava trascorrendo gli anni della sua «pensione» in tranquillità — così dice — a Lopburi, cittadina della Thailandia centrale, quando un paio di agenti di polizia sono venuti a prelevarlo nella sua abitazione. Settantadue anni, da quattordici in Thailandia, una moglie locale, l’ex yakuza non aveva fatto i conti con le nuove tecnologie e la velocità con cui al giorno d’oggi le informazioni si diffondono via web. Alcuni giorni prima del suo arresto, Shirai era stato fotografato da un abitante di Lopburi mentre giocava a scacchi per strada con altri residenti.

L’immagine evidenziava intricati e coloratissimi tatuaggi sulle braccia e un mignolo mancante. Un segno di riconoscimento troppo chiaro: la foto è stata condivisa oltre 10mila volte sui social network attirando l’attenzione della polizia nipponica. Questa ha allertato le autorità thailandesi che in poche ore hanno arrestato Shirai. Secondo quanto riportato dall’Afp, dopo l’arresto, l’uomo ha ammesso di essere stato leader della sotto-cosca conosciuta come Kodo-kai e affiliata al più grande clan yakuza, lo Yamaguchi-gumi.

L’uomo era infatti ricercato dal 2003 con l’accusa di omicidio. Secondo le ricostruzioni, in Thailandia Shirai conduceva una vita tranquilla e ritirata, niente a che vedere con la sua esistenza precedente da gangster a parte, forse, la passione per il gioco che ha finito per incastrarlo. L’uomo riceveva visite dal Giappone appena un paio di volte l’anno e durante queste gli venivano consegnate somme in denaro utili a mantenersi.

La sua cattura all’estero riporta l’attenzione, più che sul caso per cui era ricercato — l’uccisione del boss di un clan rivale — sui legami, e sulle basi operative, all’estero della mafia giapponese.

Alcuni paesi del Sudest asiatico, come Thailandia e Filippine, sono tradizionalmente snodi importanti per il traffico di esseri umani: la prostituzione, insieme con il traffico di metanfetamine, è infatti uno dei principali introiti dei clan mafiosi giapponesi.

Come ricordano David Kaplan e Alec Dubro nel loro libro del 2003 Yakuza: Japan’s Criminal Underworld, l’impegno degli yakuza all’estero risale al periodo dell’occupazione giapponese dell’Asia, quando agivano come reclutatori di donne per le case di piacere dell’esercito di occupazione, promettendo alle loro vittime lavori legittimi e ben pagati.

È però qualche decennio più tardi, tra gli anni ’70 e ’80, che il traffico di donne dal Sudest asiatico, diventa un business redditizio. Nel primo dopoguerra, la yakuza era riuscita a monetizzare sui viaggi aziendali che le società giapponesi organizzavano nei paesi del Nord e del Sudest asiatico dove avevano operazioni — leggi: forniture di materie prime — imbastendo dei tour sessuali per i salaryman in viaggio di lavoro. Poi, come scrivono ancora Kaplan e Dubro, dopo aver «esportato gli uomini», è venuto il tempo di «importare le donne». Nei primi anni 2000, le stime parlavano di oltre 100mila prostitute straniere in Giappone.

«Alla fine degli anni ’90 — ricordano gli autori di Yakuza — una sessione costa con una prostituta straniere costa intorno ai 200 dollari. Con 100mila prostitute straniere impiegate in almeno una prestazione al giorno ogni anno entrano 7,3 miliardi di dollari nelle tasche di protettori, proprietari di bar, intermediari e, infine, delle stesse prostitute».

Per procacciare la manodopera da inserire nei locali di sua gestione, la yakuza fa affidamento su una rete di reclutatori che viaggia nelle regioni più povere di paesi come Thailandia e Filippine, ma più di recente anche da Cina e Myanmar, per offrire alle famiglie in difficoltà piccole somme di denaro (circa 300 dollari) per l’acquisto di una figlia. Questa viene poi rivenduta a cinque volte il prezzo di partenza a un broker che la rivende attraverso una serie di intermediari — spesso di origine cinese — alla yakuza in Giappone, che la assolda, spesso, tramite agenzie di moda e spettacolo controllate.

Per superare i controlli all’immigrazione, oltre ai passaporti contraffatti, vengono usati escamotage più semplici, come far vestire la donna di abiti eleganti e costosi e farla accompagnare da un uomo giapponese.

Lo «schiavismo bianco», come è conosciuto in Giappone la tratta di esseri umani, è però una ferita aperta per la reputazione internazionale di Tokyo. Ancora nel 2016 il Dipartimento di Stato americano ha accusato il governo giapponese di non fare abbastanza per contrastare il traffico di esseri umani e lo sfruttamento della prostituzione, invitandolo ad aggiornare le leggi in materia.

«Affrontare queste sfide — ha scritto il sottosegretario generale delle Nazioni Unite e responsabile della Commissione economica e sociale per l’Asia-Pacifico, Shamshad Akhtar, in una lettera aperta a fine 2017 — può liberare il potenziale di cambiamento positivo dei migranti. […] Ma per fare ciò, sono necessarie politiche chiare di protezione dei migranti sul posto di lavoro, di miglioramento dell’accesso ai servizi essenziali e di facilitazione dell’aiuto alle famiglie lasciate nei paesi d’origine».

di Marco Zappa

[Pubblicato su Eastwest]