L’altopiano globalizzato

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Nell’ex Grande Tibet, la foto del Dalai Lama compare un po’ ovunque, soprattutto nei templi. Per vedere come avvenga l’assimilazione della cultura tibetana, nel segno del mercato e della globalizzazione, bisogna quindi spostarsi fuori dai complessi monastici, tra costruzioni, infrastrutture e gap culturale-linguistico. «Mei wenti», non c’è problema. «A volte i funzionari di partito ci fanno storie, ma di solito non c’è problema». Il monaco fa la guardia al dio della fortuna, che si trova in una sala al piano superiore di un tempietto nel complesso monastico buddista di Taersi, nella regione del Qinghai. Ha le ciglia folte e parla infervorato in mandarino mentre i turisti cinesi gli scorrono attorno un po’ imbarazzati per quello che sentono. Il ritratto del Dalai Lama è ben visibile dentro la saletta, un’esplicita rivendicazione che però qui, al contrario del resto della Cina, non sembra proibita. «Noi veneriamo il Dalai Lama», prosegue il monaco. «Il Panchen Lama (la seconda autorità religiosa del buddismo tibetano che attualmente è stato scelto da Pechino) è dei cinesi, noi tibetani siamo schiavi ma anche indipendenti», spiega giocando sull’assonanza tra nuli e duli, termini che suonano simili ma di significato opposto. Il monaco saluta con una forte stretta di mano. Continua su Internazionale