In Cina e Asia – La “classe media” cinese non si considera tale

In Notizie Brevi by Alessandra Colarizi

Oltre 400 milioni. A tanto ammonterebbe la famigerata “classe media” cinese, su cui puntano i brand stranieri interessati al mercato asiatico e la leadership cinese per rilanciare i consumi interni. Ma cosa vuol dire esattamente “middle class” in Cina? Venerdì scorso, per la prima volta l’Istituto nazionale di statistica ha fornito una definizione ufficiale all’interno di un sondaggio, che vede le persone con un reddito di meno di 2.000 yuan (295 dollari) al mese rientrare nella fascia a “reddito basso”, mentre chi guadagna mensilmente tra i 2.000 e i 5.000 yuan (295 – 740 dollari) viene considerato a “reddito medio”. Le reazioni sul web sono state tanto accese da aver indotto le autorità a ridimensionare la validità assoluta della definizione. Secondo la Banca Mondiale, il gigante asiatico si classifica 73esimo a livello mondiale per Pil pro capite, rientrando tra gli “upper middle income country”. Ma per molti cinesi, il reddito percepito non è sufficiente a far fronte alla crescita del costo della vita.

I dazi di Trump al giudizio della WTO

La guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti passa nelle mani della WTO. Dal 2017 a oggi, Pechino ha presentato due denunce formali, accusando il regime tariffario imposto da Washington su 250 miliardi di dollari di merci cinesi di violare il principio della parità di trattamento. Avendo già esercitato il proprio potere di veto una prima volta, secondo le regole interne dell’organizzazione, gli Stati Uniti non sono più in grado di bloccare l’indagine, che probabilmente verrà annunciata ufficialmente oggi a Ginevra. Il caso rischia di mettere in discussione la liceità della strategia sanzionatoria americana rispetto agli accordi internazionali. Ma le problematiche interne alla WTO suggeriscono tempi di risoluzione biblici. Al momento, ci sono ben altre 23 denunce in sospeso contro Washington.

Ombre cinesi sulla crisi venezuelana

La Cina si oppone alle influenze straniere nella crisi venezuelana. Il monito del ministero degli Esteri cinesi rispecchia il principio cardinale della politica estera: la non ingerenza negli affari interni degli altri paesi, secondo il principio “non fare agli altri quello che non vorresti venisse fatto a te stesso”. L’approccio cinese si discosta nettamente dall’endorsement ufficiale di Washington al capo dell’opposizione Juan Guaido. D’altronde Pechino ha tutto l’interesse a mantenere stabile il governo di Caracas. Negli ultimi dieci anni la Cina ha prestato al paese 62 miliardi di dollari in cambio di petrolio, il 53% di quanto elargito all’intera America Latina. Ed è anche il primo creditore del regime di Maduro, contando per 26 miliardi del debito estero accumulato dal Venezuela. Ma il supporto cinese va oltre gli aspetti meramente economici. Una recente inchiesta della Reuters racconta nel dettaglio come l’azienda cinese ZTE da anni stesse aiutando Caracas a istallare un sistema di controllo sociale digitalizzato.

Il nuotatore Sun Yang di nuovo nel mirino per doping

Il campione olimpionico cinese Sun Yang ha intenzione di denunciare il giornale britannico Sunday Times per diffamazione dopo la pubblicazione di un report secondo il quale l’atleta avrebbe distrutto con un martello campioni di sangue per ostacolare i controlli antidoping. Sun, definito il “miglior nuotatore freestyle di tutti i tempi” per essere l’unico uomo a vincere l’oro olimpico nei 200m, 400m e 1.500m stile libero, ha un passato piuttosto turbolento. Condannato a una settimana di carcere dopo un incidente d’auto, nel 2014 è stato squalificato per doping guadagnandosi i commenti poco lusinghieri dei colleghi. L’atleta ha annunciato che le Olimpiadi di Tokyo saranno le ultime, ma dopo i recenti sviluppi non è chiaro se vi potrà nemmeno prendere parte.

Una “bomba di Hiroshima” per estrarre shale gas

La Cina si appresta a utilizzare la tecnologia impiegata per detonare la bomba di Hiroshima nell’estrazione dello shale gas, di cui la provincia del Sichuan è particolarmente ricca. Mentre la pratica implicherebbe un gigantesco balzo in avanti non solo per l’industria ma anche per le ambizioni di autosufficienza energetica di Pechino, alcuni esperti ne temono i rischi ambientali. Pur ospitando le maggiori riserve di gas di scisto del pianeta – circa 31,6 trilioni di metri cubi ovvero il doppio di Stati Uniti e Australia messi insieme – la Cina è il più grande importatore mondiale di gas, con circa il 40 per cento del fabbisogno annuale proveniente dall’estero. Questo perché a differenza degli Stati Uniti, le riserve cinesi si trovano a diversi chilometri di profondità, troppo per poter impiegare la più comune tecnica del fracking. Il nuovo dispositivo utilizza una potente corrente elettrica per generare onde d’urto concentrate in grado di perforare più a fondo. Un aspetto che impensierisce per via della sismicità del Sichuan, teatro nel 2008 di uno dei più devastanti terremoti della storia cinese.

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