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In Cina e Asia – Gas russo, la crisi ucraina fa impennare l’export verso Pechino

In Notizie Brevi by Redazione

I titoli di oggi:

  • Gas russo, la crisi ucraina fa impennare l’export verso la Cina
  • India, Xiaomi ai ferri corti con la legge
  • I server cinesi “svelano” le sedi degli account dei miliardari occidentali
  • Chips e semiconduttori all’avanguardia: nuova cooperazione tra Usa e Giappone
  • Ritardo nella consegna di armi pesanti statunitensi a Taiwan: ma non c’è nessun cambio di strategia
  • Nuovo video virale a Shanghai e test di massa a Pechino. E cala il potere attrattivo delle megalopoli
Gas russo, la crisi ucraina fa impennare l’export verso la Cina

Dove si chiude una porta, si apre un portone. Questo il messaggio che la società russa Gazprom ha lanciato nel suo ultimo comunicato, uscito nella giornata di domenica 1°maggio. I dati forniti dal gigante del gas russo, infatti, dimostrano che le esportazioni verso i paesi non Csi sono diminuite del 26,9% (50,1 miliardi di metri cubi). La Cina, invece, ha aumentato del 60% le importazioni di gas naturale dal partner russo. Si tratta di 38 milioni di metri cubi, ancora pochi rispetto alla domanda occidentale. Ma abbastanza per far registrare alla Russia un successo economico mentre intorno si allarga la crisi.

La crescita delle transazioni per il gas russo non deve essere scambiata per una conseguenza diretta della guerra. Anche se quest’ultima ha contribuito ad accelerare il trend. Il presidente russo Vladimir Putin aveva firmato già a febbraio un accordo per la fornitura di gas e petrolio dal valore di 117,5 miliardi. In costruzione c’è poi “Power of Siberia 2”. Questo nuovo gasdotto, insieme al primo progetto omonimo, sarà pronto nel 2026 e permetterà alla Cina di ottenere oltre 48 miliardi di metri cubi di gas all’anno. A oggi il potenziale annuale della rete di distribuzione sino-russa è di soli 10 miliardi di metri cubi. Per Pechino  aprire ulteriormente il mercato al gas russo ha molteplici vantaggi: allarga il bacino dei fornitori e riduce la dipendenza dalle importazioni via mare (aggirando il rischio di interferenze lungo la tratta).

India, Xiaomi ai ferri corti con la legge

Nuova Delhi ha sospeso le operazioni finanziarie del colosso tech cinese Xiaomi. L’agenzia nazionale contro il riciclaggio denuncia come la compagnia avrebbe violato le leggi sulle transazioni internazionali per almeno 726 milioni di dollari. La direzione indiana di Xiaomi è accusata di aver dichiarato il falso sulla natura di tali transazioni: i soldi sarebbero stati trasmessi a entità esterne all’India e dichiarate come pagamenti per i brevetti. L’azienda difende le proprie posizioni, come afferma in un tweet pubblicato il 30 aprile: “Le nostre operazioni sono strettamente aderenti alle leggi locali […] Siamo intenzionati a lavorare in stretto contatto con le autorità per chiarire questa incompresione.”

Il governo indiano ha adottato un atteggiamento sempre più severo nei confronti delle aziende cinesi presenti sul suo territorio. Dal 2020, quando sono iniziati i primi scontri al confine con la Cina, lo scetticismo verso gli investitori cinesi nel paese si è fatto ancora più intenso (già erano in aumento i casi di boicottaggio dei prodotti cinesi). I regolatori hanno inserito oltre 20o app cinesi nella lista nera, compresi Tik Tok e l’e-commerce di Alibaba.

I server cinesi “svelano” le sedi degli account dei miliardari occidentali

Elon Musk si trova a Pechino, Bill Gates nel centro dello Henan: non si tratta di qualche fantasia del web, ma di una scoperta curiosa emersa con la nuova legge per le i social media in Cina. Secondo il regolamento, entrato in vigore da pochi giorni, le piattaforme devono pubblicare la posizione dell’utente sulla base del suo indirizzo IP.  Ecco quindi che anche i grandi nomi del panorama tech globale risultano localizzati in Cina. I loro profili Weibo riscuotono infatti un certo successo: il capo esecutivo di Apple Tim Cook ha 1,5 milioni di follower, il Ceo di Tesla Elon Musk addirittura 90 milioni.

La manovra sulla geolocalizzazione dei server rivela però come questi account non siano direttamente gestiti dalle loro aziende, bensì da agenzie cinesi – come spesso capita per quei brand occidentali che cercano di inserirsi su un nuovo mercato. “Ora possiamo definirci concittadini”, ironizzano alcuni utenti. Ma ciò non esclude la preoccupazione per la condivisione di questo dato: la funzione, infatti, non può essere disattivata, nemmeno nella sezioni commenti. La manovra arriva in un momento di tensione intorno alla cascata di contenuti online sul lockdown a Shanghai, tanto che le autorità hanno giustificato la misura come un modo per “impedire che i netizen fingano di essere dei cittadini del posto e diffondano notizie infondate”.

Chips e semiconduttori all’avanguardia: nuova cooperazione tra Usa e Giappone

Il ministro dell’Economia Hagiuda Koichi è arrivato ieri negli Stati Uniti per incontrare l’omologa Gina Raimondo. Secondo quanto riportato da Nikkei Asia, lo scopo del meeting è approfondire la cooperazione tra i due paesi nella costruzione di una catena di approvvigionamento per semiconduttori all’avanguardia e chip a 2 nanometri. L’intenzione è quella di ridurre la dipendenza da Taiwan, in previsione del rischio di instabilità geopolitica, e di diversificare le fonti. Per ora il leader nella produzione di chip a 2 nanometri è Taiwan Semiconductor Manifacturing Co. (TSMC), definita “una catena montuosa sacra” a Taipei e dintorni, come ha scritto Lorenzo Lamperti. A inizio anno la società ha annunciato l’apertura del suo primo stabilimento in Giappone a Kyushu, la terza isola per grandezza. Lo scopo di Tokyo è aumentare la produzione interna, malgrado l’impianto sia limitato alla produzione di chip meno avanzati, da 10 a 20 nanometri.

Ma serve ora “un prossimo step”: la nuova collaborazione tra Stati Uniti e Giappone si presenta come necessaria vista la crescente instabilità delle catene di approvvigionamento dei semiconduttori, a causa della pandemia di Covid-19 e della guerra commerciale tra Washington e Pechino. Intanto, la statunitense IBM, che ha completato lo scorso anno il suo prototipo di chip a 2 nanometri, è impegnata in un programma congiunto per lo sviluppo di tecnologie avanzate con l’Istituto nazionale di scienza e tecnologia industriale avanzata del Giappone, a fianco di colossi come Canon e Tokyo Electron.

Ritardo nella consegna di armi pesanti statunitensi a Taiwan: ma non c’è nessun cambio di strategia

Il lotto di 40 obici, armi da fuoco di artiglieria, di produzione statunitense non arriverà a Taiwan prima del 2026. Lo ha comunicato ieri il ministero della Difesa taiwanese, che ha aggiunto che i sistemi di artiglieria semoventi medi M109A6 da 155 mm avrebbero dovuto essere consegnati per il prossimo anno, ma che la linea di produzione risulta “affollata”. Approvato lo scorso agosto, si tratta del primo carico dell’amministrazione di Joe Biden, e include 1.698 kit di guida di precisione per munizioni, pezzi di ricambio, formazione, stazioni di terra e obici di nuova generazione. Il Dipartimento statunitense ha approvato altre due commesse di armi per l’isola, compreso un contratto di supporto missilistico da 100 milioni di dollari (Lorenzo Lamperti ne ha parlato nella puntata di Taiwan Files dello scorso 12 febbraio), al fine di rafforzare la sua capacità difensiva e scoraggiare un’invasione da Pechino.

Se ieri alcune fonti del quotidiano taiwanese United Daily News hanno imputato i ritardi alla crisi in Ucraina, il ricercatore del think tank Yuan Wang di Pechino Zhou Chenming ha precisato al South China Morning Post che Washington non fornisce a Kiev obici ma armi leggere. La proroga della consegna non dipende, secondo il suo punto di vista, da queste genere di problema. “Tale mossa può essere interpretata come la volontà degli Stati Uniti di raffreddare i legami con Taiwan”, ma limitare l’esportazione di armi nell’isola non implicherebbe alcun “cambiamento strategico” nella politica estera statunitense.

Nuovo video virale a Shanghai e test di massa a Pechino. E cala il potere attrattivo delle megalopoli

Nella giornata di domenica è diventato virale un video che mostra alcuni dipendenti della casa di riposo Shanghai Xinchangzheng Welfare Hospital scaricare una signora anziana avvolta in un sacco di cadaveri per riportarla all’interno della residenza. Sembrerebbe, dice la voce fuori campo, che ci si sia accorti che la persona fosse ancora viva una volta arrivati alla camera mortuaria. Le autorità hanno riferito che cinque funzionari, compreso il presidente della residenza per anziani, sono sotto indagine per quanto accaduto. Si tratta dell’ennesimo caso di malagestione e caos emerso durante il lockdown di Shanghai, che da oltre un mese sta bloccando in casa tutti gli oltre 25 milioni di abitanti. Il blocco delle catene di approvvigionamento e le problematiche emerse nella gestione della quarantena hanno generato un malcontento diffuso che si è riversato sui social in tutto il mondo.

Dopi i dati incoraggiati di domenica, con 32 nuovi decessi e 6.804 contagiati (in calo rispetto ai 38 e ai 7.100 del giorno precedenti) e dopo che da giorni le autorità del centro finanziario del paese assicurano che la situazione è in fase di miglioramento, ieri sono stati registrati 73 nuovi casi fuori dalle aree coinvolte dalle misure di quarantena. La Cina non mostra alcuna intenzione di fare passi indietro nella sua ormai celebre politica “zero Covid” e ora tocca alla capitale. A Pechino le autorità stanno procedendo con test di massa per i 22 milioni di abitanti. Secondo quanto riferito ieri da un funzionario il più grande distretto della capitale, Chaoyang, continuerà con i test di massa dopo quelli iniziati il 1 maggio, e procederà con altri tre cicli di test, fino al 5 maggio. Le attività ristorative sono chiuse e sono necessari risultati negativi per entrare nella maggior parte dei luoghi pubblici.

I nuovi focolai stanno intaccando il potere attrattivo delle città di prima fascia, e accelerano il fenomeno che sta prendendo piede negli ultimi anni che vede cittadini giovanissimi e meno giovani scegliere città più a misura d’uomo. Il South China Morning Post ha riportato la storia della 38 enne Janice Yuan: se da tempo rifletteva sull’eventualità di lasciare Shanghai per la sua città natale, Shaoxing, il caos del lockdown “è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. Secondo uno studio pubblicato qualche settimana fa dalla società di ricerca DT Caijing, il 40 percento degli intervistati, tutti nati dopo il 1980, è d’accordo nel dire che le metropoli sono meno attraenti di quanto non fossero prima della pandemia. I cinesi guardano ora alle “nuove città di prima fascia”, come Hangzhou e Chengdu. A scatenare la dilagante insoddisfazione, i costi di vita inaccessibili e le nuove ondate di licenziamenti delle maggiori società del paese.

A cura di Sabrina Moles e Vittoria Mazzieri