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I primi 10 anni della legge sulla salute mentale in Cina, tra cure mancate e forzate

In Cina, Sociale e Ambiente, Uncategorized by Redazione

Ci sono voluti ben 27 anni di bozze affinché la prima legge sulla salute mentale della RPC entrasse in vigore nel maggio del 2013. Anticipata da politiche locali fin dai primi anni duemila, la normativa segna una svolta storica poiché finalmente ammette i diritti dei malati mentali nel sistema legale cinese

È lunedì 10 ottobre 2022, la Giornata mondiale della salute mentale, e il signor Yuan (pseudonimo) di Xi’an, città di 6 milioni di abitanti a sud-ovest di Pechino, è in procinto di lasciare l’ufficio quando viene sorpreso a suon di percosse da cinque uomini in borghese. Il suo stesso berretto come bavaglio, viene trascinato al Centro di salute mentale di Xi’an. Per ottanta giorni, il signor Yuan è costretto a subire elettroshock e ingerire psicofarmaci per curare l’instabilità emotiva, le violenze e le tendenze autolesioniste già denunciate in passato dalla moglie, la signora Qu (nome di fantasia), mandante del “sequestro”.

Due mesi dopo le dimissioni e dopo esser stato dichiarato sano da una delle maggiori strutture ospedaliere di Pechino, il signor Yuan cerca vendetta. Il 5 febbraio di quest’anno invita la moglie a un incontro che la vede accolta da cinque operatori sanitari e un’iniezione di sedativo. Stordita, la signora Qu viene condotta alla Clinica di salute mentale e riabilitazione psicologica di Xi’an, dove per tre giorni riceve terapie analoghe a quelle del marito.

L’eccezionalità della vicenda dei coniugi di Xi’an fa rimbalzare la storia di testata in testata. C’è chi ne sottolinea la somiglianza con una scena di sfiorata lobotomia in un recente blockbuster cinese, e chi si sofferma sul comportamento della moglie, accusata d’infedeltà. Questionabile rappresentazione mediatica della parità di genere a parte, la maggioranza dei netizens è unanime nel verbalizzare il terrore di trovarsi nelle medesime circostanze, preoccupazione consolidata peraltro dal tasso di ricovero coatto stimato al 74.9% nel 2017.

È davvero così semplice essere internati contro la propria volontà in Cina?

Per far luce sugli eventi dei coniugi di Xi’an occorre far riferimento alla legge sulla salute mentale della Repubblica Popolare Cinese (RPC).

La legge sulla salute mentale e il trattamento sanitario obbligatorio

Ci sono voluti ben ventisette anni di bozze affinché la prima legge sulla salute mentale della RPC entrasse in vigore nel maggio del 2013. Anticipata da politiche locali fin dai primi anni duemila, essa segna una svolta storica poiché finalmente ammette i diritti dei malati mentali nel sistema legale cinese.

Significativo è l’articolo 30 sul trattamento sanitario obbligatorio (TSO), che ne limita la liceità al soddisfacimento di due requisiti: che il soggetto sia affetto da un disturbo mentale di considerevole gravità e che rappresenti un pericolo per il prossimo. In presenza di entrambi, i familiari o chi di dovere possono richiedere una valutazione diagnostica del paziente, mentre spetta alla struttura ospedaliera confermare la necessità del TSO.

A dispetto di tali precauzioni normative, recenti studi sul tema dipingono una realtà ben diversa, dove il ricovero forzato, lecito o no, è ancora diffuso, incoraggiato com’è da ragioni di natura sociale e politica.

In pochi ricevono le cure adeguate

Tra il 2001 e il 2004, meno del 10% dei soggetti affetti da patologie psichiatriche in Cina si sarebbe rivolto a un medico, dato sconcertante visti i 160 milioni di malati stimati nel 2019. Tale percentuale sarebbe il risultato dello stigma ancora diffuso nei confronti del malato mentale, generalmente bollato come “bomba pronta a scoppiare in qualunque momento” e “piantagrane”, nonché dei magri sussidi destinati alla psichiatria, incapace di raggiungere gli utenti prima che la situazione si aggravi al punto da necessitare un TSO. L’espressione cinese “i malati non sono pazienti” (letteralmente “chi avrebbe bisogno di cure non le riceve”, “该收治者不收治”) incapsula tali complessità.

La legge, sovvenzionata da robuste iniezioni finanziarie, si rivela così volta in prevalenza ad aumentare il tasso di trattamento di soggetti con sintomatologia mentale, in aumento a causa dello stress accumulato in tre anni di lockdown a singhiozzo “da COVID”. Qualsiasi altra inefficienza rimane in secondo piano, inclusa la percepita liceità (o ignorata illiceità) del ricovero forzato di malati e non-malati in violazione dei requisiti di gravità e pericolosità.

Non stupisce quindi che il testo offra parecchia libertà interpretativa e si presti a eccessi di discrezionalità nella sua applicazione. Manca ad esempio chiarezza sul criterio di selezione del tutore legale in caso d’incapacità civile del malato, nonché su quello di valutazione di quest’ultima. Non è esplicitato il criterio di esame della gravità della malattia, o se un paziente possa opporsi alla contenzione coatta in caso di tendenze autolesioniste. Non è precisato neanche se possa rifiutare le cure in caso di ricovero volontario.

Come esemplificato dal caso dei coniugi di Xi’an, il nucleo familiare approfitta di tale indeterminatezza normativa e rimane aduso a un regime di potere assoluto sul (sospetto) infermo. Allo stesso tempo, la professione psichiatrica, confusa circa le responsabilità legali nei confronti delle azioni del malato, si dimostra incline ad adeguarsi a richieste non ortodosse. Come riassume Bo Chen, ricercatore presso la Macau University of Science and Technology “[…] nessuno degli psichiatri [intervistati] ha affermato d’aver mai rifiutato una valutazione diagnostica perché convinti che il familiare non avesse l’autorità di far ammettere il paziente contro la sua volontà”.

Peccando di opacità normativa, la legge si rende quindi rea di agevolare gli abusi nel settore da parte di una varietà di soggetti non solo sociali.

“I malati non sono pazienti e i pazienti non sono malati”

Nel gennaio 2020, la testata The Paper pubblica un articolo sulla storia di Zhou Yang, giovane poliziotto caduto in disgrazia nel 2014 poiché ospedalizzato contro la sua volontà in seguito ad attriti sul posto di lavoro. Dopo il rilascio, Zhou inizia un’impervia scalata delle istituzioni per il riconoscimento del danno subito a livello monetario e reputazionale in quanto internato in assenza del criterio di pericolosità e nonostante il tutore non avesse acconsentito al ricovero. Zhou Yang verrà ospedalizzato una seconda volta nel 2019 per aver fatto circolare su WeChat la foto di un biglietto attaccato sul parabrezza della sua auto con le seguenti parole: “L’ufficiale di polizia […] del Carcere minorile della provincia dello Zhejiang è stato ricoverato ingiustamente.”

L’episodio, non ancora risolto, getta luce su un altro tipo di casistica relativamente comune che incarna l’intenzione di sopprimere tafferugli e dissonanze prima che sfuggano di mano (维稳). Frequente difensore di tale priorità sarebbe il Ministero della sicurezza pubblica, anch’esso autorità capace d’imporre il TSO. Esso supervisiona i cosiddetti “istituti di psichiatria coatta”, ufficialmente destinati agli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi. Tali strutture sono però sospettate di essere uno strumento di abusi da parte della polizia e di forze politiche.

Si esplica così l’espressione cinese nella sua interezza: “I malati non sono pazienti e i pazienti non sono malati” (“该收治者不收治, 不该收治者却被收治”), riassunto dei tormenti dell’opinione pubblica di fronte alle inadeguatezze e gli abusi nel settore medico. A dispetto delle migliori intenzioni della legge del 2012, rimangono tangibili le complessità di tipo sociale e istituzionale d’ostacolo al corretto esercizio dei diritti degli utenti psichiatrici e dei cittadini.

La patologia psichiatrica in quanto minaccia all’ordine sociale si riconferma arma invalidante, come esemplifica il caso dei coniugi di Xi’an. In attesa che le cliniche coinvolte vengano formalmente condannate o scagionate dalle accuse di divergenza normativa, sconvolge comunque la brutalità dei “sequestri” e l’apparente arbitrarietà della durata e delle cure previste dal TSO. Nonostante sia improbabile che le sollecitudini dell’opinione pubblica in reazione alla vicenda scuotano le istituzioni statali, ci si domanda quanti altri signor Yuan e signora Qu servano affinché maggiore chiarezza venga fatta sulle dinamiche di ospedalizzazione coatta.

A cura di Laura Baldis