I 100 anni del Pcc e la modernizzazione autoritaria accelerata cinese

In Cina, Economia, Politica e Società by Lorenzo Lamperti

La Cina viene spesso raffigurata come un monolite, inscindibile e immutabile. Una raffigurazione in cui esiste solo un intero ma non le sue componenti. E se le sue componenti restano sconosciute quell’intero non potrà che risultare sfocato, parziale, stereotipato. Invece quell’intero è in costante movimento, con un Partito-stato che non cerca tanto di mantenere il potere attraverso la difesa e la perpetuazione della sua missione storica, ma semmai governando i processi di modernizzazione e di trasformazione.

Tutto questo è raccontato benissimo in Cina– Prospettive di un paese in trasformazione (Il Mulino) a cura di Giovanni B. Andornino, docente di Relazioni internazionali dell’Asia orientale presso l’Università di Torino, dove dirige il TOChina Centre del Dipartimento di Culture, Politica e società. Già dalla sua introduzione, si ha un quadro della traiettoria della Cina di Xi Jinping che, abbandonando il “basso profilo” di denghiana memoria, si proietta verso e oltre il centenario della fondazione del Partito comunista aggiustando, integrando, aggiornando la sua retorica e la sua base narrativa. E avviando un riformismo politico-istituzionale dalle caratteristiche cinesi, o meglio caratteristiche del Pcc, dunque non assimilabile e non paragonabile al tipo di riformismo che Stati Uniti e occidente avrebbero sognato per la Cina.

E invece Pcc (e Cina) di Xi hanno sogni propri, tanto irriducibili da far sì che la competizione con il mondo occidentale, e in particolare con la guida di quel sistema unipolare da illusoria “fine della storia” (vale a dire gli Stati Uniti), dalla sfera puramente commerciale sia assurta a quella geopolitica e ancor più a quella ideologica. Sì, perché la Cina, da tempo non più banalmente descrivibile come “fabbrica del mondo”, non è solo “quella che copia”. La Cina propone un modello politico, sociale, statale alternativo.

Il libro a cura di Andornino spiega in che cosa consiste quel modello, in tutte le sue sfaccettature. E lo fa attraverso una serie di saggi di diversi studiosi della Cina. Il modello cinese non pretende di essere adottato da altri paesi, ma esige che la sua legittimità venga riconosciuta alla pari degli altri modelli, spiega Andornino nel suo contributo che esamina i cambiamenti del profilo politico-istituzionale del Partito operati dalla presidenza Xi, sostenendo che “nel passaggio dalla fase maoista a quella attuale, il marxismo-leninismo cinese ha visto progressivamente ridimensionata la componente marxista e potenziata quella leninista”, per l’immagine che dà di sé alla società cinese e per la fedeltà alle prassi del centralismo democratico.

Anna Caffarena prende in esame il ruolo di Pechino nel multilateralismo e nell’attuale ordine internazionale, mentre Simone Dossi traccia una panoramica della modernizzazione delle Forze armate cinesi, avviata negli anni ’80 e arrivata nel tempo a modificare e perfezionare la dottrina militare, gli assetti organizzativi e i sistemi di difesa. Edoardo Agamennone si concentra sulle prospettive dell’economia cinese, concentrandosi in particolare sull’accresciuto ruolo del Partito-stato nel settore privato. Giuseppe Gabusi esamina le relazioni sino-europee alla luce della pandemia da coronavirus e della crisi dell’egemonia statunitense, mentre Giorgio Prodi analizza la portata dei rapporti tra Italia e Cina.

La terza parte del volume è focalizzata sulle tendenze nei campi dell’innovazione e della comunicazione. Nel suo lungo intervento, Francesco Silvestri ne passa in rassegna le caratteristiche principali, dall’autosufficienza all’imprenditorialità di massa fino alla fusione militare-civile, fondamentali per comprendere davvero come funziona l’ammodernamento tecnologico della Repubblica Popolare. Silvestri elenca poi tutti i principali capitoli di questo ammodernamento e le loro implicazioni, dai semiconduttori alle tecnologie quantistiche. Emma Lupano racconta invece l’evoluzione dell’ambiente mediatico in Cina e soprattutto la proiezione internazionale della narrazione cinese, argomento di strettissima attualità visto il nuovo mandato di Xi a mostrare la “faccia buona” della Cina dopo che l’anno pandemico è stato caratterizzato dalla durezza dei cosiddetti diplomatici “lupi guerrieri”.

Arianna Ponzini scrive del divario di genere, che soprattutto per quanto riguarda salari, genere alla nascita e partecipazione politica rimane un problema attualissimo in Cina. Martina Poletti e Virginia Mariano spiegano invece quali sono i lineamenti della società civile cinese. Il tema dell’ambiente è affrontato da Daniele Brombal, che esamina il cambiamento istituzionale e politico volti a promuovere una “civilizzazione ecologica”. D’altronde il cambiamento climatico è un tema stringente per la Cina, e direttamente collegato a quello della governance globale, come spiega Carlotta Clivio.

La sesta parte del volume spiega qual è il ruolo della Cina in Italia e nel suo vicinato, a partire dal contributo di Daniele Brigadoi Cologna sul ruolo della minoranza cinese in Italia nelle relazioni bilaterali. Attraverso i dati contenuti nel suo intervento esce una fotografia completa e lontana dai soliti stereotipi della comunità cinese in Italia e dei sinodiscendenti. Elisa Giunipero analizza la politica religiosa della Repubblica Popolare e i suoi rapporti con la Santa Sede, in costante evoluzione negli ultimi anni con l’accordo sulla nomina dei vescovi, prorogato per due anni solo qualche mese fa. In altri due contributi si parla invece della presenza cinese nella regione del Mediterraneo allargato e in Europa centro-orientale attraverso il meccanismo 17+1 (nel frattempo diventato 16+1 dopo la fuoriuscita della Lituania).

Il quadro è completato dagli ultimi movimenti nella sempre più cruciale regione dell’Indo Pacifico, a partire dall’aria che tira sullo Stretto di Taiwan (Andornino e Simona Grano), per passare poi ai rapporti tra Pechino e paesi del Sud-Est asiatico (a cura di Raimondo Neironi). Con un epilogo, ancora a firma di Andornino, che prova a guardare che cosa ci sarà al di là dell’America First. Una domanda che si fanno in molti, mentre la Cina si prepara al cruciale Congresso del Pcc del 2022 che potrebbe (dovrebbe) sancire l’inizio del terzo mandato di Xi.

(Lorenzo Lamperti)

Estratto da “CINA – PROSPETTIVE DI UN PAESE IN TRASFORMAZIONE” dall’introduzione di Giovanni B. Andornino (per gentile concessione de Il Mulino)

L’elemento di fondo che rende sistematico il contrasto tra USA e RPC non è lo squilibrio nella bilancia commerciale, bensì la crisi dell’assunto secondo cui una Cina prospera e integrata nell’ordine internazionale – a partire dalla dimensione economica – potrà sperimentare una certa propensione alla liberalizzazione politica al suo interno.

È questa attesa di una possibile «evoluzione pacifica» ad aver costituito l’asse portante della politica di engagement perseguita dagli Stati Uniti verso la RPC almeno negli ultimi trent’anni, e ad apparire oggi irrimediabilmente frustrata. Non si tratta di una novità: già negli anni ’50 del secolo scorso l’amministrazione Eisenhower promuoveva espressamente una «strategia di conquista pacifica» con l’obiettivo di agevolare l’avvento al potere nei paesi del blocco sovietico, e persino nell’URSS, di leadership meno focalizzate sulla competizione egemonica e più sensibili allo sviluppo umano della propria popolazione. La dirigenza del PCC è sempre stata acutamente consapevole di questa sfida: Mao Zedong vi reagì portando al parossismo la pressione ideologica all’interno del paese; i suoi successori hanno optato per un approccio che si fa carico pienamente dell’istanza di sviluppo economico e sociale, bilanciandolo però con un irresistibile richiamo al dovere patriottico delle masse, che si traduca in rispettosa adesione alle direttrici politiche impostate dal Partito, accettando l’orizzonte perenne del suo mandato politico quale restauratore dell’unità nazionale e rigeneratore della civiltà cinese. In questo quadro va letta la decisione, storica, di ufficializzare la nuova «contraddizione fondamentale» che definisce la sfida di governance che il PCC affronta nella Cina odierna: come si evince dalla Relazione politica presentata dal Segretario generale Xi Jinping al 19° congresso nazionale del Partito nel 2017, esso dovrà fonda-mentalmente gestire la crescente domanda di migliore qualità della vita e protagonismo esistenziale da parte dei cittadini preservando la stabilità del quadro politico.

Tale stabilità non è da intendersi come stasi: come si osserverà in diversi capitoli di questo volume, sarebbe fuorviante ritenere il PCC impegnato in una battaglia di retroguardia per difendere il senso della propria missione storica a un secolo dalla fondazione (luglio 1921). Al contrario, la sua dirigenza è protesa verso la realizzazione di una formula di modernizzazione autoritaria accelerata che non ha precedenti per portata e celerità. Sotto la leadership di Xi Jinping si è registrata un’inedita enfasi sulla complessiva e pervasiva centralizzazione del controllo sugli apparati burocratici – Partito, Stato, Forze armate – e sulla totalità della società cinese, con l’obiettivo di massimizzare la capacità della RPC di concepire e implementare progettualità massive, fuori dalla portata di paesi che non sono in condizione di mobilitare in chiave sinergica le risorse dello Stato e della società, peraltro già di per sé eccezionalmente vaste nel caso cinese. Se il poter «fare cose grandi» è considerato il vantaggio comparato che il «socialismo con caratteristiche cinesi» interpretato dal PCC conferisce alla Cina, la pretesa di potestà del Partito «su tutti gli sforzi che si compiono in ogni parte del paese» ne è il prerequisito essenziale. Ne deriva un assetto di governance che ambisce a combinare un approccio «whole-of-government» – integrando funzionalmente il Partito e gli apparati statali, e accrescendo l’efficacia di questo combinato attraverso il diffuso impiego di nuove tecnologie – con la capacità di attivare l’intraprendenza della società cinese nel suo complesso, orientandola verso obiettivi qualificati come di interesse nazionale secondo una logica «whole-of-society». In altri termini, nell’arco di quasi dieci anni dall’ascesa al potere di Xi Jinping, la Cina ha sì avviato un vasto piano di riforme in ambito politico-istituzionale, ma questo appare di segno diametralmente opposto rispetto al genere di riformismo auspicato in Occidente, che prevedrebbe garanzie di una maggiore autonomia per la società civile e per l’impresa privata.

A questi lineamenti del «sistema-Cina», già agli antipodi della traiettoria di «evoluzione pacifica» auspicata da molti di coloro che negli Stati Uniti (e non solo) hanno sostenuto la politica di engagement verso Pechino, si sommano ora ambizioni di proiezione internazionale sia di carattere materiale che simbolico-discorsivo. Per molto tempo la dirigenza cinese aveva assecondato l’ammonimento a mantenere un «basso profilo» in politica estera formulato da Deng Xiaoping, artefice delle riforme e dell’apertura al mondo della RPC dopo la morte di Mao. Deng era conscio del fatto che la crescita economica avrebbe paradossalmente reso più delicato il posizionamento internazionale del paese, esponendolo al rischio esistenziale di essere presto o tardi considerato una minaccia da parte degli Stati Uniti, frattanto usciti vincitori dalla competizione con l’Unione Sovietica. Il ventennale «periodo di opportunità strategiche» evocato nel 2002 dal suo successore, Jiang Zemin, era dunque consapevolmente presentato come fase storica limitata nel tempo, durante la quale lo sviluppo economico e sociale del paese non sarebbe stato ostacolato da forze esterne, anche in forza di poderose cointeressenze commerciali e finanziarie. Politiche che potessero istigare reazioni respingenti da parte di Washington e dei suoi alleati sarebbero state controproducenti e furono infatti evitate.

CINA – Prospettive di un paese in trasformazione

a cura di Giovanni B. Andornino

il Mulino, euro 25, pagg. 352

Giovanni B. Andornino è docente di Relazioni internazionali dell’Asia orientale presso l’Università di Torino, dove dirige il TOChina Centre del Dipartimento di Culture, Politica e Società. È vicepresidente del Torino World Affairs Institute e direttore di «OrizzonteCina». Nel 2019 ha co-fondato il China-Italy Philanthropy Forum. Tra le sue pubblicazioni: «Italy’s Encounters with Modern China» (curato con M. Marinelli per Palgrave Macmillan, 2014) e «Eurasian Perspectives on China’s Belt and Road Initiative» (numero speciale di «China and the World Economy» curato con G. Prodi, 2017).